Sibling: essere il fratello di un ADHD (e Dop, e autistico, ma vabbè…)

Flavio ha 4 anni, è biondo, ha gli occhi azzurri, un buon carattere, è forzuto ed ha una bella tempra. Flavio si può definire in molti modi, ma una delle sue definizioni è che è un sibling.

I sibling sono i fratelli di disabili.

La disabilità di un membro della famiglia definisce anche gli altri membri della famiglia stessa?

Dispiace dire che è così. Sembra una prospettiva disabile-centrica, ma cavolo se è vero. Perché se vivi con una persona che ha un problema, vivi il suo problema. Se vivi con una persona che ha delle peculiarità, quelle peculiarità influenzano la tua vita, nel bene e nel male.

Mi costa fatica definire Flavio usando ancora una volta Alessandro, mi sembra di sottovalutarlo, ma non è affatto così e del resto non posso fare altrimenti. Poi, intendiamoci bene, Flavio è miliardi di altre cose (4 anni, biondo, occhi azzurri, forte etc.) ma il fatto di crescere e confrontarsi con un fratello come il suo è uno degli elementi con cui fa i conti dalla nascita, quindi rientra nei criteri di definizione.

I rapporti tra fratelli sono sempre molto complicati. Il fratello è il pari con cui ti raffronti in famiglia, qualche volta è un alleato, altre volte un nemico. Comunque, resta uno specchio in cui vedi un percorso simile al tuo, con cui condividi le regole e la guida dei genitori. Ma è proprio quel “pari” che, nelle famiglie con un bambino disabile, secondo me viene a mancare. Perché, per quanto tu genitore cerchi di dosare le energie per entrambi e di far arrivare il tuo amore nella stessa misura, il bambino che ha bisogni più impellenti non è mai il sibling. Ci sarà sempre una terapia a cui portare l’altro, una riunione con la scuola, un appuntamento alla Asl, una pratica dell’INPS che sottrarrà tempo al figlio senza disabilità. E al figlio senza disabilità si chiederà sempre di fare quel piccolo sforzo in più per capire e tollerare il fratello.

Quindi, di quale parità parliamo? La situazione è al contrario impari, a me a tratti sembra addirittura ingiusta (ma forse qui è il senso di colpa a parlare al posto mio) e quindi penso che il rapporto tra un sibling e suo fratello sia meno alla pari rispetto al classico rapporto tra fratelli. Tuttavia, dicono che per il sibling crescere con un fratello “diverso” sia anche una grande risorsa, che se il sibling viene coinvolto in modo positivo nella gestione familiare, ne può uscire più maturo, sensibile e consapevole.

Flavio ha solo 4 anni e ancora non so che piega prenderà la sua personalità nei prossimi anni. Non so se ne uscirà responsabilizzato e sereno oppure solo ribelle e arrabbiato. Cercherò di dargli tutti gli strumenti di cui avrà bisogno, così come oggi cerco di non fargli mancare affetto e attenzioni, ma mi rendo conto che per lui non deve essere semplice convivere con un fratello che sì, è divertente, brillante e simpatico, ma che al tempo stesso quando è arrabbiato (e ci sono periodi in cui lo è spesso) urla, offende e lancia le sedie. Penserà che quel comportamento sia normale? Questo è il motivo per cui, dopo una crisi di Alessandro, solitamente anche Flavio si mette a urlare, sebbene a lui passi subito?

Dicono anche che, per un sibling, non esiste la percezione di anormalità nel rapporto con il fratello disabile, perché lo ha visto nascere o è nato dopo di lui, per cui considera normale avere un fratello con quelle caratteristiche. Certo, non lo metto in dubbio, ma non so quanto sia piacevole.

Purtroppo il rapporto tra loro due non è dei migliori. Non giocano mai, se non in rarissime circostanze e situazioni particolari, si stuzzicano di continuo e ogni scambio verbale si trasforma immediatamente in scontro. “Ma questo è normale tra fratelli”, direte voi. Può darsi, ma non credo che sia normale che avvenga il 100% delle volte e del tempo che passano insieme. Il fatto è che, in presenza di un disturbo del comportamento, la qualità delle relazioni si abbassa moltissimo. Non è certo colpa di chi ha il disturbo, ma non posso biasimare chi non ha nessun disturbo e si trova alle prese con la persona che invece ce l’ha, e che magari risulta aggressiva, scortese, fastidiosa.

