Montessori a casa… di un bambino vivace

Ci sono almeno due pregiudizi in Italia sul metodo di Maria Montessori, e per assurdo sono l’uno l’opposto dell’altro. Il primo è che il metodo Montessori lasci il bambino libero di fare ciò che gli pare. Il secondo è che invece lo imbrigli in una serie infinita di regole e comportamenti schematici.

La verità, ovviamente, non sta in nessuna di queste due versioni e mi dispiace che proprio nel paese che ha dato i natali alla dottoressa Montessori ci sia stato questo enorme fraintendimento su un metodo rivoluzionario come il suo. Ma nemmeno io, del resto, ne sapevo nulla prima di avere a che fare con la vivacità, l’esuberanza e il carattere ribelle e peperino di mio figlio Alessandro.

Premessa numero 1: il metodo Montessori lascia il bambino libero di agire fino a quando non arreca danno a se stesso o agli altri. Il bambino perciò potrà scegliere liberamente la sua attività, ma non potrà ad esempio lanciare i giocattoli addosso agli altri bambini. In quel caso, un adulto dovrà intervenire ristabilendo la disciplina.

Premessa numero 2: il compito dell’adulto non è quello di suggerire al bambino cosa fare, ma di osservare il bambino e predisporre l’ambiente per far sì che egli abbia il materiale di cui ha bisogno in quel particolare momento della sua vita. Se ad esempio un bambino attraversa un periodo in cui è particolarmente affascinato dal movimento, sarà compito dell’adulto mettere nei punti in cui il bambino può arrivare dei sostegni per sollevarsi, per muovere i primi passi o per arrampicarsi in sicurezza.

Il metodo Montessori nasce per essere applicato nelle scuole (le cosiddette “case dei bambini” montessoriane), anche se – ahimè! – le scuole italiane non lo fanno quasi mai. Nulla vieta comunque di applicare il metodo anche a casa, compatibilmente con gli equilibri e le esigenze della famiglia.

Il metodo Montessori ha contribuito a cambiare in meglio la nostra quotidianità. Ma partiamo dal principio.

Alessandro aveva 3 anni e, come tutti i bambini, la sua cameretta iniziava ad essere sommersa di giocattoli, nonostante qualche tentativo – devo ammettere poco energico – di limitarne l’acquisto. Fin qui, tutto regolare. Il problema è che Alessandro non utilizzava minimamente i suoi giochi, se non per lanciarli durante le sue sfuriate o i capricci. Ad un certo punto, un po’ per ripicca e un po’ per necessità, ho iniziato a far sparire tutto ciò che lanciava. In pochi giorni, la nostra casa si è svuotata ed è tornato l’ordine. Il primo passo è stato perciò quasi frutto del caso.

Nel frattempo, ho iniziato a notare che Alessandro utilizzava per giocare la sua fantasia e alcuni oggetti della vita quotidiana (cucchiai, occhiali da sole, ma anche sassi e bastoncini presi in giardino), oppure oggetti legati al travestimento (il casco da pompiere, la torcia da operaio, lo zaino da esploratore). Non sembrava minimamente dispiaciuto per la scomparsa degli altri giocattoli, anzi lo spazio a disposizione pareva stimolare maggiormente la sua immaginazione. Ma, per il momento, le mie erano solo piccole intuizioni, mentre nel frattempo la vita scorreva e non c’era tempo per pensare a cosa stesse accadendo.

Dopo qualche mese, dalla scuola materna sono arrivati i primi richiami sul comportamento di Alessandro e la maestra ha richiesto una verifica sulla capacità di attenzione e di concentrazione di mio figlio, lamentando il fatto che a scuola si rifiutasse sistematicamente di svolgere le schede didattiche. La nostra psicologa ci ha consigliato di stimolare maggiormente la sua concentrazione con delle piccole attività semplici e rilassanti, come ad esempio la pasta di sale o il didò.

Non ricordo come, ma ad un certo punto cercando su internet ho scoperto i giochi sensoriali (sensory play), ovvero giochi basati esclusivamente sulla manipolazione di materiali poco sofisticati, spesso di origine naturale, come la farina, l’acqua, la schiuma, il riso colorato e la stessa pasta di sale. In quei mesi ero a casa in maternità per la nascita del secondo figlio, perciò ogni giorno riuscivo a preparare un materiale che Alessandro trovava sul suo tavolino al ritorno dall’asilo. L’ambiente, privo ormai di giocattoli, non offriva distrazioni e io cercavo di accompagnare Alessandro alla sua attività e poi di dileguarmi per abituarlo a giocare da solo. Ricordando quello che anni prima mi aveva detto una mia amica educatrice, ho iniziato a circoscrivere ogni attività all’interno di un vassoio o di un contenitore, ad esempio una bacinella, in modo che Alessandro fosse in qualche modo costretto a restare nel confine che gli stavo proponendo. Però non c’era alcun tipo di costrizione, non ero mai io a dire ad Alessandro cosa fare, mi limitavo a fargli trovare il vassoio dove lui poteva vederlo.

Un po’ alla volta, ho inserito anche vassoi con attività di altro tipo, ad esempio carta da tagliare, adesivi da attaccare e così via, non perché mio figlio dovesse imparare qualcosa (anzi, come recita il titolo di questo blog è sempre stato fin “troppo sveglio”), ma piuttosto perché scoprisse il piacere di lavorare soffermandosi sui suoi gesti.

Vassoio del ritaglio

Incredibilmente, la cosa ha iniziato a funzionare. Oltre a gradire moltissimo la manipolazione e la scoperta di questi materiali e ad usarli con creatività, ha iniziato a passare qualche minuto da solo, senza distogliere l’attenzione dal gioco.

