Crisi, ADHD e DOP. Ovvero il richiamo della sirena.

Dicono che ci sia sempre un motivo per le crisi di un bambino con ADHD. Sembrano scoppiare all’improvviso e senza una ragione, ma gli esperti dicono che c’è un motivo. La ragione sa che c’è sempre un motivo, ormai l’ha capito, ma il cuore fa fatica ad accettarlo. Il cuore, quello scemo che cerca di proteggersi quando qualcosa è troppo dirompente, il cuore che cerca ragioni che in realtà non sono ragioni, ma tentativi di dare un nome ai sentimenti. La ragione è un’altra cosa, lei percorre la sua strada, scava lentamente nell’anima e arriva sempre dopo, più tardi, a volte anche quando è troppo tardi. Arriva che ormai l’onda d’urto delle emozioni ti ha travolto e ti ha lasciato così, a sentire tutto quel sentimento, che a volte è proprio troppo, dai.

È troppo mentre un figlio ha le sue crisi. Troppo mentre lui lancia oggetti (stasera un peluche lanciato sul tavolo ha mandato in frantumi il bicchiere di vetro nei nostri piatti di insalata. Brillavano, quelle schegge, come silicio sul bagnasciuga), rompe oggetti (poco fa una mensola è stata spaccata, era un oggetto fatto a mano da un’artigiana, non esisterà mai più un’altra mensola uguale) e urla cose (preferisco non citarle) che nessuno dovrebbe mai avere l’onere di sentir uscire dalla bocca del proprio figlio, soprattutto quando quest’ultimo ha solo 3, 5 o 8 anni.

Il tuo cuore si agita perché balla insieme al suo. Il suo è in crisi, trascina anche il tuo con sé. Si aggrappa alla tua lucidità e la porta giù, è una sirena che ti afferra per la caviglia e ti porta nell’abisso, in un mondo confuso, popolato di ombre e segnali difficili da decifrare.

La ragione intanto sa che c’è una via d’uscita. Lei è stata istruita, ci prova. Le risuonano in testa tutte le sessioni di parent training, le tecniche comportamentali ascoltate e assimilate, le migliaia di pagine lette e studiate nel tentativo di comprendere, capire, sapere, vedere, diventare capaci.

Diventare capaci.

Capaci di tradurre le crisi, di dargli un senso, di affrontarle sul momento e di riprenderle più tardi, con calma, dopo l’onda, quando sul bagnasciuga restano pezzi di legno di chissà quale naufragio, gusci vuoti, oggetti persi in passato da un bagnante sfortunato.

Capaci di attendere il momento della risacca per analizzare. Capaci di analizzare respingendo le proteste del cuore offeso e appellandosi alla ragione, alla competenza, alle tecniche di gestione.

Una volta un pediatra mi disse una frase: “Contenetelo con amore”.

Mio figlio aveva solo 3 anni, noi non sapevamo niente di quello che sappiamo adesso. Vedevamo una scheggia impazzita che si faceva detestare da chiunque, che in alcune occasioni io stessa detestavo, anche se subito dopo mi sentivo una merda. Il pediatra mi disse così: contenetelo con amore. Contenetelo, perché era ovvio che non potesse essere abbandonato alle sue crisi e che per contenerlo servisse la “ragione”. Ma con amore, perché non poteva esservi contenimento senza connessione, e per la connessione occorreva l’amore.

Non sto dicendo che in quel periodo non lo amassi. L’ho sempre amato, forse più per le sue fragilità che per i suoi punti di forza. Ma non riuscivo più a trovare un equilibrio tra quel sentimento primordiale e la responsabilità verso me stessa, anch’essa una forma di amore, se ci pensate.

Io credo che da quella frase pronunciata da un pediatra anonimo, un occhialuto giovane medico (un tirocinante?) mai più incontrato, sia iniziato tutto il mio percorso.

Non parlo del percorso fatto per mio figlio, parlo proprio del mio.

Credo che il percorso per mio figlio (diagnosi, cure, tutto) lo avrei fatto lo stesso, spinta in un modo o nell’altro dal senso del dovere, nonché dall’istinto del genitore che le prova tutte finché non capisce quale possa essere la strada migliore.

Parlo però del mio percorso. Una strada avventurosa, a tratti stretta come una fessura in un canyon a rischio crollo, alla ricerca della capacità di contenere con amore. Amore per lui, ma anche per me stessa. Imparare ad aiutare lui senza scordare me, il tentativo di amarlo nonostante le sue zone d’ombra o forse di amarlo di più proprio per le sue zone d’ombra. E più di tutto la capacità di accogliere le sue zone d’ombra senza però lasciarmi oscurare, senza farmi offendere, impedendo alla mia parte più fragile di sentirsi colpita. E questa è stata la prima fase (“contenetelo con amore”). Poi è arrivata una fase ancora più difficile: contenetelo e accettate pure che vi possa ferire (perché gesti e parole – certi gesti e certe parole – feriscono, c’è poco da fare), ma imparate anche a curare quelle ferite.

Come.

Eh.

Accettando che quelle ferite fossero in me da molto più tempo, e che riguardassero le crisi solo perché erano queste ultime a tirarle fuori dal loro budello, un budello più profondo di quanto credessi.

Come quando inizi a sventrare un pesce e gli intestini escono, escono, sembrano non finire mai.

Ci ho messo anni, ma ora ho capito una cosa. Che mio figlio ha le sue crisi, così difficili da accettare, ma gestibili – in fondo – con l’aiuto delle tecniche comportamentali, del parent training, dei consigli degli esperti e dei libri. Mio figlio ha le sue crisi perché ha l’ADHD e il DOP, perché ha momenti di meltdown come ogni bambino con autismo, o forse come ogni bambino. E le sue crisi si possono gestire, sì, per quanto siano odiose e provochino la rottura di oggetti, a volte anche preziosi.

Ma le ragioni del cuore quelle riguardano me. La reazione del mio cuore alle sue crisi è roba mia, solo mia, e solo io me la devo vedere con lei.

Quindi quella mano di sirena che mi afferra la caviglia e che mi porta giù, nell’abisso dove ci sono le ombre apparentemente incomprensibili e senza forma, quella mano forse non è la mano di mio figlio. È la mia stessa mano, è il mio richiamo di sirena che vuole farmi vedere cosa c’è lì nelle mie budella, nelle viscere, cosa urla che vuole essere ascoltato, visto, capito, compreso e infine contenuto con amore.

Nessun viaggio nell’altro può iniziare per davvero se prima non scegliamo di fare lo stesso viaggio anche dentro di noi. Contenendoci con amore.

Il mio infortunio

In estate ho avuto un brutto incidente e mi sono rotta la schiena. Letteralmente rotta la schiena.

Subito dopo l’infortunio ho avuto un immenso crollo emotivo, una cosa mai provata prima, mai. Un dolore sordo, ottuso e potente proveniente dalle zone più profonde della mia psiche. Era una voce a cui forse non avevo mai voluto dare ascolto. Un urlo baritonale che partiva dallo stomaco per salire fino alla gola, rimbalzare contro il palato e venir fuori come un richiamo primitivo, un impudico e scostumato e straziante lamento funebre.

Piangendo e urlando e prendendo coscienza del fatto che sì, muovevo ancora le gambe ma no, non stavo affatto bene, ho iniziato a ripetere questa frase: “Non mi posso bloccare. Io non mi posso bloccare”. E in quel momento di poca lucidità io non pensavo nè alla schiena nè a una possibile paralisi, io pensavo che il giorno dopo mi sarei dovuta assolutamente rimettere in macchina per portare i miei figli a scuola, andare a lavoro e soprattutto accompagnare Alessandro a fare le sue terapie. E così nei giorni successivi, e la settimana dopo ancora, e per sempre. E se io fossi stata assente, non ne avrebbero sofferto solo i figli, ma anche il mio compagno, che avrebbe dovuto fare altre cose al posto mio, oltre a fare già tutte le sue.