Mettiamoci anche che Flavio ha sempre e solo 4 anni, per cui può capire fino a un certo punto. Per lui, stuzzicare il fratello per avere la sua attenzione, fosse anche un bel calcio nel didietro, è del tutto normale, oltre che appropriato alla sua età. Ma dall’altra parte c’è Alessandro che non tollera i bambini più piccoli di lui, e che in aggiunta nutre verso il fratello una grandissima gelosia. Non posso biasimare neanche lui, che per quanto cresca circondato di attenzioni e facilitazioni, dovrà pur provare un pizzico d’invidia per quel bel fratello biondo-occhi azzurri dietro cui tutti si sciolgono e a cui le relazioni amicali vengono così facili, al contrario di se stesso che invece fa un’enorme fatica a gestire emozioni, affetti e tutto.

Insomma, questo mix fratello normodotato/fratello atipico/immaturità dei 4 anni/ maturità ancora parziale dei 7 anni/carattere forte di Alessandro/carattere altrettanto forte di Flavio diventa spesso esplosivo. Molto spesso. Così spesso che anche la psicologa di Alessandro, dopo averli avuti qualche volta insieme nell’ora di terapia, mi ha detto che vuole lavorare proprio sul loro rapporto.

E io lì ho tirato un sospiro di sollievo, perché sono 4 anni che penso di non potercela fare da sola, che nel loro legame così avviluppato e poco funzionale io non riesco a metterci le mani, non so da dove cominciare. Allora va bene chiedere aiuto, forse qualcuno dall’esterno potrà guidare questi due fratelli verso la loro dimensione.

Perché poi si vogliono bene, di questo esistono tante piccole prove, ma sono come quelle coppie che non fanno che litigare e che alla fine, se non vogliono divorziare, devono affidarsi al terapista.

Flavio ha solo 4 anni, è biondo, ha gli occhi azzurri. Ha una stazza importante, inoltre ha una personalità accesa. Orgoglioso, fumantino, ma anche socievole e collaborativo, preciso e acuto. Inoltre Flavio è un sibling, vive con un fratello che non sa regolare le emozioni e che non sa ancora interagire al meglio con il mondo.

Quando Alessandro ha una crisi, a volte Flavio ha paura. Altre volte si isola e gioca da solo. Qualche volta mi guarda e si limita ad alzare le spalle. Cerco di spiegargli sempre che non deve avere paura, perché Alessandro abbaia ma non morde. Poi, magari tra qualche anno, spero che voglia ascoltare tutta la storia e che capisca che di suo fratello c’è da essere anche fieri, per tutto l’impegno che ci ha messo. E spero che mi crederà quando gli dirò che anche di lui c’è da esser fieri, perché ha vissuto con noi una grande avventura, una corsa sfrenata nella vita senza possibilità di riprendere fiato, mai. Spero che sappia capire il valore della diversità, lui che una diversità ce l’ha avuta sotto gli occhi da quando è venuto al mondo.

Spero che questo piccolo “peso” che l’universo gli ha assegnato si faccia in lui risorsa, quando sarà in grado di capire quanto riesce a sostenere. Spero più di ogni altra cosa che lui e il fratello riescano a trovare il modo di comunicare e stare bene insieme, almeno ogni tanto, anzi sempre più spesso. Il mio desiderio è questo.

Flavio ha solo 4 anni, ma ha già tanto da raccontare, e questo lo deve anche al suo essere nato sibling.

ADHD e insegnante di sostegno. Il nostro incontro speciale.

Quest’anno, prima elementare, abbiamo fatto un incontro con una persona speciale. Non scriverò il suo nome perché questo blog è un po’ anonimo, un po’ pubblico, mezzo privato, non si capisce. Io, per privacy, non farò nomi, tanto lei si riconoscerà nelle mie parole e saprà che sto parlando proprio di lei, la maestra ***.