Presa dall’entusiasmo di questa scoperta, ho continuato a leggere e a informarmi su internet, venendo poco dopo a a sapere che il mondo dei giochi sensoriali e dei cosiddetti “open ended play” (giochi senza uno scopo preciso, condotti in tutto e per tutto dai bambini e dalla loro fantasia) si intersecava con il mondo Montessori. Non perché li avesse inventati lei, ma perché facevano parte di uno stesso universo, basato sull’osservazione e sul rispetto del bambino piuttosto che sull’imposizione da parte dell’adulto.

Da lì a scoprire e approfondire cosa fosse il metodo Montessori, il passo è stato breve. Ho anche svolto un corso online per genitori, tanto per essere davvero sicura di aver imboccato la strada giusta.

Ma era la strada giusta, più passava il tempo e più me ne convincevo.

Per prima cosa, la cura maniacale dell’ambiente spingeva noi tutti ad essere più ordinati, e l’ambiente meno caotico favoriva non soltanto la concentrazione, ma anche la calma.

Inoltre, avere poca scelta nelle attività da fare induceva Alessandro ad usare maggiormente il materiale che aveva a disposizione, invece di ignorarlo sistematicamente come faceva quando la sua stanza era piena di giocattoli.

Proponendo poche attività o pochi giochi alla volta, e facendoli ruotare spesso, abbiamo iniziato a capire cosa gli piacesse e cosa no, rinunciando ad esempio a fargli fare i puzzle, che, oh sì! ci erano sempre sembrati così intelligenti, ma che proprio non facevano per lui.

Suddividendo le attività per tema (lo scaffale della matematica, lo scaffale dell’astronomia, lo scaffale dei materiali sensoriali e così via), anche Alessandro ha iniziato a classificare i suoi oggetti e ben presto ad essere molto più ordinato, a sistemare i suoi oggetti con cura come non gli avevo mai visto fare. Era come se l’ordine esteriore avesse iniziato a proiettarsi nella sua interiorità, aiutandolo ad organizzare le sue cose anziché lanciarle tutte alla rinfusa.

Scaffale della matematica

Ma il metodo Montessori a casa non investiva solo la sfera del gioco. Gradualmente, abbiamo cambiato i nostri punti di vista e modificato il nostro comportamento, imparando a rispettare i tempi dei bambini.

Nel metodo Montessori, l’obiettivo non è quello di lasciare il bambino libero di fare come gli pare, ma di aiutarlo a sviluppare la sua autonomia. Questo ha significato adottare alcuni piccoli accorgimenti in casa, come ad esempio mettere un piccolo appendiabiti accanto alla porta, far usare ad Alessandro (ed oggi anche al suo fratellino di un anno) uno dei due bidet come un piccolo lavandino alla sua altezza in cui lavarsi il viso e i denti, spronarlo a scegliere da solo i suoi vestiti mettendoli nel cassetto più basso. E anche per strada: aspettare che termini di osservare ogni piccolo dettaglio come piace a lui piuttosto che spronarlo a fare in fretta come piace a noi adulti, e così via.

Bidet usato esclusivamente come lavandino in miniatura

Sono già molti mesi che la nostra casa si è trasformata per accogliere alcuni degli insegnamenti Montessori. Ogni tanto il caos torna a regnare, magari non sempre abbiamo il tempo di predisporre l’ambiente in maniera ortodossa, ma il cambiamento di prospettiva si continua a sentire e continua a dare i suoi frutti, per cui indietro, ormai, non si torna più!

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Quando abbiamo deciso di andare dalla psicologa

Dopo ben due anni di colloqui con Letizia, la nostra psicologa di famiglia, ho scoperto che il percorso intrapreso si chiama parent training. Un nome interessante e sicuramente più alla moda per dire “supporto alla genitorialità”. A me piace dire semplicemente che andiamo dalla nostra psicologa, ma io sono all’antica.

In questi 4 anni alle prese con un bambino impegnativo (e anche, perché non dirlo, con la nostra inesperienza), abbiamo fatto tantissimi incontri fortunati. Persone che ci hanno dato un punto di vista autorevole sulla nostra situazione, persone che hanno mostrato empatia nei nostri confronti, che hanno cercato di non farci sentire soli. Letizia è stata uno di questi incontri fortunati.

Ecco come è andata.

Attorno ai 2 anni e qualche mese di mio figlio, ho iniziato ad avere il sospetto che i suoi capricci non fossero esattamente nella norma. Ok i “terribili due”, ma vederlo urlare, lanciare oggetti e picchiare la sua mamma anche per tre ore di fila, prima di crollare tramortito, forse denotava qualcosa di più di “un bel caratterino”.

Dopo qualche mese di inutili ricerche sui forum, di inutili letture di libri di pedagogia e di inutili richieste di consigli a chiunque sembrasse interessato a darmene (penso di aver chiesto lumi anche alla gente in fila al supermercato, in quel periodo), ho deciso che ne avevo abbastanza. Mi sentivo frustrata, sola, una mamma fallita. Ho persino dato la responsabilità al mio lavoro, decidendo di prendere qualche giorno di congedo parentale per passare più tempo con lui e sentirmi meno in colpa. Ma niente sembrava portare alla svolta che desideravo. Alessandro manifestava un disagio che non riuscivo bene a capire e ad accogliere. Spesso i suoi atti di insubordinazione – perché più di qualche volta erano solo questo: sfide alla nostra autorità – finivano con la domanda ansiosa: “mamma, sei felice?”. Ci leggevo tanta sofferenza per un comportamento che tuttavia gli risultava davvero inevitabile. Lo vedevo agitarsi per qualcosa che aveva dentro e non riusciva a tirare fuori.