Io non mi posso bloccare. Non mi sarei mai potuta bloccare, anche perché giusto il giorno prima, proprio il giorno del mio compleanno, ci avevano detto su Alessandro che oltre all’adhd e al dop e alla plusdotazione c’era anche l’autismo. Un nuovo elemento con cui familiarizzare. Potevo bloccarmi proprio adesso? No. Eppure ero a terra, e prima ancora di venire a sapere di avere la schiena rotta, sapevo già di aver aperto una voragine, da qualche parte dentro di me.

Poi mi hanno messo un busto che ho portato due mesi. Ci sono state notti insonni con il mal di schiena, giornate estenuanti, un’estate che è passata con una lentezza crudele. Apparentemente sono riuscita a tenere in piedi la nostra routine, eppure quell’incidente è stato un punto di non ritorno. La ragione è che mi ha messo di fronte alla mia grande fragilità, un aspetto con cui avrei sperato di non dover mai fare i conti. Ma la fragilità esiste, e quanto più saremo stati bravi a costruire la nostra forza (o corazza), quanto più fragorosa dovrà essere la caduta che infine ci spezzerà. Perché la verità è che nessuno può illudersi di non essere fragile, corruttibile o soggetto alle fatalità. Nemmeno chi deve prendersi cura delle fragilità di qualcun altro. Nemmeno un caregiver. Anche se il fardello che portiamo è enorme ed è proprio lui, in fondo, ad averci reso così forti e resistenti, possiamo cadere ad un colpo di vento. Magari non al primo, magari nemmeno al secondo, ma prima o poi state certi che anche noi cadiamo.

Non ho ancora accettato la scoperta della mia fragilità. Oltre alle mie ossa, si è rotto quell’involucro in cui custodivo, o forse nascondevo, quella parte di me così insospettabile, delicata e vulnerabile. Potrei dire che ora sono più vicina a conoscermi, ma in realtà mi sento solo più lontana da quella che ero, quindi ancora senza una direzione futura e con un presente complicato. Però i punti di non ritorno sono quello che sono, ovvero punti di partenza. Una cosa di cui perciò sono certa è che è stata una partenza, anche se verso l’ignoto. Non sono fiera di come sto andando in questo viaggio. Sono una donna acciaccata che mette un piede dietro l’altro e che ormai si commuove per poco. So però che non mi sto opponendo al viaggio, dunque vado.

Dopo aver appreso dai medici della mia schiena rotta ho scritto una poesia. Si intitola Frida e la pubblico ora, a distanza di quasi 1 anno, perché ho avuto bisogno di meditare a lungo prima di espormi. Ma la poesia c’è e penso che sia un testo sincero, per cui la scrivo qui in attesa che quel ricordo si allontani fino a diventare solo uno dei tanti episodi che compongono la sinfonia di una vita.

FRIDA

Non si sono nemmeno avvicinati
a girare il dito nella piaga
tanto gli facevo schifo.

Sono devastata
schiena spezzata
Frida di periferia
Dea Khali che regge così tante cose
così tante cose
e il tronco è marcio.
Il tronco è marcio.
La colonna portante ha vacillato
il tetto è venuto giù.
Ero in una teca per insetti
esposta mentre piangevo
e tutti guardavano
compatendo la pazza, la strega esausta.
Guardatela, è lei che strilla!
Scrofa sgozzata!

Come uno scarafaggio
mi sono dimenata, poi girata
prima sulla pancia
infine sulle gambe
con lo scheletro e il cuore fatti a pezzi.

Pensavano piangessi per lo scheletro
invece celebravo la morte del cuore.

Arrampicare quando sei mamma, in particolare se hai un bambino con l’ADHD

A maggio ho iniziato a fare arrampicata in palestra. Non c’è stata premeditazione: una mia collega ha detto “Sai che c’è un corso principianti nei giorni dispari?” e io ho risposto: “Dai! Andiamo!” Tre giorni dopo eravamo lì per la lezione di prova. Non ho più mollato: due volte a settimana, costi quel che costi, io vado.

Era da un po’ che volevo ritagliarmi del tempo per lo sport, ma non trovavo nulla che mi interessasse. In fondo, se dovevo fare uno sforzo organizzativo così grande per poi ritrovarmi in sala pesi, tanto valeva continuare a fare esercizi nel mio salotto.

Invece arrampicata sì. Perché sì? Mi ero ripromessa di non farlo: non fare elucubrazioni su ogni tua mossa, Laura, non farlo! Ma tanto sapevo che ci sarei cascata, l’ho saputo appena ho messo la prima volta il piede in quella palestra. Il fatto è che per me, prima ancora che una scelta su come passare il tempo libero (che in realtà non ho), è stata una scelta su come forzare la mia routine strapiena per inserire finalmente, dopo 7 anni, qualcosa di mio.

E che questo “qualcosa” sia uno sport e non un’attività intellettuale, creativa o lavorativa è, dal mio punto di vista, un enorme successo. Sì, perché lo sanno anche i muri che il cervello tende a monopolizzare un po’ tutto, nella mia vita. Eppure l’istinto, qui lo dico e qui lo nego, si sta ritagliando il suo piccolo spazio e forse non è più nemmeno tanto vero che sono tutta razionalità e controllo. Anzi.

Ma torniamo all’arrampicata. Perché?

Primo: è un’attività muscolare che richiede molta preparazione atletica, ma è anche un’attività che impone al corpo di misurare le sue energie e dosarle per arrivare alla meta. Questo allenamento, per me, è molto utile, perché mi aiuta a capire quando andare e quando invece fermarmi a riposare.

Ancora: è un’attività con picchi esplosivi seguiti da lunghe pause. Questo ritmo ciondolante mi calma e mi consola.

Altro motivo: mentre sali, o smetti di pensare ai tuoi problemi e ti concentri sul tuo prossimo passo, oppure cadi e ti fai male. I problemi, perciò, li devi lasciare fuori per forza.

E poi: lassù fa paura, io soffro di vertigini. A volte riesco a salire lo stesso, altre volte la paura mi blocca. Sto cercando di non arrabbiarmi con me stessa per le volte che non mi sblocco. Ma gioisco per ogni volta che sono in alto e non provo il terrore del vuoto.

Infine: da lassù si cade spesso, ma se ti lasci andare impari a cadere in modo morbido e non ti fai più male. Perdere il controllo e abbandonarsi quando ormai la caduta è inevitabile mi sembra faccia rima con “accettazione”. Chi mi legge sa quanto io abbia lavorato sull’accettazione. Forse arrampicare è il completamento di questo lungo percorso, la tappa finale.

E poi per me arrampicare significa anche un’altra cosa: forzare la mano, piegare tutti gli ingranaggi delle mie giornate a incastro e uscire dalla cornice, andare lì dove non ho nessun altro problema se non quelli che riguardano me, soltanto me, le mie paure, le mie insicurezze, i miei muscoli che a volte non funzionano. Qualunque persona si merita il suo tempo, ma io mi sento come se mi fossi regalata una villa a Bervely Hills, talmente alto è il valore che do a questo tempo che mi dedico. Penso che, se sono riuscita a rinunciare a una piccola porzione del tempo in famiglia, significa anche che la famiglia, oggi, funziona un po’ meglio rispetto a qualche mese fa.

Significa che riesco a lasciar andare qualcosa. Così come riesco a cadere da quelle pareti, riesco a soffrire un po’ di meno se torno a casa e trovo mio figlio con l’ADHD che è come una scheggia impazzita perché magari è stanco. So che non posso fare molto di più in quel momento se non accompagnarlo con pazienza verso il sonno. So che, se avessi trascorso lì anche le due ore precedenti, non avrei di certo avuto un risultato diverso. So che il giorno successivo potrò recuperare in qualche modo quel tempo, so che in mia assenza Federico avrà fatto tutto ciò che avrei fatto anche io, forse molto meglio di come lo avrei fatto io.

E non mi sento più in colpa.

Un po’ mi ci sono sentita, un paio di settimane fa, quando ho chiesto a mia madre di tenere i bambini mentre Federico faceva una notte e io volevo andare in palestra. Ma mi sono sforzata di passare oltre quel senso di colpa e sono andata lo stesso. Federico mi ha scritto un bel messaggio: Non sentirti così. Dobbiamo insegnare ai nostri figli ad avere cura di se stessi, ma dobbiamo dare l’esempio noi per primi, altrimenti da chi impareranno?