In questi anni mi è capitato già altre volte di conoscere persone sopra le righe, educatori ed educatrici che ci hanno donato l’anima e che hanno e avranno sempre un posto speciale nel nostro cuore. Ma questa volta, con questa persona, Anno Scolastico 2021-22, è stato magico. Sarà anche che le aspettative erano molto basse: pensavamo che la prima elementare sarebbe stata una grande corsa a ostacoli, che Alessandro non sarebbe mai riuscito nemmeno a sedersi al banco. Credevamo che si sarebbe rifiutato di andare a scuola, o che avrebbe passato la maggior parte del tempo fuori dalla sua classe. Invece è partito bene, con i suoi ritmi (cioè ritmi troppo veloci), le rigidità, i suoi libri fantasy nello zaino al posto dei quaderni a righe, la scritta “rifiuti tossici” sulla copertina del quaderno di religione, i momenti critici, ok, eppure tutto bene, tutto sommato.

Ha avuto fasi difficili, a volte siamo corsi a prenderlo perché era esploso o stava per farlo, ha intimidito non pochi compagni con i suoi atteggiamenti, questo lo sappiamo. Ha anche passato molto tempo seduto a terra, si è rifiutato di svolgere alcune attività, ma con le sue orecchie sempre vigili ha afferrato ogni concetto e non è rimasto mai indietro, neppure di un singolo passo.

La classe, piano piano, l’ha accettato e lui ha accettato loro. I bambini sono favolosi, soprattutto quando i genitori riescono ad accompagnarli nel percorso di conoscenza del diverso.

Lui è passato dal dire “Gioco solo con un amichetto e mi stanno antipatici Tizio e Caio” al dire “Sono tutti amici miei”.

Che anno stancante e bello. E il merito va ad Alessandro, certamente, ma anche alla sua maestra di sostegno, ed è appunto di lei che vorrei scrivere. Una persona intelligente, perspicace, intuitiva, sincera, trasparente. Un’insegnante che si è sempre posta con umiltà nel suo ruolo, con l’intento di capire prima di agire.

Ha voluto conoscere Alessandro, per qualche settimana l’ha studiato con attenzione, costruendo nel tempo un rapporto speciale con lui. Poi, dopo averlo studiato, ha preso le redini del rapporto e l’ha fatto volare in alto, aiutandolo a integrarsi e anche a scolarizzarsi.

Ha sempre parlato con franchezza con me e Federico, senza lesinare informazioni, anzi abbondando di dettagli e spiegazioni, anche quando facevano male. Ha avuto un ottimo rapporto con la psicologa, ha accettato la sua guida. Ma soprattutto ha creato un legame meraviglioso con Alessandro, che lei ha sempre visto come un bambino da proteggere, persino quando lui ha dato il peggio di sé.

Alessandro ha questa doppia faccia: sfida il limite e l’autorità se pensa di subire un’ingiustizia ma ama con passione le persone autentiche e i buoni. Appena ha capito che la maestra era dalla sua parte in maniera profonda e vera, che non c’era un doppio fine, ne è stato conquistato.

Lui non ha difficoltà a chiamarla “il mio sostegno”. Ma avrà capito di cosa si tratta? Qualche volta mi sono spinta a chiedergli: “Ale, secondo te perché tu hai la maestra ***?” e lui mi ha sempre risposto “Perché mi aiuta”. L’ha vissuta come una presenza benefica, un beneficio rispetto agli altri compagni di classe, mai come un limite o tantomeno una figura che lo sminuisse.

Forse è ancora piccolo per sentirsi insicuro a causa della presenza di un insegnante di sostegno, ma io per lui non potrei immaginare una giornata scolastica senza una figura di supporto. La figura di supporto che abbiamo incontrato quest’anno, poi, per me è stata tutto ciò che potessi desiderare.

Abbiamo vissuto mesi di transizione, cambiamento e adattamento. Settembre mi appariva come un grande punto interrogativo: nuova psicologa, nuova scuola, nuova insegnante di sostegno. Invece è andato tutto bene, con la psicologa, con la nuova routine e con la nuova insegnante di sostegno. Da un paio di mesi soffro di ansia per situazioni banali, ma so che è solo stanchezza per aver tenuto insieme tutti questi pezzi per così tanto tempo. So che passerà e mi rimetterò in sesto.