Stop, mi sono detta. Parliamone con qualcuno. Ho richiesto un colloquio al nido e l’educatrice ha gettato alcuni fasci di luce su mio figlio. Ha accolto me e Federico, ci ha fatto sedere su due sedioline basse e ci ha raccontato chi fosse Ale al nido. Un bambino eccezionalmente sveglio, davvero avanti, con qualche piccola difficoltà a capire i ruoli. “Crede di essere un adulto, anzi lo dice proprio: io sono l’adulto e decido le regole”. Ci disse anche che faceva fatica ad entrare in relazione con i coetanei e che era infastidito quando qualche bambino invadeva il suo spazio. Ci consigliò di migliorare nella nostra capacità di contenerlo e ci diede un numero di telefono. Era il numero di Letizia.

Il colloquio con l’educatrice del nido è stato importante per due ragioni. Ci ha permesso di entrare in contatto con Letizia, questa la prima ragione. La seconda è che in quell’occasione Federico ha finalmente preso coscienza del “problema”. Problema è un termine forse esagerato, diciamo che ha capito che i capricci di Alessandro erano di un’intensità un po’ superiore alla media e che dovevamo imparare a gestirli meglio per consentire a nostro figlio di crescere in maniera armoniosa.

Ma Letizia resta la ragione più importante, perché è stata lei a darci gli strumenti per uscire dal vortice che si era creato intorno a noi (capriccio-punizione-frustrazione-altro capriccio).

Dopo il primo colloquio, ha inquadrato subito la situazione: ci trovavamo di fronte ad un bambino molto dotato e per questo impegnativo. Un bambino con una grandissima energia che andava incanalata e contenuta, evitando che diventasse distruttiva. Un bambino con delle antennine sempre in ricezione, che a volte andava in confusione per questo eccesso di stimoli e informazioni. Il nostro compito era di fare meglio e senza tentennamenti quello che in fondo avevamo cercato di fare fin dalla sua nascita: adattarci a lui cercando al contempo di dargli alcune regole granitiche. Poche ma buone. Sempre le stesse e molto semplici. Alla fine, i comandamenti davvero importanti erano solo tre:

  1. Noi siamo gli adulti, tu sei il bambino
  2. Non si picchia: è inaccettabile
  3. Non si lanciano gli oggetti: è inaccettabile

Tutte le altre regole minori della nostra casa sarebbero rimaste: lavarsi le mani, lavarsi i denti, mettere a posto, mangiare a tavola, ma ci si poteva arrivare per vie traverse, ad esempio attraverso i complimenti al bambino. Diciamo pure che la buona educazione non costituiva un problema. Alessandro è sempre stato molto attaccato alla routine, per cui muoversi all’interno di un piano di regole prestabilite di quel genere non ha mai rappresentato un problema. Il punto di rottura veniva raggiunto invece quando perdeva il controllo e la calma (per un motivo qualsiasi, dal salmone non di suo gradimento all’assenza del suo cartone preferito) e diventava aggressivo e provocatorio nei confronti di chiunque gli capitasse a tiro, in particolare noi genitori. Significava che, in una fase di stanchezza, poteva picchiare un bambino senza motivo, oppure lanciarmi i suoi giocattoli. E se veniva sgridato per il suo gesto, poteva continuare a farlo ancora e ancora, senza nessun limite, senza provare nessun tipo di dispiacere o timore di fronte al rimprovero o alla punizione. Ma rimproverarlo e punirlo era l’unica strada che conoscevamo. Non funzionava, ma non avevamo altra scelta. Se nostro figlio sbagliava dovevamo intervenire come avevamo visto fare centinaia di volte ai nostri genitori o ai genitori di tutti gli altri bambini, sgridando e punendo. Solo che non funzionava, dannazione.

Letizia ha spezzato questa catena. Ci ha spiegato che il nostro atteggiamento sereno poteva trasformarsi in un argine all’energia vulcanica del nostro bambino, per cui la cosa più immediata da fare, di fronte alle esplosioni di lava e lapilli, era di ritrovare la calma, di “sentirsi calmi”, nel profondo.

Altra cosa da fare: avremmo dovuto tendere le mani avanti, impedendo al bambino di colpirci e spiegando che le botte sono inaccettabili. Non serviva a nulla fuggire di fronte alle sue botte (come avevo fatto io, chiudendomi in bagno solo per essere inseguita da un incontenibile bamboccio forzuto di 2 anni), né stringerlo forte per aiutarlo a ritrovare il suo limite (come aveva fatto Federico dopo averlo letto in un libro). Non serviva fingere che non esistesse, né minacciarlo di buttargli i giocattoli (quante finte buste della spazzatura ho preparato, in quei mesi…). Bisognava restare calmi, schermarsi con le braccia in avanti e provare a restituirgli un’immagine delle sue emozioni, in modo che riuscisse ad elaborarle: “Lo vedo che sei arrabbiato, è successo qualcosa?”.

Il cambiamento è stato immediato, nel giro di un mese la situazione è migliorata tantissimo sia a casa che al nido. Probabilmente è bastato ritrovare la fiducia nel nostro ruolo per far sentire anche il bambino più al sicuro, meno esposto ai suoi accessi d’ira. Nel frattempo, Letizia ha continuato a darci delle strategie di sopravvivenza, senza mai dimenticare di sottolineare come fossimo fortunati e al tempo stesso messi alla prova dall’intelligenza e dall’indole ribelle di nostro figlio. Sapere che qualcuno riconosceva il carattere eccezionale, fuori misura dei nostri sforzi era per me immensamente liberatorio. Però la psicologa non dimenticava mai di sottolineare che un bambino pone sempre e comunque delle sfide ai genitori, perciò non eravamo da compatire, dovevamo solo imparare a gestire meglio il bambino che era capitato a noi.