E così io arrampico. Non sono brava, sono la peggiore della classe. La mia insegnante mi rimprovera spesso perché davanti ad alcuni ostacoli e ad alcune fatiche io mi fermo. Lei non sa che gli ostacoli io in quel momento li sto affrontando lo stesso, solo che non si vedono, li vedo solo io. Per me va bene così, io so la fatica che mi sento nelle gambe, nelle braccia e nel cuore quando sono lì. Io so quanto mi renda felice il fatto stesso di sentirmi felice lì, senza uno scopo, mentre cado all’indietro sul materasso quando una presa mi scivola da queste mani imbranate. Come faccio a spiegarle che io sono una blatta e so camminare sui muri, ma a volte cado e resta a pancia all’aria e va bene così?

Poi esco da lì, entro in macchina, metto la musica e mi sento come se avessi circumnavigato l’Africa, esplorato la Malesia, dormito in tenda al polo nord. L’adrenalina mi batte nel petto e sono felice. A casa, i miei figli mi aspettano entusiasti ed elettrici, sfibranti, meravigliosi. A volte Alessandro ha una piccola crisi dovuta al sonno, ma non fa niente. Metto via la sacca della palestra, sono di nuovo la loro mamma.

Autismo

Ora sappiamo che Alessandro rientra nello spettro autistico. Lo sappiamo da un mese, il giorno dopo averlo saputo io sono caduta da una parete in palestra e mi sono fatta male, molto male. La sconterò a lungo questa mia superficialità, credere di non accusare mai nulla ma poi cadere per i troppi pensieri.

Comunque.

Spettro autistico. In verità me lo aspettavo. Se proprio devo essere sincera, non sono dispiaciuta. Mi sembra anzi che ora tutto torni, che tante piccole cose abbiano finalmente un senso. Per esempio i guanti di lana indossati in maniera ossessiva, anche a scuola, per tutto l’inverno. Non poter uscire senza avere sempre qualcosa in mano, spesso più di un oggetto per singola mano. Raccogliere sassi a decine, ovunque, scavando pure nell’asfalto. Ripetere molte volte le stesse cose, senza curarsi dell’interesse del prossimo. Percepire tutto in maniera eccessiva, anche le più fini sensazioni dei tessuti sulla pelle. Avere il rifiuto della cuffia della piscina sulle orecchie. Sminuzzare i fogli all’infinito, perdersi con le mani nelle sostanze vischiose. E tutti quei tic.

Adesso che so, tutto è più chiaro.

Inoltre lo sapevo già. Sono 7 anni che lo so. Qualche mese fa, a una festa, ho persino detto “È autistico” a una mamma venuta da me a lamentarsi del suo comportamento. Volevo farla sentire una merda, ci sono riuscita dicendole quella che all’epoca era ancora una bugia, anche se io sapevo che forse era una verità.

Che poi autismo, adhd, dop. Cosa cambia a noi che non facciamo i medici? Sono solo nomi. Tutto quello che mi serve, tutto quello che serve anche a lui, è qualcuno che ci dica come funziona e come va oliato il meccanismo, così possiamo andare avanti. Che poi il nome sia A, B o C, la sostanza è sempre la stessa.

La dottoressa dell’ospedale è affascinata dal funzionamento di Alessandro. Dice che è atipico, simpatico, socievole, con un’intelligenza fuori da ogni standard, che il suo futuro si prospetta privo di difficoltà perché ha il giusto aiuto.

Nel reparto, lui è la star. Lì ci sentiamo così forti, così fortunati. Brilliamo di luce riflessa.

Fuori invece abbiamo una routine che ci toglie il fiato. Cerchiamo di galleggiare, a volte la nostra vita fa davvero schifo, altre volte ci sentiamo pieni di gratitudine. Cerchiamo di godere sempre di quello che c’è, perché sappiamo che a tanti altri va molto peggio. Un giorno siamo superstar, il giorno dopo latrine.

Un giorno crediamo di poter accettare con facilità la frase “vostro figlio è nello spettro autistico”. Il giorno dopo cadiamo sotto i nostri stessi pensieri e ci fracassiamo la schiena.

E va bene così. Va bene così. Non desidero nulla di diverso, davvero.

Come stai

Come sto. Me lo chiedono spesso le persone amiche. Come sto. Rispondo sempre “bene” ma a volte lo sguardo mi tradisce. A volte invece sto davvero bene.

Qualche mese fa ho avuto una specie di burnout, chiamiamolo crollo, dopo un incidente.

Come sto dopo questi eventi. Non ho ancora una risposta, molte cose stanno sfumando da sole, altre hanno bisogno di essere messe a fuoco e ci vorrà tempo.

Non sono fuori dal buco, ma vedo i contorni della mia piccola trasformazione. Più dura e pragmatica, forse più lucida, un po’ delusa da una fragilità che non sapevo di avere, ma più consapevole dei limiti. Sempre coriacea come la blatta, ma forse meno ostile. Un maggiolino, allora?

Come starò in futuro. Anche questo me lo chiedono spesso. La domanda successiva è “andrà meglio con tuo figlio negli anni?”. Dico sempre di sì, perché un po’ ci credo, ma anche perché non mi va di spiegare le cose ogni volta da capo. Mi sembra una domanda così insensata. Se lui fosse su una sedia a rotelle, per esempio, nessuno mi chiederebbe mai “pensi che un giorno potrà camminare?”.

La cecità di fronte alla malattia o alla diversità psichiatrica, che tutti vorremmo far passare, che tutti ci illudiamo possa passare solo con la buona volontà del paziente. Ma non è così.

Il cervello è plastico, si adatta. La psiche è resiliente, impara a sopravvivere, ok. Ma la diversità resta diversità, perché questo desiderio di normalizzare?

Sì, probabilmente le cose miglioreranno (grazie al lavoro di tutti noi, prima di tutto di Alessandro). Sì, certo che impareremo a convivere sempre meglio con alcune peculiarità o difficoltà, ma la nostra vita è questa e non cambierà. Continueremo a destreggiarci tra terapie, colloqui ordinari o d’urgenza, consulti, dubbi, spese. E avremo sconfitte e soddisfazioni, come tutti.

Io non voglio che questa mia vita cambi, io al contrario voglio imparare a stare comoda nella mia vita. Io la mia vita l’ho gia accettata, anzi mi piace da morire. Mi piace sapere che ho una sfida al giorno, che ci sono ostacoli da superare e che il premio e al tempo stesso la moneta di scambio non sono soldi o coppe dorate o carriera o targhe sul muro, ma amore. Mi piace che non sempre ci sia il premio ma che sempre ci sia un prezzo da pagare. Ormai adoro, anzi voglio che la mia vita sia diversa, atipica, che la mia famiglia sia costruita attorno a una nota discordante. Non c’è alcun bisogno che questo cambi, non ho bisogno di pensare che andrà meglio. Ma ho bisogno di imparare a stare bene anche il giorno in cui va tutto male.

Come sto. Ogni tanto male, grazie, ma va bene.

Sibling: essere il fratello di un ADHD (e Dop, e autistico, ma vabbè…)

Flavio ha 4 anni, è biondo, ha gli occhi azzurri, un buon carattere, è forzuto ed ha una bella tempra. Flavio si può definire in molti modi, ma una delle sue definizioni è che è un sibling.

I sibling sono i fratelli di disabili.

La disabilità di un membro della famiglia definisce anche gli altri membri della famiglia stessa?

Dispiace dire che è così. Sembra una prospettiva disabile-centrica, ma cavolo se è vero. Perché se vivi con una persona che ha un problema, vivi il suo problema. Se vivi con una persona che ha delle peculiarità, quelle peculiarità influenzano la tua vita, nel bene e nel male.

Mi costa fatica definire Flavio usando ancora una volta Alessandro, mi sembra di sottovalutarlo, ma non è affatto così e del resto non posso fare altrimenti. Poi, intendiamoci bene, Flavio è miliardi di altre cose (4 anni, biondo, occhi azzurri, forte etc.) ma il fatto di crescere e confrontarsi con un fratello come il suo è uno degli elementi con cui fa i conti dalla nascita, quindi rientra nei criteri di definizione.

