Superare il senso di inadeguatezza

Tutto nasce dal mio peggior difetto: la permalosità. Ci provo da sempre a limare questa odiosa caratteristica, ma non è semplice. Di contro, ho molta forza di volontà e mi impegno per fare bene le cose, anche per non sentirmi dire da qualcuno che ho sbagliato qualcosa. Quando perciò mio figlio ha iniziato a mostrare comportamenti ribelli o comunque non corrispondenti al modello del “bravo bambino”, io mi sono subito sentita giudicata come genitore e, al contempo, ho messo in dubbio la mia capacità di educare.

Si tratta di un meccanismo perverso, che non fa che generare ansia da prestazione in mio figlio. Io mi sto impegnando davvero tanto per superarlo, anche se significa demolire alcune parti di me che io definirei strutturali. Perché se è vero che il mio essere permalosa mi rende spesso arcigna e perfezionista, è altrettanto vero che sono una persona leale, che tiene fede agli impegni costi quel che costi, che è sempre puntuale, e così via. Possibile che i miei pregi siano un problema per mio figlio? Sì, possibile.

In questi anni ho imparato una cosa: i figli ti obbligano a crescere e a superare i tuoi limiti. Il mio limite è sempre stato la paura del giudizio altrui ed eccolo là, voilà, un bambino con dei comportamenti al di fuori della norma, al di fuori dello standard, nel bene e nel male. Un bambino che porta le maestre a lamentarsi, che nei suoi momenti peggiori si attira addosso gli sguardi di riprovazione delle altre persone . Un bambino di cui il gruppo whatsapp dei genitori parla male nonostante sappia che tra i partecipanti ci sono anche io, sua madre.

Un bambino eccezionale, è vero, che nei suoi momenti di buonumore non puoi fare a meno di notare. Un bambino a cui chiunque, per strada, fa regali semplicemente perché attratto dal suo carattere o divertito dalle sue battute di spirito. Ma anche un bambino eccezionalmente nervoso, scattoso, irascibile, iracondo, così difficile da avvicinare quando non è proprio in vena.

E invece io ho sempre voglia di piacere a tutti. Io, la signora sorriso stampato in faccia, che detesto fare polemica, odio litigare a meno che non si tratti di litigare con le persone con cui ho un legame stretto, quelle con cui posso ricucire subito dopo. Può sembrare contraddittorio, ma ho sempre odiato questo tratto così diplomatico del mio temperamento, mi è sempre sembrato un limite più che una risorsa. Non sarà un caso se il mio compagno e le mie migliori amiche sono fieri combattenti sempre pronti a dare battaglia per le cause a cui tengono. Confesso che, a volte, ho fatto combattere loro al posto mio. Non ne vado fiera, ma l’ho fatto. Loro, del resto, sanno che se c’è bisogno di razionalizzare e trovare soluzioni realistiche ad un problema, oppure se c’è da intavolare una trattativa, io sono la persona adatta.

Insomma, non sono un fuoco che arde, lo riconosco. E allora cosa fa il destino? Mi consegna questo bambino che è solo fuoco. Tutto completamente rosso.

Piccola parentesi: il valore delle prove

Penso che le prove arrivino a chi è in grado di sostenerle. Eppure, in questi giorni di grande sconforto, fatico a trovare le risorse per sostenere il mio compito. Sento il peso della responsabilità, sento le mie gambe in una specie di palude che prova a portarmi giù, e a volte sarebbe così semplice andare giù, senza pensare più a niente. Sarebbe semplice perché mi pare di non vedere la fine di questo acquitrino. Non mi spaventano le sfide, nonostante il mio carattere diplomatico, io amo le sfide e a modo mio sono molto forte. Ma devo avere davanti il mio obiettivo, altrimenti mi scoraggio e perdo la motivazione. Ecco, in questi giorni di grande sconforto, ho perso di vista l’obiettivo. Qual è? Imparare a gestire la situazione a casa? Aiutare mio figlio a crescere più forte? Aiutare la scuola a trovare la chiave per gestire i suoi momenti negativi? Affrontare la psicomotricità nelle piccole conquiste e nei piccoli inciampi quotidiani? Sì, forse questi sono i micro-obiettivi, ma mi manca una visione d’insieme, il grande traguardo finale. Vorrei il lieto fine, sì, l’ho detto. Ma questa è la vita, e il lieto fine non c’è, è solo questione di vivere al meglio ogni giorno. Lo so, sto cercando di accettarlo, ma adesso mi pare di non averne la forza. Sono nella palude, e questa prova mi pare ingiusta. Mi sto facendo la più classica delle domande vittimiste: perché a me? La mia fede nel valore delle prove sta vacillando, non mi sento poi così certa che le prove capitino a coloro che le possono sostenere. Forse capitano a caso, estratte dal bussolotto della sfiga. Sì, forse sì, e accettarlo sarebbe come raggiungere la saggezza massima, quella delle persone anziane che hanno vissuto tutte le guerre di una vita prima di arrivare alla conclusione che, tutto sommato, la cosa importante è essere riusciti a non morire prima degli altri.