“Io sono affascinata da Alessandro”. Quante volte le ho sentito dire questa frase. Nei momenti peggiori, quando mi sembrava di avere a che fare con una piccola belva, le sue parole mi riportavano sulla terra e mi facevano sentire una privilegiata, anziché una condannata a vita.

Più di una volta le ho chiesto se per lei noi avevamo sbagliato qualcosa nell’educazione. Più di una volta mi ha risposto che il carattere di nostro figlio andava accettato per quello che era. Al massimo avremmo dovuto imparare a fargli accettare le regole e i ruoli, ma non in maniera autoritaria, bensì con empatia e qualche trucchetto.

Un altro grande insegnamento è stato che i figli ti mettono nella condizione di mutare continuamente, con passi avanti sempre seguiti da passi indietro, dai quali non bisogna farsi scoraggiare. Per me, abituata a ragionare per liste di cose da depennare e obiettivi da raggiungere e poi definitivamente archiviare, accettare questo cambiamento di prospettiva non è stato semplice. Ma credo di esserci riuscita.

Sono ormai passati due anni, le strategie nel frattempo sono cambiate. Le braccia tese in avanti non funzionano più, Alessandro ha imparato a girarmi intorno e colpirmi alle spalle, ma riesce sempre più spesso a fermarsi prima ancora di picchiare. Gli oggetti non li lancia quasi più. A volte va in escandescenza e ci fa andare anche me, a volte riesce a trattenersi da solo e io vorrei piangere di gioia. A volte non riesce a fermarsi ma riesco a farlo fermare io, a volte non ci riesco e piango per la frustrazione. Non è un viaggio con un inizio e una fine, è un percorso che cambia di continuo e noi tre siamo i viaggiatori, anzi noi quattro ora che c’è il fratellino.

Letizia adesso la vediamo molto meno, ma sapere che il suo studio esiste e che possiamo andare da lei in qualsiasi momento, o anche solo chiamarla per aggiornarla sulle nostre cronache familiari, spesso basta a tranquillizzarmi.

Siamo nel guado della diagnosi di un disturbo del comportamento e dell’attenzione e passeranno ancora mesi prima che arrivi un risultato certo. Abbiamo avuto un orribile anno scolastico, durante il quale la scuola materna non solo non ha aiutato, ma anzi ha peggiorato la situazione facendo emergere alcuni tratti della personalità di Alessandro che credevamo ormai di aver archiviato. La nascita del fratellino ha fatto saltare tutti gli equilibri e ho passato momenti orribili, a casa con il neonato e un bambino di 3 anni in piena ebollizione.

Ma oggi la situazione in famiglia è serena. Alessandro è gestibile, sta maturando, non smette di sorprenderci con il suo acume e la sua sensibilità. Lui, che è estremamente competitivo, ieri ha pianto perché la mia pedina era stata retrocessa alla casella 1 durante una sfida al gioco dell’oca. La scuola è andata malissimo, ma lo stiamo spostando e sono fiduciosa. La gelosia per il fratellino è acqua passata. Non c’è perfezione, ma i giorni positivi sono tanti almeno quanto quelli negativi. Il merito è anche della nostra psicologa di famiglia, che ci tiene per mano e che rispetta i nostri tempi. Perché è stata lei ad insegnarci che a volte bisogna rispettare i tempi che la vita ti mette di fronte, aspettando che le cose evolvano. Ecco un altro suo dono prezioso: ci ha insegnato ad affrontare la vita abbandonando il tempo degli adulti, lineare e progressivo, ed accogliendo invece il tempo dell’infanzia, circolare e mai schematico, ma incredibilmente ricco.

Il bambino che voleva evadere dall’incubatrice

Come ho raccontato qui, Alessandro è nato prematuro. Al momento non sappiamo se sia davvero iperattivo (nel senso clinico del termine), quel che è certo è che si è sempre trattato di un bambino con una vivacità sopra le righe. O forse “vivacità” non è nemmeno il termine giusto, perché se è vero che lui ha davvero energia da vendere, ho conosciuto bambini ancora più esuberanti. Ciò che vedo in lui di eccezionale è l’intraprendenza con cui pianifica la fuga dagli steccati che gli vengono costruiti intorno.

Per uscire di metafora: è un ribelle.

Si ribella alle regole, all’autorità precostituita, ai ruoli, a qualsiasi cosa gli sembri creata solo per limitare le sue mosse, a meno che non capisca il senso della limitazione. Questo significa che Alessandro accetta i “no” solo se ne capisce il senso. Me lo disse anche l’educatrice del suo nido: “se gli dici di no, per lui è come se non parlassi. Bisogna invece dirgli perché è no, e se lui è in grado di capirlo, di solito smette.”

Che fatica, per noi, spiegare tutti i nostri no. Spiegare che la presa delle corrente non si tocca perché dentro c’è l’elettricità.

E che cos’è l’elettricità? È una cosa che accende le luci ma che ti può anche fare male. Perché fa male? Se non me lo spieghi bene, provo da solo a toccare così lo scopro. No, fermo, fa male perché è una scarica che ti attraversa. Ma allora fa solo il solletico? Provo subito! No, fermo, fa male perché è come uno schiaffo potentissimo che ti può anche far sbattere a terra…

Così, per ogni cosa, perché un “no” da solo, magari detto con voce dura, durissima, e sguardo di pietra, non ha mai funzionato, anzi ha sempre spinto Alessandro a fare proprio la cosa proibita. Di sicuro, questo bambino non ha mai avuto paura di niente.