I rapporti tra fratelli sono sempre molto complicati. Il fratello è il pari con cui ti raffronti in famiglia, qualche volta è un alleato, altre volte un nemico. Comunque, resta uno specchio in cui vedi un percorso simile al tuo, con cui condividi le regole e la guida dei genitori. Ma è proprio quel “pari” che, nelle famiglie con un bambino disabile, secondo me viene a mancare. Perché, per quanto tu genitore cerchi di dosare le energie per entrambi e di far arrivare il tuo amore nella stessa misura, il bambino che ha bisogni più impellenti non è mai il sibling. Ci sarà sempre una terapia a cui portare l’altro, una riunione con la scuola, un appuntamento alla Asl, una pratica dell’INPS che sottrarrà tempo al figlio senza disabilità. E al figlio senza disabilità si chiederà sempre di fare quel piccolo sforzo in più per capire e tollerare il fratello.

Quindi, di quale parità parliamo? La situazione è al contrario impari, a me a tratti sembra addirittura ingiusta (ma forse qui è il senso di colpa a parlare al posto mio) e quindi penso che il rapporto tra un sibling e suo fratello sia meno alla pari rispetto al classico rapporto tra fratelli. Tuttavia, dicono che per il sibling crescere con un fratello “diverso” sia anche una grande risorsa, che se il sibling viene coinvolto in modo positivo nella gestione familiare, ne può uscire più maturo, sensibile e consapevole.

Flavio ha solo 4 anni e ancora non so che piega prenderà la sua personalità nei prossimi anni. Non so se ne uscirà responsabilizzato e sereno oppure solo ribelle e arrabbiato. Cercherò di dargli tutti gli strumenti di cui avrà bisogno, così come oggi cerco di non fargli mancare affetto e attenzioni, ma mi rendo conto che per lui non deve essere semplice convivere con un fratello che sì, è divertente, brillante e simpatico, ma che al tempo stesso quando è arrabbiato (e ci sono periodi in cui lo è spesso) urla, offende e lancia le sedie. Penserà che quel comportamento sia normale? Questo è il motivo per cui, dopo una crisi di Alessandro, solitamente anche Flavio si mette a urlare, sebbene a lui passi subito?

Dicono anche che, per un sibling, non esiste la percezione di anormalità nel rapporto con il fratello disabile, perché lo ha visto nascere o è nato dopo di lui, per cui considera normale avere un fratello con quelle caratteristiche. Certo, non lo metto in dubbio, ma non so quanto sia piacevole.

Purtroppo il rapporto tra loro due non è dei migliori. Non giocano mai, se non in rarissime circostanze e situazioni particolari, si stuzzicano di continuo e ogni scambio verbale si trasforma immediatamente in scontro. “Ma questo è normale tra fratelli”, direte voi. Può darsi, ma non credo che sia normale che avvenga il 100% delle volte e del tempo che passano insieme. Il fatto è che, in presenza di un disturbo del comportamento, la qualità delle relazioni si abbassa moltissimo. Non è certo colpa di chi ha il disturbo, ma non posso biasimare chi non ha nessun disturbo e si trova alle prese con la persona che invece ce l’ha, e che magari risulta aggressiva, scortese, fastidiosa.

Mettiamoci anche che Flavio ha sempre e solo 4 anni, per cui può capire fino a un certo punto. Per lui, stuzzicare il fratello per avere la sua attenzione, fosse anche un bel calcio nel didietro, è del tutto normale, oltre che appropriato alla sua età. Ma dall’altra parte c’è Alessandro che non tollera i bambini più piccoli di lui, e che in aggiunta nutre verso il fratello una grandissima gelosia. Non posso biasimare neanche lui, che per quanto cresca circondato di attenzioni e facilitazioni, dovrà pur provare un pizzico d’invidia per quel bel fratello biondo-occhi azzurri dietro cui tutti si sciolgono e a cui le relazioni amicali vengono così facili, al contrario di se stesso che invece fa un’enorme fatica a gestire emozioni, affetti e tutto.

Insomma, questo mix fratello normodotato/fratello atipico/immaturità dei 4 anni/ maturità ancora parziale dei 7 anni/carattere forte di Alessandro/carattere altrettanto forte di Flavio diventa spesso esplosivo. Molto spesso. Così spesso che anche la psicologa di Alessandro, dopo averli avuti qualche volta insieme nell’ora di terapia, mi ha detto che vuole lavorare proprio sul loro rapporto.

E io lì ho tirato un sospiro di sollievo, perché sono 4 anni che penso di non potercela fare da sola, che nel loro legame così avviluppato e poco funzionale io non riesco a metterci le mani, non so da dove cominciare. Allora va bene chiedere aiuto, forse qualcuno dall’esterno potrà guidare questi due fratelli verso la loro dimensione.

Perché poi si vogliono bene, di questo esistono tante piccole prove, ma sono come quelle coppie che non fanno che litigare e che alla fine, se non vogliono divorziare, devono affidarsi al terapista.

Flavio ha solo 4 anni, è biondo, ha gli occhi azzurri. Ha una stazza importante, inoltre ha una personalità accesa. Orgoglioso, fumantino, ma anche socievole e collaborativo, preciso e acuto. Inoltre Flavio è un sibling, vive con un fratello che non sa regolare le emozioni e che non sa ancora interagire al meglio con il mondo.

Quando Alessandro ha una crisi, a volte Flavio ha paura. Altre volte si isola e gioca da solo. Qualche volta mi guarda e si limita ad alzare le spalle. Cerco di spiegargli sempre che non deve avere paura, perché Alessandro abbaia ma non morde. Poi, magari tra qualche anno, spero che voglia ascoltare tutta la storia e che capisca che di suo fratello c’è da essere anche fieri, per tutto l’impegno che ci ha messo. E spero che mi crederà quando gli dirò che anche di lui c’è da esser fieri, perché ha vissuto con noi una grande avventura, una corsa sfrenata nella vita senza possibilità di riprendere fiato, mai. Spero che sappia capire il valore della diversità, lui che una diversità ce l’ha avuta sotto gli occhi da quando è venuto al mondo.

Spero che questo piccolo “peso” che l’universo gli ha assegnato si faccia in lui risorsa, quando sarà in grado di capire quanto riesce a sostenere. Spero più di ogni altra cosa che lui e il fratello riescano a trovare il modo di comunicare e stare bene insieme, almeno ogni tanto, anzi sempre più spesso. Il mio desiderio è questo.

Flavio ha solo 4 anni, ma ha già tanto da raccontare, e questo lo deve anche al suo essere nato sibling.

ADHD e insegnante di sostegno. Il nostro incontro speciale.

Quest’anno, prima elementare, abbiamo fatto un incontro con una persona speciale. Non scriverò il suo nome perché questo blog è un po’ anonimo, un po’ pubblico, mezzo privato, non si capisce. Io, per privacy, non farò nomi, tanto lei si riconoscerà nelle mie parole e saprà che sto parlando proprio di lei, la maestra ***.

In questi anni mi è capitato già altre volte di conoscere persone sopra le righe, educatori ed educatrici che ci hanno donato l’anima e che hanno e avranno sempre un posto speciale nel nostro cuore. Ma questa volta, con questa persona, Anno Scolastico 2021-22, è stato magico. Sarà anche che le aspettative erano molto basse: pensavamo che la prima elementare sarebbe stata una grande corsa a ostacoli, che Alessandro non sarebbe mai riuscito nemmeno a sedersi al banco. Credevamo che si sarebbe rifiutato di andare a scuola, o che avrebbe passato la maggior parte del tempo fuori dalla sua classe. Invece è partito bene, con i suoi ritmi (cioè ritmi troppo veloci), le rigidità, i suoi libri fantasy nello zaino al posto dei quaderni a righe, la scritta “rifiuti tossici” sulla copertina del quaderno di religione, i momenti critici, ok, eppure tutto bene, tutto sommato.

