Arrampicare quando sei mamma, in particolare se hai un bambino con l’ADHD

A maggio ho iniziato a fare arrampicata in palestra. Non c’è stata premeditazione: una mia collega ha detto “Sai che c’è un corso principianti nei giorni dispari?” e io ho risposto: “Dai! Andiamo!” Tre giorni dopo eravamo lì per la lezione di prova. Non ho più mollato: due volte a settimana, costi quel che costi, io vado.

Era da un po’ che volevo ritagliarmi del tempo per lo sport, ma non trovavo nulla che mi interessasse. In fondo, se dovevo fare uno sforzo organizzativo così grande per poi ritrovarmi in sala pesi, tanto valeva continuare a fare esercizi nel mio salotto.

Invece arrampicata sì. Perché sì? Mi ero ripromessa di non farlo: non fare elucubrazioni su ogni tua mossa, Laura, non farlo! Ma tanto sapevo che ci sarei cascata, l’ho saputo appena ho messo la prima volta il piede in quella palestra. Il fatto è che per me, prima ancora che una scelta su come passare il tempo libero (che in realtà non ho), è stata una scelta su come forzare la mia routine strapiena per inserire finalmente, dopo 7 anni, qualcosa di mio.

E che questo “qualcosa” sia uno sport e non un’attività intellettuale, creativa o lavorativa è, dal mio punto di vista, un enorme successo. Sì, perché lo sanno anche i muri che il cervello tende a monopolizzare un po’ tutto, nella mia vita. Eppure l’istinto, qui lo dico e qui lo nego, si sta ritagliando il suo piccolo spazio e forse non è più nemmeno tanto vero che sono tutta razionalità e controllo. Anzi.

Ma torniamo all’arrampicata. Perché?

Primo: è un’attività muscolare che richiede molta preparazione atletica, ma è anche un’attività che impone al corpo di misurare le sue energie e dosarle per arrivare alla meta. Questo allenamento, per me, è molto utile, perché mi aiuta a capire quando andare e quando invece fermarmi a riposare.

Ancora: è un’attività con picchi esplosivi seguiti da lunghe pause. Questo ritmo ciondolante mi calma e mi consola.

Altro motivo: mentre sali, o smetti di pensare ai tuoi problemi e ti concentri sul tuo prossimo passo, oppure cadi e ti fai male. I problemi, perciò, li devi lasciare fuori per forza.

E poi: lassù fa paura, io soffro di vertigini. A volte riesco a salire lo stesso, altre volte la paura mi blocca. Sto cercando di non arrabbiarmi con me stessa per le volte che non mi sblocco. Ma gioisco per ogni volta che sono in alto e non provo il terrore del vuoto.

Infine: da lassù si cade spesso, ma se ti lasci andare impari a cadere in modo morbido e non ti fai più male. Perdere il controllo e abbandonarsi quando ormai la caduta è inevitabile mi sembra faccia rima con “accettazione”. Chi mi legge sa quanto io abbia lavorato sull’accettazione. Forse arrampicare è il completamento di questo lungo percorso, la tappa finale.

E poi per me arrampicare significa anche un’altra cosa: forzare la mano, piegare tutti gli ingranaggi delle mie giornate a incastro e uscire dalla cornice, andare lì dove non ho nessun altro problema se non quelli che riguardano me, soltanto me, le mie paure, le mie insicurezze, i miei muscoli che a volte non funzionano. Qualunque persona si merita il suo tempo, ma io mi sento come se mi fossi regalata una villa a Bervely Hills, talmente alto è il valore che do a questo tempo che mi dedico. Penso che, se sono riuscita a rinunciare a una piccola porzione del tempo in famiglia, significa anche che la famiglia, oggi, funziona un po’ meglio rispetto a qualche mese fa.

Significa che riesco a lasciar andare qualcosa. Così come riesco a cadere da quelle pareti, riesco a soffrire un po’ di meno se torno a casa e trovo mio figlio con l’ADHD che è come una scheggia impazzita perché magari è stanco. So che non posso fare molto di più in quel momento se non accompagnarlo con pazienza verso il sonno. So che, se avessi trascorso lì anche le due ore precedenti, non avrei di certo avuto un risultato diverso. So che il giorno successivo potrò recuperare in qualche modo quel tempo, so che in mia assenza Federico avrà fatto tutto ciò che avrei fatto anche io, forse molto meglio di come lo avrei fatto io.

E non mi sento più in colpa.

Un po’ mi ci sono sentita, un paio di settimane fa, quando ho chiesto a mia madre di tenere i bambini mentre Federico faceva una notte e io volevo andare in palestra. Ma mi sono sforzata di passare oltre quel senso di colpa e sono andata lo stesso. Federico mi ha scritto un bel messaggio: Non sentirti così. Dobbiamo insegnare ai nostri figli ad avere cura di se stessi, ma dobbiamo dare l’esempio noi per primi, altrimenti da chi impareranno?

E così io arrampico. Non sono brava, sono la peggiore della classe. La mia insegnante mi rimprovera spesso perché davanti ad alcuni ostacoli e ad alcune fatiche io mi fermo. Lei non sa che gli ostacoli io in quel momento li sto affrontando lo stesso, solo che non si vedono, li vedo solo io. Per me va bene così, io so la fatica che mi sento nelle gambe, nelle braccia e nel cuore quando sono lì. Io so quanto mi renda felice il fatto stesso di sentirmi felice lì, senza uno scopo, mentre cado all’indietro sul materasso quando una presa mi scivola da queste mani imbranate. Come faccio a spiegarle che io sono una blatta e so camminare sui muri, ma a volte cado e resta a pancia all’aria e va bene così?

Poi esco da lì, entro in macchina, metto la musica e mi sento come se avessi circumnavigato l’Africa, esplorato la Malesia, dormito in tenda al polo nord. L’adrenalina mi batte nel petto e sono felice. A casa, i miei figli mi aspettano entusiasti ed elettrici, sfibranti, meravigliosi. A volte Alessandro ha una piccola crisi dovuta al sonno, ma non fa niente. Metto via la sacca della palestra, sono di nuovo la loro mamma.

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