Persino in incubatrice, dove è stato messo subito dopo la nascita, era l’unico neonato che si proiettava all’esterno infilando le braccia e le gambe negli oblò. Dovete immaginare questi prematuri come dei piccolissimi cuccioli con scarsissima capacità di movimento. Tutti tranne lui, che spalancava gli occhi guardandoti fisso e distendeva braccia e gambe per cercare la sua via di fuga. Le infermiere non ci potevano credere, ma succedeva davvero!

Ha sempre avuto una precocità impressionante nel movimento. Ha imparato a girarsi sulla pancia a meno di 3 mesi, ha gattonato speditamente a 6, ha fatto i primi passi a 10 e abbiamo fatto la prima lunga passeggiata senza passeggino a 12 mesi e 1 settimana.

Dargli le regole è stato un compito difficile, ma non impossibile. Certo, a 1 anno era impossibile, ma già a 2 era perfettamente in grado di ascoltare le nostre spiegazioni e, quindi, di assimilare le regole.

Da parte nostra, è stato importante capire che un frettoloso “No!” non ci portava a nulla, se non a frustrazione e senso di impotenza. Per quanto fossimo decisi, risoluti o arrabbiati, non bastava negare una cosa affinché l’avessimo vinta noi. Non bastava nemmeno la classica sculacciata, ed era inutile la punizione. Quante volte abbiamo annullato impegni, buttato giocattoli nella spazzatura o atteso per ore che la crisi isterica sfumasse da sola: è stato sempre tutto inutile. Alla fine diventava un braccio di ferro da cui uscivamo tutti sconfitti.

Era ciò che volevamo?

No, quello che volevamo era trovare un modo per educare nostro figlio, e il muro contro muro non ci stava portando da nessuna parte. So cosa state pensando: ma non è che forse siete solo dei genitori mollaccioni? No, credetemi, ho avuto giornate, settimane, interi mesi di muro contro muro, in cui ho ostinatamente tenuto il punto per una questione di principio, ma non mi hanno mai portato a niente.

Gli unici “no” che ascolta sono quelli che comprende. Questa è stata la chiave: una volta capito, abbiamo iniziato a gestire meglio anche le situazioni più critiche.

Perciò basta muro contro muro. Benvenuta dialettica. Benvenuti compromessi.

Ciò non significa che adesso rispetti sempre le regole. In alcuni momenti prevale l’istinto ribelle, o magari è solo stanco e non riesce proprio a obbedire. Con alcune persone, poi, non c’è verso di farlo stare buono. L’ambiente ostile che ha trovato alla scuola dell’infanzia (di cui parlerò in un altro post) lo ha portato ad esempio a non riconoscere l’autorità delle maestre.

Il problema è che lui l’autorità non la riconosce solo perché tale. Per lui contano di più autorevolezza ed empatia, e chi non capisce questa cosa non riesce a fare breccia. Voi direte: beh, lasciatelo cuocere nel suo brodo, prima o poi capirà chi comanda! Sì, ma il problema è che, dopo aver visto per mesi che lasciarlo cuocere non serviva a nulla se non a rovinare il clima in famiglia, ho voluto trovare una soluzione differente.

E questa soluzione oggi funziona, oggi riesco a gestire Alessandro, a volte anche a prevenire le sue mosse.

È un continuo patteggiamento, lo è sempre stato. Per strada non ha mai voluto dare la mano ad un adulto, così il compromesso è che la da solo se non si trova su un marciapiede. A tavola ha smesso di sopportare il seggiolone ben prima dei due anni, perciò gli abbiamo comprato una sedia da cui può scendere e salire in autonomia. E ne avrei di esempi, potrei continuare per ore.

Il succo del discorso è che un bambino ribelle non lo devi necessariamente domare, lo puoi anche conquistare. Responsabilizzare. Capire. Forse continuerà a farti impazzire, ma ci sarà il giorno in cui si avvicinerà al passeggino del fratellino e gli tirerà su il tettuccio per proteggerlo da sole, e allora capirai che il percorso è difficile, tanto impegnativo, ma forse ti sta restituendo un bambino perfettamente consapevole delle sue azioni, per certi versi persino maturo.

Ne abbiamo fatta di strada da quelle prime fughe dall’incubatrice, chissà ancora quanta ne dovremo fare, ma sono sicura che pian piano troveremo il modo di insegnare ad Alessandro, così come a suo fratello, che ci sono alcuni limiti che non devono essere superati. Per il resto spero di riuscire a rispettare la sua indole ribelle, perché fa parte di lui e va amata anche quando rende tutto più complicato. Il mio piccolo, adorabile, rivoluzionario.

Cose belle da fare con un bambino iperattivo (o troppo vivace)

Oggi è il mio compleanno, e siccome non è stato affatto un anno facile, voglio provare ad alleggerire. Farò solo pensieri positivi.

Quando un bambino è così vivace come il nostro, ci sono tantissime cose – cose che noi davamo per scontate ma che non lo sono affatto – che si possono fare con lui.

Inoltre, data la necessità di tenere sempre sotto controllo il bambino, si finisce per passare ogni momento libero con lui, senza poterlo “mollare” tanto facilmente ad amici o parenti disponibili (fa eccezione la pazientissima e amorevole nonna, con cui ha passato tutto il primo anno di vita mentre io tornavo a lavorare).