Ha avuto fasi difficili, a volte siamo corsi a prenderlo perché era esploso o stava per farlo, ha intimidito non pochi compagni con i suoi atteggiamenti, questo lo sappiamo. Ha anche passato molto tempo seduto a terra, si è rifiutato di svolgere alcune attività, ma con le sue orecchie sempre vigili ha afferrato ogni concetto e non è rimasto mai indietro, neppure di un singolo passo.

La classe, piano piano, l’ha accettato e lui ha accettato loro. I bambini sono favolosi, soprattutto quando i genitori riescono ad accompagnarli nel percorso di conoscenza del diverso.

Lui è passato dal dire “Gioco solo con un amichetto e mi stanno antipatici Tizio e Caio” al dire “Sono tutti amici miei”.

Che anno stancante e bello. E il merito va ad Alessandro, certamente, ma anche alla sua maestra di sostegno, ed è appunto di lei che vorrei scrivere. Una persona intelligente, perspicace, intuitiva, sincera, trasparente. Un’insegnante che si è sempre posta con umiltà nel suo ruolo, con l’intento di capire prima di agire.

Ha voluto conoscere Alessandro, per qualche settimana l’ha studiato con attenzione, costruendo nel tempo un rapporto speciale con lui. Poi, dopo averlo studiato, ha preso le redini del rapporto e l’ha fatto volare in alto, aiutandolo a integrarsi e anche a scolarizzarsi.

Ha sempre parlato con franchezza con me e Federico, senza lesinare informazioni, anzi abbondando di dettagli e spiegazioni, anche quando facevano male. Ha avuto un ottimo rapporto con la psicologa, ha accettato la sua guida. Ma soprattutto ha creato un legame meraviglioso con Alessandro, che lei ha sempre visto come un bambino da proteggere, persino quando lui ha dato il peggio di sé.

Alessandro ha questa doppia faccia: sfida il limite e l’autorità se pensa di subire un’ingiustizia ma ama con passione le persone autentiche e i buoni. Appena ha capito che la maestra era dalla sua parte in maniera profonda e vera, che non c’era un doppio fine, ne è stato conquistato.

Lui non ha difficoltà a chiamarla “il mio sostegno”. Ma avrà capito di cosa si tratta? Qualche volta mi sono spinta a chiedergli: “Ale, secondo te perché tu hai la maestra ***?” e lui mi ha sempre risposto “Perché mi aiuta”. L’ha vissuta come una presenza benefica, un beneficio rispetto agli altri compagni di classe, mai come un limite o tantomeno una figura che lo sminuisse.

Forse è ancora piccolo per sentirsi insicuro a causa della presenza di un insegnante di sostegno, ma io per lui non potrei immaginare una giornata scolastica senza una figura di supporto. La figura di supporto che abbiamo incontrato quest’anno, poi, per me è stata tutto ciò che potessi desiderare.

Abbiamo vissuto mesi di transizione, cambiamento e adattamento. Settembre mi appariva come un grande punto interrogativo: nuova psicologa, nuova scuola, nuova insegnante di sostegno. Invece è andato tutto bene, con la psicologa, con la nuova routine e con la nuova insegnante di sostegno. Da un paio di mesi soffro di ansia per situazioni banali, ma so che è solo stanchezza per aver tenuto insieme tutti questi pezzi per così tanto tempo. So che passerà e mi rimetterò in sesto.

Mercoledì la scuola è finita e io non ho trattenuto la commozione. Quanto è difficile dire a una persona che le si vuole bene, che le si augura il meglio, che è stata importante per noi? Ma sono solo io o i sentimenti straripano dagli occhi di tutti? Come si fa a far sentire a qualcuno la propria gratitudine potendo usare solo le parole e magari qualche gesto?

Mi sono convinta che in fondo ci siano poche possibilità di far capire realmente a qualcuno ciò che abbiamo dentro. Penso anche che dare tutta questa importanza ai sentimenti che proviamo sia presuntuoso, perché poi – se ci pensate bene – cambierà così tanto agli altri sapere che noi proviamo questo o quello?

Cerco di uscire da questa ristretta prospettiva egocentrica.

Vorrei solo che questa mia gratitudine potesse trasformarsi in doni, doni per lei, tutto ciò che desidera, fiducia in se stessa, sicurezza, affetto da parte dei propri cari, affetto da parte dei propri alunni, oggi Alessandro, domani altri bambini che saranno altrettanto fortunati.

Io mi godo la fiducia ritrovata: nella scuola degli anni Duemila, che da adesso in poi per me non è più solo traumi e brutte esperienze; nella fortuna; nelle persone; in mio figlio, che resta sempre il guerriero più coraggioso, catalizzatore d’amore.

La coppia e l’ADHD

Un giorno parlavo con un’infermiera della ASL. Stava compilando una qualche cartella medica di mio figlio, quando all’improvviso si fermò e mi trafisse. Ricordo le palpebre un po’ invecchiate ma ben truccate su quegli occhi cerulei inquisitori. Ma soprattutto ricordo la domanda che mi fece, inaspettata e in quel momento del tutto incomprensibile: “Come vanno le cose tra lei e il papà del bambino?”. Suonò alle mie orecchie come una frase aliena, come se un passante mi avesse chiesto se conoscevo la differenza tra un pangolino e un armadillo. Risposi di sì all’infermiera e allora lei mi spiegò che ciò era un bene, perché molte volte le famiglie come la nostra vanno in crisi e i genitori iniziano a litigare. Finsi di capire, invece non avevo capito niente come al solito. Dico “come al solito” perché in quel periodo ero nel grande calderone della raccolta di informazioni, della ricerca delle diagnosi e delle risposte, e molto di ciò che credevo di sapere della vita, delle cose o di me stava per rivelarsi una facciata. Ho scritto facciata, ma forse ci stava ancora meglio il termine cazzata.

Infatti solo un paio d’anni dopo compresi il monito dell’infermiera. Fu possibile dopo aver sperimentato per un periodo sufficientemente lungo cosa significa vivere con un bambino ADHD e DOP, e solo dopo aver conosciuto tante altre coppie e famiglie nella stessa situazione.

L’infermiera aveva ragione: le coppie si sfasciavano sotto quel “peso”. Continuavo a incontrare mamme o papà di bambini ADHD che dichiaravano di essersi separati, di non avere il minimo aiuto dal partner o di non riuscire a trovare un punto d’incontro nelle modalità di gestione del disturbo del proprio figlio. Nei racconti che ascoltavo, i problemi dipendevano quasi sempre dal fatto che c’era un genitore che riconosceva il problema e un genitore che diceva che il figlio non aveva nessun problema. Il genitore che negava l’esistenza del problema era di solito anche quello che si arrabbiava di più quando il figlio si metteva a “fare il matto”.

Come dice una mia amica molto saggia (questa mia amica si chiama Giulia: ciao Giulia!), ogni coppia ha il suo equilibrio misterioso, perciò lungi da me provare a capire dall’esterno quali sentimenti muovessero realmente quelle persone. Vedevo però delle dinamiche tutte molto simili, che più o meno si potevano riassumere con questa immagine: la coppia era come una barca i cui rematori avessero preso a pagaiare in versi opposti, stancandosi moltissimo senza arrivare da nessuna parte.

Nella mia coppia non c’è mai stata una crisi, anche se – ci mancherebbe -ci sono stati come in tutte le coppie dissapori, piccole delusioni e momenti di stanchezza. Per quanto riguarda la gestione dei figli, siamo sempre riusciti a remare nella stessa direzione, trovando punti d’incontro o compromessi. Abbiamo avuto il merito di guardare subito in faccia il problema e di raccontarcelo per quello che era, senza rinnegarlo. Forse è perché Federico è uno che nella vita ne ha già viste tante, forse è perché io non dormo bene se non mi racconto la verità, ma quando qualcuno ci ha detto “vostro figlio ha questo problema” noi abbiamo solo risposto “ok, ci dica cosa dobbiamo fare per andare avanti al meglio”.

E questo è stato il nostro grandissimo vantaggio sulla vita che ci stava mettendo alla prova.

Ma tolto questo innegabile punto di forza (a volte la disillusione, il cinismo e la grettezza sono davvero dei punti di forza), quanto è stato difficile.