Mercoledì la scuola è finita e io non ho trattenuto la commozione. Quanto è difficile dire a una persona che le si vuole bene, che le si augura il meglio, che è stata importante per noi? Ma sono solo io o i sentimenti straripano dagli occhi di tutti? Come si fa a far sentire a qualcuno la propria gratitudine potendo usare solo le parole e magari qualche gesto?

Mi sono convinta che in fondo ci siano poche possibilità di far capire realmente a qualcuno ciò che abbiamo dentro. Penso anche che dare tutta questa importanza ai sentimenti che proviamo sia presuntuoso, perché poi – se ci pensate bene – cambierà così tanto agli altri sapere che noi proviamo questo o quello?

Cerco di uscire da questa ristretta prospettiva egocentrica.

Vorrei solo che questa mia gratitudine potesse trasformarsi in doni, doni per lei, tutto ciò che desidera, fiducia in se stessa, sicurezza, affetto da parte dei propri cari, affetto da parte dei propri alunni, oggi Alessandro, domani altri bambini che saranno altrettanto fortunati.

Io mi godo la fiducia ritrovata: nella scuola degli anni Duemila, che da adesso in poi per me non è più solo traumi e brutte esperienze; nella fortuna; nelle persone; in mio figlio, che resta sempre il guerriero più coraggioso, catalizzatore d’amore.

ADHD e farmaci. La scelta più difficile

Ci ho messo quattro mesi a pubblicare questo post. Avrei voluto scriverlo fin da novembre, ma non ci sono riuscita. Forse ora finalmente sono pronta.

Il fatto è che questo è il post più difficile, come la scelta di iniziare la terapia farmacologica per Alessandro è stata la scelta più difficile presa finora.

A fine 2020 la neuropsichiatra che lo segue da quando ha tre anni, la prima che gli ha diagnosticato l’ADHD, mi ha suggerito di iniziare anche un percorso ospedaliero per avere documentazione in più da presentare all’INPS; per avere una diagnosi ancora più accurata di quella fatta nel centro privato e in ASL. E poi, anche, per valutare la somministrazione del farmaco.

Resto di stucco, quello non l’ho davvero messo in conto. Un farmaco, anzi, chiamiamolo con il suo nome: uno psicofarmaco. A un bambino, a mio figlio. Davvero? Ma allora tutti quegli anni di terapia comportamentale, parent training… Ma allora tutti quei miglioramenti… Tutta una menzogna? E gli psicofarmaci non si danno solo nei casi più gravi? Ecco, allora lui è un caso grave?

“Un attimo, non corriamo”. La dottoressa interrompe la catena dei pensieri: “Facciamo valutare all’equipe dell’ospedale, nel frattempo passeranno mesi, lui inizierà le elementari e forse a quel punto il farmaco potrà diventare il nostro asso nella manica, giochiamocela sul momento”.

Quando ti prospettano l’ennesimo cambiamento in una routine che – seppur nelle sue storture – ormai senti come tua, fai sempre tanta fatica ad accettare, almeno questo capita a me. Così per i primi mesi ho continuato a pensare che non sarebbe servito, che probabilmente i medici dell’ospedale mi avrebbero detto che non era assolutamente consigliabile prescrivere uno psicofarmaco a un bambino come lui. Io, però, l’appuntamento l’ho preso, e nel frattempo è passato tutto l’inverno. Era l’ultimo anno di asilo.

In primavera siamo andati alla prima visita, durante la quale la dottoressa ha detto che l’ADHD di Alessandro era conclamato, cioè proprio nemmeno in discussione, ed era di grado severo. In estate inoltrata ci hanno chiamato per i day hospital e per altre valutazioni. Siamo entrati con la diagnosi di ADHD severo, e siamo usciti con diagnosi confermata di ADHD severo, a cui si aggiungevano il DOP (disturbo oppositivo provocatorio), una possibile forma lieve di autismo e una probabile sindrome di Tourette. Ma a parte tutte queste nuove etichette, la cosa più importante, secondo loro, era agire sull’ADHD aggiungendo uno psicofarmaco alla psicoterapia. Ci hanno dato appuntamento dopo altri 3 mesi per eseguire le somministrazioni di prova e trovare il dosaggio giusto per lui.