A volte passiamo così tanto tempo insieme che dico a Federico che sembriamo mormoni, sempre uniti, sempre vicini, una specie di clan chiuso e privo di sbocchi. La verità è che siamo ormai un meccanismo oliato e che non abbiamo molta scelta.

Per fortuna, un bambino vivace (o iperattivo, se la diagnosì verrà confermata l’anno prossimo), ti consente di fare tante cose bellissime che con altri bimbi sono più difficili. Insomma, la vita ti toglie ma al tempo stesso ti da, è così per tutti.

Ecco la mia personale classifica:

  1. lunghissime passeggiate: abbiamo sempre pensato che fosse normale per un bambino fare 2, 3, 4 o anche 5 km senza battere ciglio. Oggi sappiamo che è un dono e lo sfruttiamo. Io adoro passeggiare e spesso Alessandro mi chiede di “fare i camminatori” invece che andare in macchina. Io rispondo sempre di sí e maciniamo chilometri.
  2. trekking: come al punto 1. Abbiamo portato Alessandro su sentieri di ogni difficoltà e ha sempre camminato con incredibile energia, in salita, discesa, sui sassi, sull’erba, sui tronchi, sotto le cascate, nei ruscelli. Ovunque. È fantastico.
  3. viaggi: puoi portarlo con te in qualsiasi viaggio ben organizzato, purché ci si muova sempre e non ci si fermi mai. No ai ristoranti, alle soste in autogrill, ai pomeriggi in albergo. Sì alle escursioni, alle visite alle città d’arte, a qualsiasi attività con un punto d’inizio ed un (distante) punto d’arrivo. (Continua…)

Famiglia

Questi siamo noi. Io sono Laura, e mi sono già presentata qui.

Poi c’è Alessandro, ne parlo in quasi tutto il blog perciò direi che non ha bisogno di altre presentazioni.

Ma in famiglia c’è anche il nostro bombolo, di appena 1 anno, un piccolo caterpillar dalle mani delicate e dal sorriso stampato in faccia, soprattutto quando guarda cosa combina il suo Alessandro.

E poi c’è Federico, il mio adorato Fede, quello che mi riporta sempre sulla terra quando rischio di schiantarmi in volo (leggi: placa le mie paranoie), quello a cui ogni tanto faccio la domanda “ce la faremo a fare questa cosa così difficile?” e che mi risponde ogni volta “certo, come abbiamo sempre fatto”. E ha dannatamente ragione, ogni volta, ma non diteglielo per favore ché si monta la testa.

“Sono il peggiore”. ADHD e autostima.

Oggi Federico mi ha raccontato un episodio accaduto mentre ero al lavoro. Alessandro stava trasportando la grossa macchina per lo zucchero filato della sua baby sitter Vale (una baby sitter solo temporanea, purtroppo…). D’un tratto si è sentito un gran tonfo, la macchina aveva aperto con il suo peso la scatola e si era schiantata per le scale.

Vale e Federico hanno subito controllato che fosse tutto a posto, e lo era. Alessandro però si è fatto prendere dallo sconforto, si è seduto su un gradino con il mento tremulo e gli occhi vicini alle lacrime.

“Sono il peggiore”, ha detto. “Combino solo guai e marachelle”.

Lo hanno consolato, assicurandogli che non è vero, ma la mortificazione ci ha messo un po’ a passare.

Federico ha provato a chiedere, con delicatezza: “Questa cosa te l’ha già detta qualcuno?”.

“Sì, è stato l’amico di…”

Prese in giro tra bambini, tanto normali quanto feroci, ma che in lui lasciano un segno molto profondo, anche quando non sembra e fa lo spavaldo.

Il problema è tutto nell’autostima, che nei bambini con il disturbo dell’attenzione (o ADHD, anche se non è ancora detto che Alessandro ce l’abbia) è sempre bassissima.

Perché?

Perché questi bambini di solito sanno benissimo qual è la maniera corretta di comportarsi, solo che la loro impulsività gli impedisce di seguire – per così dire – la “norma”. Vedono perciò se stessi agire in maniera sbagliata, senza poter fare molto per impedirlo.

Il loro disturbo comportamentale li porta a volte a far seguire subito un’azione ad un pensiero. Altre volte, invece, i loro gesti sono valvole di sfogo per tutta l’energia che hanno dentro. Hanno bisogno di muoversi, correre e colpire per sfogare un’incontenibile energia, poco importa se lungo il percorso travolgono tutti o mollano qualche sberla al malcapitato di turno.

Il problema è che sanno di sbagliare, ne sono pienamente consapevoli; tra l’altro sono spesso molto intelligenti e sensibili, motivo per cui sono ancora più consapevoli dei propri errori.

Mettiamoci anche che vengono rimproverati di continuo proprio a causa delle loro azioni, soprattutto quando il loro disturbo non è ancora stato riconosciuto ufficialmente.

Perciò, tra sgridate, castighi e punizioni, la frustrazione aumenta e l’autostima cala.

Risulta davvero difficile lavorare sull’autostima, me ne sto rendendo conto a mano a mano che Ale cresce. Apparentemente è orgoglioso, sicuro di sé, spesso superbo. Dentro, però, è ancora così fragile, forse non riesce a intravedere la sua strada e pensa di deludere sempre tutti, anche se stesso.

Per noi genitori è difficile trovare il punto di equilibrio tra i rimproveri, che comunque devono esserci, e la comprensione. L’empatia è sempre la chiave di tutto, ma a volte la pazienza sembra esaurita, oppure sentiamo di avere il bisogno di alzare la voce per affermare il nostro potere su quella scheggia impazzita di nostro figlio.