Cosa? Eh, per esempio riuscire a non incollare sull’altra persona tutto quel risentimento appiccicoso che in realtà è verso la vita, un rancore che in certi momenti sembra pece che scontorna ogni cosa, gli sottrae ogni senso e fa sembrare tutto nero. Sentire in maniera acuta la propria rabbia e decidere di non consegnarla all’altra persona, di non usarla come una frusta tanto per ferire l’altro come siamo feriti noi. Riuscire a trasformarla invece in una richiesta di aiuto, soffocando l’orgoglio, che poi orgoglio di cosa? Come se quel male riguardasse solo noi e non anche l’altra persona. Qualcuno mi spieghi perché è così difficile ammettere di avere lo stesso problema delle persone a cui vogliamo più bene: è perché abbiamo paura di crollare insieme? Forse è perché ci fa orrore l’idea di rispecchiarci nel dolore di chi abbiamo di fronte?

A volte poi si litiga per non restare soli. Magari proprio per varcare quella soglia, per cercare quel collegamento tra noi e gli altri in un momento in cui ogni forma di scambio più pacifica sembra impossibile. Ma se si prende l’abitudine al litigio, in poco tempo diventa un modus vivendi che non ci scrolliamo più di dosso.

Altre volte, invece, si sceglie di restare soli perché si ha bisogno di raccogliere i pensieri, di analizzare, o perché si vuole evitare di aggredire e allora meglio ritirarsi nella tana e aspettare che l’istinto di fare una sfuriata passi. Può esserci molta saggezza in questa scelta, una scelta che vuole evitare di ferire l’altro. Ma la solitudine sa diventare anche un’abitudine comoda, da cui tornare indietro può essere tanto faticoso.

Perché per due genitori è così difficile crescere un bambino che ha l’ADHD o il DOP? Forse perché significa affrontare una serie di problemi pratici (dal costo delle terapie alle discussioni con la scuola, dalle pratiche burocratiche ai continui controlli medici) avendo a che fare con un bambino che – più o meno ogni giorno – ti urla che fai schifo, che ti odia, che vorrebbe ucciderti e che vorrebbe suicidarsi. E quel bambino ha solo 6 anni.

Se ti lasci trascinare da questo vortice di provocazioni, le provocazioni stesse salgono di livello, con lanci di oggetti di ogni tipo, inclusi coltelli o bottiglie (tratto da una storia vera), con mobili sfasciati (già…), fughe da casa (sempre tratto da una storia vera), cinture del seggiolino slacciate con la macchina in piena corsa in autostrada (ancora storia vera).

E anche se diventi molto bravo a gestire quelle situazioni, le provocazioni ci sono lo stesso, solo che diminuiscono perché tu sei zen, o magari non sei affatto zen ma la psicologa ti spiega cosa fare per disinnescare, così tu impari a farlo e la tensione in casa si stempera. Ti spiegano che non devi mai vedere solo il negativo ma anche concentrarti sul positivo, e di cose positive tuo figlio ne ha fatte tantissime, considerando il suo disturbo. Oggi, ad esempio, ha lanciato la forchetta perché non gli piaceva la carne, ma un anno fa avrebbe lanciato il piatto con la carne dentro.

Sì, sono ironica, ma non del tutto. I progressi rincuorano, noi stessi li vediamo e non facciamo che raccontarli a noi e agli altri. Ma certe volte sei stanco, hai combattuto tutto il giorno per quel bambino e lo vorresti solo… Come? Più riconoscente? Sì, dai, forse. Ma soprattutto felice, e invece proprio quel giorno anche lui è molto stanco (perché – ricordalo sempre – se tu hai lottato 100 significa che lui ha dovuto lottare 1.000) e il disturbo si palesa in tutta la sua magnificenza. Anzi, proprio perché sei stanco e tuo figlio ha una sensibilità pazzesca e istintiva, quasi primordiale, il disturbo si amplifica a causa della tua stanchezza e la crisi diventa grandissima, lunghissima, dura anche ore e ti travolge come un’onda.

Dopo l’onda io e Federico, come due naufraghi, restiamo sulla spiaggia.

Dentro abbiamo ancora tutta la rabbia per le cose che ci ha urlato, la delusione per un altro episodio difficile che forse si sarebbe potuto evitare se solo… (avessimo spento prima la tv? Avessimo avvisato che al posto del pesce c’era la frittata?), il dispiacere per un figlio così sofferente che alla fine della sfuriata quasi sicuramente ci avrà detto “mi dispiace, mamma, preferirei non essere mai nato”.

A quel punto, beccarsi come due pappagalli isterici potrebbe essere uno sfogo naturale. A volte lo abbiamo fatto, non lo nego. Di solito ci succede dopo il parent training e ciò è paradossale, perché dopo aver ricevuto tanti buoni consigli dalla psicologa su come gestire nostro figlio, iniziamo a gestire malissimo il nostro rapporto. Me lo spiego solo così: è uno dei pochi momenti in cui siamo soli, ma anche uno di quelli in cui siamo più stanchi, quindi va sempre a finire con una lite, ma poi passa.

Quello che proviamo a non fare mai è rinfacciare all’altro la gestione sbagliata del figlio, o dei figli. Su quel terreno cerchiamo di non scivolare nemmeno per sbaglio, perché sappiamo che se cadi lì non ti rialzi così facilmente. L’istinto ci ha sempre suggerito di agire – rispetto alla gestione figli, e in particolare alla gestione Alessandro- come una testuggine romana, sempre insieme, stessa direzione, stesso obiettivo.

Ecco, l’obiettivo. Forse l’unico modo per sopravvivere a queste tempeste è non perdere di vista l’obiettivo comune. Se l’obiettivo sta lì, ed è lo stesso per entrambi, si può riuscire a perdonare l’altro – o noi stessi – per le sviste, gli errori, le distrazioni più fatali e anche le piccole angherie reciproche.

Ma questo, ormai vi sarà chiaro, significa sentirsi sempre in battaglia. Si sceglie di identificare un nemico all’esterno della coppia anziché all’interno, ma l’atmosfera è marziale. Non c’è riposo, si vive per adempiere a un dovere, non si trasgredisce mai.

In certi momenti, se devi affrontare un grande problema, questa rigidità è inevitabile. In alcune fasi, quelle più dure, lo stoicismo è stato la nostra salvezza. Prendersi per mano ogni sera e raccontarsi delle battaglie vinte, farsi forza per affrontarne di nuove il giorno successivo, partire per il fronte e rivedersi solo dopo molto tempo, trovandosi cambiati e cercandosi ogni volta da capo con gran fatica.

Tutto questo è stato inevitabile ed è stato strategico per la sopravvivenza.

Ma il colore, direte voi, dove se ne va.

Il sogno, la risata, l’illusione, la speranza, l’aspettativa, il progetto, la leggerezza. Dove se ne vanno.

Per fortuna arrivano i momenti sereni, e se sei stato un bravo soldato e sei sopravvissuto insieme al tuo compagno di squadra, ti puoi levare la corazza e puoi ricordare che hai un corpo con una forma sottile, che hai dei capelli che profumano, che i denti quando ridi si scoprono e sono molto bianchi. E così fa il tuo compagno di squadra. Ma i vostri corpi sono anche segnati da infinite cicatrici, da nudi si vedono bene, guarda come luccicano al sole i lembi di pelle ancora lucida. Avremo il coraggio di guardarle tutte? Avremo il coraggio di mostrarle tutte? Io ne ho alcune che tengo per me, e so che anche lui ne ha. Certo, fingiamo che non sia vero, ma sappiamo che è così. Nascondiamo alcune ferite anche per rispetto, perché nessuno può arrogarsi il diritto di essere quello che soffre di più. Le nascondiamo perché nessuno dei due può permettersi di crollare e perché sa che – se crollasse – l’altro resterebbe solo. Questa continua oscillazione tra l’importanza di dirsi le cose e la necessità o il bisogno di nascondersele è frutto di un’alchimia che al momento funziona.

Qualcuno lo chiama equilibrio di coppia, qualcun altro affinità. Io continuo a vedere due persone che si sono scrutate a fondo, lì dove c’è la melma, e si sono accettate senza troppi giri di parole. Una cosa che mi dico spesso è che non lascerei affacciare nessun altro su certi miei abissi vergognosi. Il segreto del mio amore, se ci penso, non è nelle cose belle. No, il segreto del mio amore è nell’accettazione della melma.

