Dicono che ci sia sempre un motivo per le crisi di un bambino con ADHD. Sembrano scoppiare all’improvviso e senza una ragione, ma gli esperti dicono che c’è un motivo. La ragione sa che c’è sempre un motivo, ormai l’ha capito, ma il cuore fa fatica ad accettarlo. Il cuore, quello scemo che cerca di proteggersi quando qualcosa è troppo dirompente, il cuore che cerca ragioni che in realtà non sono ragioni, ma tentativi di dare un nome ai sentimenti. La ragione è un’altra cosa, lei percorre la sua strada, scava lentamente nell’anima e arriva sempre dopo, più tardi, a volte anche quando è troppo tardi. Arriva che ormai l’onda d’urto delle emozioni ti ha travolto e ti ha lasciato così, a sentire tutto quel sentimento, che a volte è proprio troppo, dai.
È troppo mentre un figlio ha le sue crisi. Troppo mentre lui lancia oggetti (stasera un peluche lanciato sul tavolo ha mandato in frantumi il bicchiere di vetro nei nostri piatti di insalata. Brillavano, quelle schegge, come silicio sul bagnasciuga), rompe oggetti (poco fa una mensola è stata spaccata, era un oggetto fatto a mano da un’artigiana, non esisterà mai più un’altra mensola uguale) e urla cose (preferisco non citarle) che nessuno dovrebbe mai avere l’onere di sentir uscire dalla bocca del proprio figlio, soprattutto quando quest’ultimo ha solo 3, 5 o 8 anni.
Il tuo cuore si agita perché balla insieme al suo. Il suo è in crisi, trascina anche il tuo con sé. Si aggrappa alla tua lucidità e la porta giù, è una sirena che ti afferra per la caviglia e ti porta nell’abisso, in un mondo confuso, popolato di ombre e segnali difficili da decifrare.
La ragione intanto sa che c’è una via d’uscita. Lei è stata istruita, ci prova. Le risuonano in testa tutte le sessioni di parent training, le tecniche comportamentali ascoltate e assimilate, le migliaia di pagine lette e studiate nel tentativo di comprendere, capire, sapere, vedere, diventare capaci.
Diventare capaci.
Capaci di tradurre le crisi, di dargli un senso, di affrontarle sul momento e di riprenderle più tardi, con calma, dopo l’onda, quando sul bagnasciuga restano pezzi di legno di chissà quale naufragio, gusci vuoti, oggetti persi in passato da un bagnante sfortunato.
Capaci di attendere il momento della risacca per analizzare. Capaci di analizzare respingendo le proteste del cuore offeso e appellandosi alla ragione, alla competenza, alle tecniche di gestione.
Una volta un pediatra mi disse una frase: “Contenetelo con amore”.
Mio figlio aveva solo 3 anni, noi non sapevamo niente di quello che sappiamo adesso. Vedevamo una scheggia impazzita che si faceva detestare da chiunque, che in alcune occasioni io stessa detestavo, anche se subito dopo mi sentivo una merda. Il pediatra mi disse così: contenetelo con amore. Contenetelo, perché era ovvio che non potesse essere abbandonato alle sue crisi e che per contenerlo servisse la “ragione”. Ma con amore, perché non poteva esservi contenimento senza connessione, e per la connessione occorreva l’amore.
Non sto dicendo che in quel periodo non lo amassi. L’ho sempre amato, forse più per le sue fragilità che per i suoi punti di forza. Ma non riuscivo più a trovare un equilibrio tra quel sentimento primordiale e la responsabilità verso me stessa, anch’essa una forma di amore, se ci pensate.
Io credo che da quella frase pronunciata da un pediatra anonimo, un occhialuto giovane medico (un tirocinante?) mai più incontrato, sia iniziato tutto il mio percorso.
Non parlo del percorso fatto per mio figlio, parlo proprio del mio.
Credo che il percorso per mio figlio (diagnosi, cure, tutto) lo avrei fatto lo stesso, spinta in un modo o nell’altro dal senso del dovere, nonché dall’istinto del genitore che le prova tutte finché non capisce quale possa essere la strada migliore.
Parlo però del mio percorso. Una strada avventurosa, a tratti stretta come una fessura in un canyon a rischio crollo, alla ricerca della capacità di contenere con amore. Amore per lui, ma anche per me stessa. Imparare ad aiutare lui senza scordare me, il tentativo di amarlo nonostante le sue zone d’ombra o forse di amarlo di più proprio per le sue zone d’ombra. E più di tutto la capacità di accogliere le sue zone d’ombra senza però lasciarmi oscurare, senza farmi offendere, impedendo alla mia parte più fragile di sentirsi colpita. E questa è stata la prima fase (“contenetelo con amore”). Poi è arrivata una fase ancora più difficile: contenetelo e accettate pure che vi possa ferire (perché gesti e parole – certi gesti e certe parole – feriscono, c’è poco da fare), ma imparate anche a curare quelle ferite.
Come.
Eh.
Accettando che quelle ferite fossero in me da molto più tempo, e che riguardassero le crisi solo perché erano queste ultime a tirarle fuori dal loro budello, un budello più profondo di quanto credessi.
Come quando inizi a sventrare un pesce e gli intestini escono, escono, sembrano non finire mai.
Ci ho messo anni, ma ora ho capito una cosa. Che mio figlio ha le sue crisi, così difficili da accettare, ma gestibili – in fondo – con l’aiuto delle tecniche comportamentali, del parent training, dei consigli degli esperti e dei libri. Mio figlio ha le sue crisi perché ha l’ADHD e il DOP, perché ha momenti di meltdown come ogni bambino con autismo, o forse come ogni bambino. E le sue crisi si possono gestire, sì, per quanto siano odiose e provochino la rottura di oggetti, a volte anche preziosi.
Ma le ragioni del cuore quelle riguardano me. La reazione del mio cuore alle sue crisi è roba mia, solo mia, e solo io me la devo vedere con lei.
Quindi quella mano di sirena che mi afferra la caviglia e che mi porta giù, nell’abisso dove ci sono le ombre apparentemente incomprensibili e senza forma, quella mano forse non è la mano di mio figlio. È la mia stessa mano, è il mio richiamo di sirena che vuole farmi vedere cosa c’è lì nelle mie budella, nelle viscere, cosa urla che vuole essere ascoltato, visto, capito, compreso e infine contenuto con amore.
Nessun viaggio nell’altro può iniziare per davvero se prima non scegliamo di fare lo stesso viaggio anche dentro di noi. Contenendoci con amore.