Eppure, noi quel punto di equilibrio lo dobbiamo proprio cercare, perché solo in quella zona di luce in mezzo a così tante ombre troveremo la chiave con cui insegnare davvero a nostro figlio a convivere con se stesso.

Io alla fine ho scelto di alleggerire il carico abbandonando le battaglie che non mi sembrano essenziali. Si tratta di cose che magari farebbero imbestialire altre mamme, così come facevano imbestialire me, ma se non l’avessi fatto avrei finito per passare tutto il tempo a urlare senza ottenere nulla, facendo sentire Ale sempre più sbagliato.

Ecco alcune delle battaglie che ho deciso di non combattere, riuscendo così a conservare le mie energie per guerre che invece reputo più importanti:

  • se Alessandro rompe un oggetto, rovescia una bottiglia, strappa un foglio, lascio correre
  • se Alessandro passa e mi da una botta solo per scaricare la tensione (e non per litigare con me), lascio correre
  • se Alessandro non riesce a stare seduto a tavola tutto il tempo, soprattutto quando siamo con degli ospiti o a casa di qualcuno, lascio correre
  • Alessandro non ha voluto il grembiule all’asilo, ha detto che lo prendevano in giro. Nemmeno le maestre si sono impuntate, perciò ho lasciato correre
  • se Alessandro mi dice qualche brutta parola quando è al culmine della stanchezza e capisco che sta praticamente dormendo in piedi, lascio correre
  • se Alessandro giocando con il fratellino diventa un po’ troppo manesco solo perché è la sua maniera di giocare, lascio correre

Invece ci sono alcune cose su cui non transigo perché, come diciamo noi, sono inaccettabili:

  • lanciare oggetti come gesto di sfida
  • picchiare per litigare e fare male agli altri
  • dire le parolacce per provocare o offendere
  • Scappare per strada e mettersi in pericolo

Non sempre riesco a mantenere la calma, di solito sono più brava la sera e meno brava la mattina, quando dobbiamo uscire tutti e 4 per andare a scuola o al lavoro. Però ci provo e se ci riesco è quasi sempre merito di qualcosa che mi ha consigliato Letizia, la psicologa che ci segue in un percorso di supporto alla genitorialità che dura ormai da 2 anni.

Comunque ho capito una cosa: i momenti in cui con il mio atteggiamento riesco davvero ad essere utile a mio figlio sono quelli in cui, pur restando ferma nei miei propositi, riesco a sentire nel profondo ciò che sente lui. Una delle letture che mi hanno cambiata di più da quando sono diventata genitore è “La rabbia delle mamme”, di Alda Marcoli (leggetelo, è bellissimo), in particolare dove consiglia di ricordare sempre chi è l’adulto e chi il bambino.

Io sono l’adulto, e per quanto sia elevato il livello di stress che mi può generare una crisi isterica di mio figlio, non mi potrà mai ferire davvero, perché è lui il bambino. Capito questo, accettato questo, diventa più facile comprendere e mettersi nei panni dei nostri figli anche nei momenti più difficili.

Ma torno all’autostima perché ho già scritto troppo. Se scelgo le battaglie davvero importanti, se lascio correre con quello che non è essenziale, se smetto di infuriarmi per le provocazioni e capisco davvero, nel mio profondo, che sono solo richieste di aiuto, i rimproveri smodati diminuiscono, io torno di supporto a mio figlio e aumenta il suo benessere, facendo salire piano piano la sua autostima.

Non dico sia semplice. Dico che occorre provare.

Andavi di corsa pure quando eri solo un feto

Questa è la storia di come è nato Alessandro. Un feto può avere un suo carattere? Anche un feto può essere iperattivo? Non ho le risposte scientifiche, ma dalla mia esperienza sembrerebbe quasi di sì.

Quando dissi alla ginecologa che il test di gravidanza era positivo e io sentivo dei dolori al basso ventre, lei mi ascoltò e disse solo: “Aspetta un’altra settimana e ripeti il test. All’inizio non è niente, sono solo cellule”.

Ma una settimana dopo le cellule erano ancora lì, e c’erano anche due mesi dopo, quando la dottoressa scoprì che la camera gestazionale era leggermente scollata e mi disse di ripetere il controllo del battito cardiaco. Il cuore batteva ancora, e batteva anche altri tre mesi dopo, quando il mio collo dell’utero iniziò ad accorciarsi come a volersi liberare del suo ospite. Per precauzione, forse per non affezionarci troppo, non demmo mai al bambino che cresceva un nomignolo affettuoso, né fummo in grado di decidere prima della nascita come lo avremmo chiamato. Per noi restò sempre e solo “il feto”. Durante la gravidanza, più di un ginecologo mi consigliò di restare a riposo, guidare il meno possibile, evitare i pesi. Non era affatto detto che riuscissimo a farlo nascere davvero sano e salvo, ma lui era sempre lì, così testardo e ostinato, persino alla settimana ventisei, quando alcune strane contrazioni mi spinsero per precauzione al pronto soccorso, dove chiesero il ricovero a causa del rischio tangibile di parto prematuro. E alla fine, mi rispedirono a casa e fui obbligata a restare immobile per 6 settimane, forse le più lunghe della mia vita, perché il mio utero non riusciva proprio più a trattenere il bambino, che scalpitava per venire fuori- come infatti avrebbe fatto sempre, anche dopo la nascita.

I suoi colpi esplosivi hanno deformato il mio ventre per mesi. Durante il ricovero in patologia ostetrica, una dottoressa mi disse che per tutta l’ecografia quel bambino se ne era stato in piedi, dritto e impettito, proprio sul collo dell’utero che stava cedendo sotto i suoi colpi.