Perché io sono una blatta, questo ormai lo avrete capito.

ADHD e farmaci. La scelta più difficile

Ci ho messo quattro mesi a pubblicare questo post. Avrei voluto scriverlo fin da novembre, ma non ci sono riuscita. Forse ora finalmente sono pronta.

Il fatto è che questo è il post più difficile, come la scelta di iniziare la terapia farmacologica per Alessandro è stata la scelta più difficile presa finora.

A fine 2020 la neuropsichiatra che lo segue da quando ha tre anni, la prima che gli ha diagnosticato l’ADHD, mi ha suggerito di iniziare anche un percorso ospedaliero per avere documentazione in più da presentare all’INPS; per avere una diagnosi ancora più accurata di quella fatta nel centro privato e in ASL. E poi, anche, per valutare la somministrazione del farmaco.

Resto di stucco, quello non l’ho davvero messo in conto. Un farmaco, anzi, chiamiamolo con il suo nome: uno psicofarmaco. A un bambino, a mio figlio. Davvero? Ma allora tutti quegli anni di terapia comportamentale, parent training… Ma allora tutti quei miglioramenti… Tutta una menzogna? E gli psicofarmaci non si danno solo nei casi più gravi? Ecco, allora lui è un caso grave?

“Un attimo, non corriamo”. La dottoressa interrompe la catena dei pensieri: “Facciamo valutare all’equipe dell’ospedale, nel frattempo passeranno mesi, lui inizierà le elementari e forse a quel punto il farmaco potrà diventare il nostro asso nella manica, giochiamocela sul momento”.

Quando ti prospettano l’ennesimo cambiamento in una routine che – seppur nelle sue storture – ormai senti come tua, fai sempre tanta fatica ad accettare, almeno questo capita a me. Così per i primi mesi ho continuato a pensare che non sarebbe servito, che probabilmente i medici dell’ospedale mi avrebbero detto che non era assolutamente consigliabile prescrivere uno psicofarmaco a un bambino come lui. Io, però, l’appuntamento l’ho preso, e nel frattempo è passato tutto l’inverno. Era l’ultimo anno di asilo.

In primavera siamo andati alla prima visita, durante la quale la dottoressa ha detto che l’ADHD di Alessandro era conclamato, cioè proprio nemmeno in discussione, ed era di grado severo. In estate inoltrata ci hanno chiamato per i day hospital e per altre valutazioni. Siamo entrati con la diagnosi di ADHD severo, e siamo usciti con diagnosi confermata di ADHD severo, a cui si aggiungevano il DOP (disturbo oppositivo provocatorio), una possibile forma lieve di autismo e una probabile sindrome di Tourette. Ma a parte tutte queste nuove etichette, la cosa più importante, secondo loro, era agire sull’ADHD aggiungendo uno psicofarmaco alla psicoterapia. Ci hanno dato appuntamento dopo altri 3 mesi per eseguire le somministrazioni di prova e trovare il dosaggio giusto per lui.

Ancora una volta, ho usato il tempo che mi era stato dato come un tempo cuscinetto per abituarmi all’idea, passando dal rifiuto iniziale a una posizione più morbida, fatta di “forse”, “vedremo” e “magari smettiamo se notiamo cose strane”.

Iniziano le elementari, le maestre sono brave ma i problemi ci sono lo stesso. Crisi a scuola, noia con attività troppo basilari ma stanchezza con attività troppo lunghe.

I nostri “forse” e “vedremo” diventano “proviamo” e “valutiamo”.

E infine è novembre, il primo day hospital per iniziare la terapia farmacologica. Arriviamo lì che non sappiamo neanche noi cosa aspettarci, forse che una specie di pozione magica trasfiguri nostro figlio. Invece il farmaco è una pillola anonima che lui prende e che apparentemente non genera nessun effetto. Poi passa un po’ di tempo e accade che Alessandro inizi a giocare al tablet senza sdraiarsi a terra o contorcersi sulla sedia. Per tre ore è così, fermo e concentrato sulle sue cose: il tablet, un libro, il suo pranzo. Va tutto bene, può iniziare la terapia anche a casa.

Il dosaggio ottimale non lo si è trovato subito. Non so nemmeno se al momento lo abbiamo trovato. Ma puoi cosa vuol dire “ottimale”. Di sicuro non vuol dire “perfetto”. Di perfetto non c’è nulla, bisogna continuare a vigilare su lui e i suoi stati d’animo, adattare il contesto e le situazioni ai suoi disagi. Di sicuro, però, lui si stanca meno. Quindi, non sempre magari ma comunque spesso, si innervosisce meno. Quindi anche noi siamo nervosi per meno giorni a settimana e tutto gira un pochino meglio. Non dico al top, ma meglio.

Lui non è più calmo, è solo più bravo a incanalare le energie, che sono tantissime proprio come prima. Solo che riesce a utilizzarle in modo un po’ meno dispersivo. Per l’adhd infatti non si somministrano calmanti, ma al contrario stimolanti. Si danno farmaci che stimolano quelle parti del cervello che in un adhd funzionano in modo meno efficace: tutte quelle parti che dovrebbero regolare gli impulsi e che nelle persone con adhd sono meno sviluppate. Questi stimolanti hanno l’effetto di tranquillizzare, e non perché sottraggano energie, ma perché aiutano ad aumentare l’efficienza energetica. È un po’ come passare da una dispendiosa stufa elettrica a un impianto a pavimento: stesso risultato a un costo decisamente inferiore.

Ma torniamo alla vita con il farmaco. Non è andata sempre liscia. Il momento più spaventoso è stato quando ha preso per la prima volta un dosaggio alto e ha iniziato a parlare in modo velocissimo di argomenti che lo ossessionavano. Era andato nel cosiddetto hyperfocus, poi ha avuto una crisi orribile.

Ci sono poi stati tanti piccoli fastidiosi effetti collaterali: le bolle, la nausea, il mal di testa, l’inappetenza, i pensieri ossessivi.

Ogni effetto si è manifestato per qualche settimana e poi è passato.

Ci sono stati i giudizi delle persone intorno a noi, giudizi sempre dettati dalla volontà di fare del bene ad Ale, ma che ci ferivano perché riuscivano a toccare in modo chirurgico le nostre insicurezze.

E poi c’è stato per tutto il tempo quel rumore di fondo fatto di commenti o post sui social o nei gruppi whatsapp, commenti che andrebbero ignorati perché in fondo ognuno ha la sua vita e si racconta la sua verità. Frasi come “Io non darei mai psicofarmaci a un bambino” o “Finché riesci a evitare i farmaci, è meglio”, o anche “Io non ho mai dato il farmaco ma alla fine con tanta terapia le cose sono andate meglio”.

Nessuno, credo, vorrebbe dare uno psicofarmaco al proprio figlio, ma ci sono situazioni in cui ti pieghi a farlo per il bene del bambino. Non perché sia più facile per te genitore, ma perché potrebbe diventare più facile per lui, e anche perché forse nemmeno tu genitore riesci a capire fino in fondo cosa voglia dire vivere con un turbina nel cervello che sta tutto il tempo su di giri, e magari se fossi tu quel bambino e qualcuno ti regalasse un motore più efficiente per gestire i tuoi pensieri saresti felice.

Non è facile decidere che va bene, che darai uno psicofarmaco a tuo figlio. Sembra sempre che con lo psicofarmaco tu ne voglia manipolare l’animo, in un certo senso.

Eppure lo sai benissimo che lo psicofarmaco non manipola niente, e lo sai che in psichiatria a volte i farmaci sono dei salvavita. Lo vedi che, per quanta terapia tu gli faccia fare, c’è sempre quel nucleo che non riesci a scalfire, e lo sai che è lì, in quel nocciolo duro, che si sono aggrovigliati tutti i nodi irrisolti di tuo figlio. Ma al contempo ti chiedi se quel “nucleo” non abbia diritto di esistere proprio come i suoi occhi color nocciola o la fossetta sulla sua guancia, ti chiedi se la sua unicità non stia in fondo proprio lì, in quel lampo di follia che gli vedi balenare negli occhi. E quindi tu che fai, lo vuoi cambiare? E se poi non torna mai più come prima? Se lo guasti?