Ma, se lo accettassi, dovrei rivoluzionare il mio modo di vedere le cose, di affrontare i problemi, di sopportare il dolore. Forse lo farò e alla fine mi rassegnerò all’ineluttabile verità, ovvero che le cose possono capitare a chiunque e in qualunque momento, senza possibilità di controllare o prevedere nulla. Ma prima di arrivarci, voglio credere ancora un po’ che le difficoltà siano commisurate alla forza d’animo di chi le incontra. Perché se smetto di farlo, non so proprio come potrò uscire da questo mio momento “no”.

Ma veniamo al punto

Torniamo al problema sollevato all’inizio, ovvero quanto sia difficile superare il senso di inadeguatezza quando i comportamenti di tuo figlio sembrerebbero indicare una tua insufficienza nel compito di educarlo. In realtà, quando alla fine arrivi alla diagnosi di ADHD o iperattività, le nubi per un istante sembrano diradarsi. Per anni hai creduto di essere una pessima madre e all’improvviso ti rendi conto che non sei stata né migliore né peggiore di qualunque altra madre, sei stata sufficientemente brava come tutte le madri, hai fatto come ogni madre ciò che era nelle tue possibilità e non hai peccato in nulla. Arriva la diagnosi e quel peso che avevi sul cuore cade improvvisamente. Ne arriva un altro, ancora più grande, perché realizzi che il “problema”, anche se il termine problema davvero non mi piace, ce l’ha tuo figlio, ma questo è un altro capitolo.

So che è orribile anche solo pensarlo, ma io con al nostra diagnosi a metà (che dovrà essere confermata o smentita tra un anno) mi sono sentita ricompensata per tutte le volte che qualcuno mi ha detto che non sapevo dare regole, che non volevo dare regole, oppure che davo troppe regole, che ero anaffettiva, oppure che ero troppo affettuosa, che l’avevo mandato troppo tardi a scuola, oppure che ce l’avevo mandato troppo presto, che lavoravo troppo, oppure che lavoravo troppo poco, che avevo dato troppe poche sberle o che ne avevo date troppe, e potrei continuare per ore.

Sono una donna meschina, ma per me è stata quasi una rivincita. Una disperata rivincita senza nessun vero vincitore. Una rivincita non solo inutile, ma anche umiliante, perché sentirmi appagata per la possibilità di smentire tutte le voci petulanti ascoltate non ha fatto che confermare il mio eccessivo attaccamento a quelle voci petulanti, le stesse che mi hanno fatto tanto male.

Il giudizio non esiste se chi è giudicato non avverte il potere giudicante delle parole di chi giudica. O no?

Ma io lo sento, l’ho sempre sentito. A scuola, in famiglia, sul lavoro: io voglio essere quella brava ragazza che svolge il compito alla perfezione. Per me, fare i conti con una quotidianità familiare turbolenta, turbata da un piccolo quattrenne che mi urla contro cose orribili, che ho paura anche a ripetere, non è solo un’umiliazione, è una sconfitta.

Ma, e qui voglio tornare al punto iniziale, io voglio credere che le cose capitino sempre per qualche motivo, e allora credo che Alessandro sia la mia occasione per uscire dagli steccati in cui vivo, per superare me stessa e scoprire il mio lato nascosto. Mentre lo scrivo, mi accorgo che sto facendo ancora un altro errore: sto proiettando addosso a mio figlio le mie aspettative, lo sto caricando di un compito che non dovrebbe spettare a nessun figlio, quello di salvare il proprio genitore.

Mi accorgo che dovrei smettere anche solo di pensarci su. Dovrei sedermi ad aspettare il nulla, dovrei sedere e fare come gli anziani che hanno fatto la guerra, accettare e punto. Ma stasera fatemi credere che ci sia qualcosa anche per me in questa situazione. Fatemelo credere, siate clementi.

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