“Sta in piedi e saltella”.

Chiesi se fosse normale e lei rise. “Alcuni lo fanno, certo così non aiuta visto che la tua situazione è già precaria”.

Forse per quei colpi o forse per l’infezione batterica che mi portavo dietro da mesi senza saperlo, il collo dell’utero ha iniziato a diventare sempre più corto, più corto, più corto. 18 millimetri, 15, 11, alla fine solo 5.

Quanto conta un singolo millimetro nella lotta contro un parto pretermine.

Allo scadere della trentatreesima settimana, Alessandro è venuto al mondo, prematuro.

Era domenica, il primo pranzo da seduta dopo 6 settimane inchiodata al letto. Ero immensamente felice, quasi giunta com’ero al guado delle 36 settimane, quando il corpo del bambino sarebbe stato perfettamente formato, o almeno abbastanza da nascere senza nessun problema.

Quanto conta una singola settimana nella lotta contro un parto pretermine.

Mia madre e il mio compagno si erano presi cura di me nei lentissimi giorni passati senza possibilità di muovermi, ma quella domenica avevamo stabilito una breve tregua. Mi sono alzata dal mio letto-sudario e mi sono seduta a tavola con un lieve giramento di testa: troppo tempo passato da ferma in posizione orizzontale. Il lusso di un pranzo a tavola, la domenica.

Alla fine del pasto, il mio addome ha assunto una forma strana, poi ho sentito un colpo più forte del solito e una sensazione nuova tra le gambe. Mi si erano rotte le acque.

La nascita di Alessandro è stata veloce. Il nome lo abbiamo deciso durante il parto.

“Alessandro, ok?”

“Alessandro, va bene. Mi piace”.

Due ore di travaglio, quindici minuti in sala parto ed è saltato fuori, con una mano sul cordone e un’altra rabbiosamente aggrappata al camice dell’ostetrica. Rugoso, paonazzo, si è messo a strillare, minuto e incompleto come ancora era, un feto urlante con il bisogno di respirare e dei polmoni ancora immaturi. Il tempo di fare il primo screening e lo hanno portato in terapia intensiva. L’avevo toccato solo per un istante, l’avrei rivisto 6 ore dopo.

Nessuno di noi era preparato a quello che sarebbe accaduto di lì a poco. Non eravamo pronti ad essere genitori, non potevamo essere pronti alla terapia intensiva neonatale.

Superate le prime ore dopo il parto, ho iniziato a capire che qualcosa non tornava. Nella mia pancia non c’era più niente, ma nemmeno accanto a me c’era qualcosa, e tutto quello che avevo vissuto negli ultimi mesi, il concepimento, la gravidanza, il ricovero e infine il travaglio, non sembrava più reale. Ma era successo tutto davvero o avevo solo vissuto un sogno?

Nella stanza dove mi portarono subito dopo la nascita c’era un’altra puerpera. La prima notte il suo bambino pianse ininterrottamente e lei lo allattò con evidente fastidio. Lo tenne al seno senza interruzione, ogni volta che aveva provato a metterlo nella culla di plastica trasparente lui aveva ricominciato a strillare pretendendo la compagnia di sua madre, ormai stremata. Io invece potevo riposare tranquilla, ero sola. Con me non fecero restare neanche il mio compagno, che si mise a vagare nei dintorni dell’ospedale fino all’orario di visita. Riuscii a fare la pipì e mi dissero che era un buon segno, mi rimisi in piedi poco dopo il parto, ero dolorante ma stavo bene. Di fronte a me, l’altra donna con il bambino al seno. E io senza nulla. Avevo partorito davvero? Dove si trovava, allora?

Mi presento

Ciao, sono Laura e sono la mamma di Alessandro, un bambino ADHD, un bambino fenomenale che sorprende tutti con la sua intelligenza, che non sa stare fermo e che va a sbattere ovunque perché ha il bisogno di scoprire il mondo osservandolo da fuori e soprattutto smontandolo per vedere com’è fatto dentro. Lui è il bambino che rifiuta ogni coccola e che ama apparire spavaldo, ma che ha dentro un’anima così profonda e ricettiva che proprio lui, molto più di altri bambini, ha bisogno di amore, comprensione e protezione. Così forte e insieme così fragile, mi dico che crescerà e diventerà l’uomo che sarà anche grazie a questo suo percorso difficile.

E infine, più di ogni altra cosa, Alessandro è colui che ha capovolto la prospettiva della mia vita e che mi sta insegnando a lottare, ad arrabbiarmi, a prendere a spallate la vita e anche ad amare il diverso da me. Anche quando sono spaventata e mi sento sola, quando l’istinto a fuggire sembra prevalere, lui mi costringe a restare. Perché io sono la sua mamma e se lui è capitato proprio a me, significa che sono quella giusta per lui.

Con questo blog vorrei arrivare a tutti i genitori di bambini speciali che, come me, si sono sentiti isolati e abbandonati contro un mondo che non sembrava avere posto per loro e per i loro figli. Inoltre, vorrei che i genitori di bambini senza questi problemi riuscissero a capire un po’ di più com’è fatta la nostra quotidianità e che, astenendosi dal giudizio, provassero a mettersi nei nostri panni e a chiedersi in modo sincero: “io avrei saputo fare diversamente?”.

Spero di rompere quei muri, spero di trovare qui il mio rifugio sicuro, spero che scrivere mi aiuti a ritrovare la bussola quando non so più se la direzione è giusta. Perché di una cosa sono certa: se mamma e papà sono sereni e fiduciosi, anche Alessandro sta bene.