Il confine è davvero sottile, il cervello è il terreno di incontro tra la nostra biologia, la nostra chimica e la nostra anima. Chi può davvero decidere che lo schizofrenico non vada bene con la sua schizofrenia, che l’ossessivo compulsivo non vada bene con le sue ossessioni e l’adhd non vada bene con il suo motore che gira a vuoto? Alla fine la risposta che mi sono data è questa: se la diversità mentale genera sofferenza in chi è atipico, allora l’atipico ha diritto alla sua pasticca.

Tuttavia, per quante belle cose io mi sia raccontata, il primo giorno in cui siamo stati noi, a casa, a dare la pasticca ad Alessandro, non ho potuto non piangere. Era come se in quella medicina fosse condensata tutta la mia incapacità di risolvere le cose diversamente.

Gli stai dando questo composto chimico perché non sai dargli altro. Perché non basti. Ecco, lo so che è egocentrismo puro, ma mi sentivo insufficiente e incapace. Poi è passata anche questa, come tante altre considerazioni negative che faccio. (“Sei sempre negativa”, mi rinfaccia Federico, che invece soffoca le sue paure con il pragmatismo piuttosto che con il vittimismo come faccio io).

Quei pensieri lì sono passati e la pasticca è diventata routine. Chi ha tempo per crearsi più problemi di quanti non ce ne siano già?

E poi, finalmente, abbiamo iniziato a contare anche gli effetti benefici. Quelle volte che a scuola è riuscito a lavorare più a lungo, o che a casa ha letto un libro per più di un’ora, o che è stato paziente in fila alle Poste.

Ma ci sono state occasioni terribili in cui la maggiore capacità di concentrazione lo ha portato ad annoiarsi ancora più facilmente e a reclamare continui stimoli.

Le sue crisi, più che in passato, dipendono ora dalla noia.

“Mi avete aiutato a concentrarmi, ma ora su cosa mi concentro?”.

Non dimentichiamo, infatti, che è anche un bambino plusdotato. Non si accontenta di una palla e di una bici. Con il farmaco più che mai, va in cerca di esperienze gratificanti e grandiose che lo assorbano, di avventure esaltanti di cui lui sia il protagonista. E non è semplice, per noi, offrirgli una vita che sia al tempo stesso soddisfacente ma tranquilla, routinaria ma emozionante, accogliente ma ogni giorno diversa. Non è semplice e nemmeno lo vogliamo sempre, perché vorremmo anche che lui imparasse a stare nella sua noia. Ma lì arriva la crisi, che ci sottrae tempo, energie, che rompe, che travolge, che influenza il fratellino il quale, il giorno dopo, inizia a imitare il fratello maggiore.

Un gran casino.

Io oggi non lo so se il farmaco è la nostra strada. Sto ancora setacciando i miei pensieri per separare il pregiudizio dalla valutazione oggettiva, il senso di colpa dal senso di responsabilità.

Ma intanto stasera ho finito di scrivere questo post e tra poco lo pubblicherò, sebbene mi faccia paura sapere che dirò a tutti che mio figlio prende uno psicofarmaco. Ci sono casi però in cui la paura esige di essere presa a schiaffi affinché non si incancrenisca.

Quando avrò cliccato su “Pubblica”, sarà come in quei sogni in cui sei nudo davanti al pubblico, ma sarà anche come svegliarsi dopo quei sogni e scoprire con sollievo che la vergogna la provavi tu da solo. Non c’è nessun pubblico, e anche se ci fosse un pubblico, dopo resteresti sempre e comunque tu con i tuoi problemi, insomma al pubblico sai che gliene frega di te. Ma ti ritroveresti anche più vera e forse più leggera per esserti cancellata dalla fronte il marchio che, tu da sola, ti eri impressa.

La filosofia della blatta

Se dovessi trovare l’animale che più mi ha rappresentato in questi anni, sarebbe di sicuro la blatta.

Perché, direte voi.

Perché la blatta vive nella sporcizia e io sento a volte di avere un gran casino intorno, una vita che è tutto tranne che invidiabile.

Perché la blatta fa ribrezzo e io a volte faccio schifo a me stessa, quando sto troppo a pezzi per non piangere e mi si appannano gli occhiali, quando mio figlio mi chiama “cretina” davanti al fruttivendolo, quando non riesco a gestire più niente e sbaglio anche l’uscita del raccordo, mi perdo le chiavi, mi perdo ogni pezzo di me cercando di sembrare sempre tutta d’un pezzo.

Perché la blatta ha le antenne lunghe e avverte il pericolo, e io sento ormai di vivere così, fiutando i pericoli per non lasciarmi cogliere di sorpresa da nulla, visto che non mi aspetto belle sorprese ma al massimo complicazioni. Un nuovo tic, un nuovo disturbo, un nuovo casino a scuola, un verbale inps che arriva in ritardo, un referto medico che non basta per avere più ore di sostegno, un ingranaggio qualsiasi che smette di girare in questa macchina complessa che è diventata la mia esistenza.

Tutti i pregi della blatta

Ma anche la blatta ha i suoi pregi, e così la sua vita. Forse è soprattutto nei suoi innumerevoli pregi che mi identifico di più.

Per esempio la blatta non si arrende mai. Tu la insegui, la colpisci cento volte e lei prosegue nella sua cieca corsa verso la salvezza. Io mi sento indistruttibile, sarà che ogni mattina continuo a svegliarmi, dopo tutto.

Inoltre la blatta è resistente, coriacea. Tanto piccola quanto difficile da catturare. Così mi sento io: insignificante e schiaffeggiata, ma lo stesso attaccata con tutte le mie unghie a questa vita strisciante.

La blatta è realista, concreta. La blatta sa che vive nella spazzatura o sotto i battiscopa delle cucine più luride, lei non nutre nessuna illusione verso l’esistenza che conduce, ma sembra ugualmente non aver voglia di morire. Si accontenta di essere viva, non ha bisogno di raccontarsi tutte quelle cazzate come le formiche operose o le nobili api che fanno il miele bla bla bla. E io mi sento così, non ho più voglia di menzogne, preferisco guardare a ciò che ho oggi, a ciò che sono oggi.

La forza della blatta è nella sua semplice resistenza alle intemperie. Non esiste insetto più brutto o inutile, eppure le api sono in via di estinzione, le blatte sono un flagello inestinguibile.

Sentirmi blatta mi aiuta a sentirmi forte anche quando il risultato è scarso, davvero ai minimi. Per esempio la giornata ha fatto schifo ma c’è stata una mezz’ora di gioia, allora ne è valsa la pena lo stesso, perché tanto la vita di una blatta è così, sempre ai minimi termini.

Ho un’amica che dice sempre che il problema della vita è l’aspettativa. La blatta non ne ha, la blatta è sincera con se stessa e con gli altri: la vita è uno slalom tra una crudele spruzzata di Baygon e un lancio di ciabatta. Ma è l’unica vita che ha e quindi se la tiene stretta.

Il punto di vista di Ale sulle blatte

In realtà io sono terrorizzata dalle blatte, preferirei difendermi da un leone che da uno di quegli scarafaggi. Perciò un giorno Alessandro si è sentito in dovere di riabilitarle ai miei occhi e mi ha detto che in un documentario aveva scoperto che le blatte non abbandonano mai i loro figli.

“Perciò mamma anche tu sei un po’ come le blatte, no? Lo vedi che in realtà sono carine?”

È stato strano, perché quando Alessandro ha avuto questa uscita io avevo già creato la mia personalissima filosofia della blatta, e ovviamente non gliene avevo mai parlato.

Che fosse un segno oppure solo un caso, io ci ho voluto leggere qualcosa: anche se ti senti l’ultimo degli esseri viventi, intrappolato in qualcosa che sai di non meritare, il senso esiste lo stesso se lo stai facendo per il bene di qualcun altro che ha più bisogno di te. E parlo del senso della vita, mica bruscolini.