Ancora una volta, ho usato il tempo che mi era stato dato come un tempo cuscinetto per abituarmi all’idea, passando dal rifiuto iniziale a una posizione più morbida, fatta di “forse”, “vedremo” e “magari smettiamo se notiamo cose strane”.

Iniziano le elementari, le maestre sono brave ma i problemi ci sono lo stesso. Crisi a scuola, noia con attività troppo basilari ma stanchezza con attività troppo lunghe.

I nostri “forse” e “vedremo” diventano “proviamo” e “valutiamo”.

E infine è novembre, il primo day hospital per iniziare la terapia farmacologica. Arriviamo lì che non sappiamo neanche noi cosa aspettarci, forse che una specie di pozione magica trasfiguri nostro figlio. Invece il farmaco è una pillola anonima che lui prende e che apparentemente non genera nessun effetto. Poi passa un po’ di tempo e accade che Alessandro inizi a giocare al tablet senza sdraiarsi a terra o contorcersi sulla sedia. Per tre ore è così, fermo e concentrato sulle sue cose: il tablet, un libro, il suo pranzo. Va tutto bene, può iniziare la terapia anche a casa.

Il dosaggio ottimale non lo si è trovato subito. Non so nemmeno se al momento lo abbiamo trovato. Ma puoi cosa vuol dire “ottimale”. Di sicuro non vuol dire “perfetto”. Di perfetto non c’è nulla, bisogna continuare a vigilare su lui e i suoi stati d’animo, adattare il contesto e le situazioni ai suoi disagi. Di sicuro, però, lui si stanca meno. Quindi, non sempre magari ma comunque spesso, si innervosisce meno. Quindi anche noi siamo nervosi per meno giorni a settimana e tutto gira un pochino meglio. Non dico al top, ma meglio.

Lui non è più calmo, è solo più bravo a incanalare le energie, che sono tantissime proprio come prima. Solo che riesce a utilizzarle in modo un po’ meno dispersivo. Per l’adhd infatti non si somministrano calmanti, ma al contrario stimolanti. Si danno farmaci che stimolano quelle parti del cervello che in un adhd funzionano in modo meno efficace: tutte quelle parti che dovrebbero regolare gli impulsi e che nelle persone con adhd sono meno sviluppate. Questi stimolanti hanno l’effetto di tranquillizzare, e non perché sottraggano energie, ma perché aiutano ad aumentare l’efficienza energetica. È un po’ come passare da una dispendiosa stufa elettrica a un impianto a pavimento: stesso risultato a un costo decisamente inferiore.

Ma torniamo alla vita con il farmaco. Non è andata sempre liscia. Il momento più spaventoso è stato quando ha preso per la prima volta un dosaggio alto e ha iniziato a parlare in modo velocissimo di argomenti che lo ossessionavano. Era andato nel cosiddetto hyperfocus, poi ha avuto una crisi orribile.

Ci sono poi stati tanti piccoli fastidiosi effetti collaterali: le bolle, la nausea, il mal di testa, l’inappetenza, i pensieri ossessivi.

Ogni effetto si è manifestato per qualche settimana e poi è passato.

Ci sono stati i giudizi delle persone intorno a noi, giudizi sempre dettati dalla volontà di fare del bene ad Ale, ma che ci ferivano perché riuscivano a toccare in modo chirurgico le nostre insicurezze.

E poi c’è stato per tutto il tempo quel rumore di fondo fatto di commenti o post sui social o nei gruppi whatsapp, commenti che andrebbero ignorati perché in fondo ognuno ha la sua vita e si racconta la sua verità. Frasi come “Io non darei mai psicofarmaci a un bambino” o “Finché riesci a evitare i farmaci, è meglio”, o anche “Io non ho mai dato il farmaco ma alla fine con tanta terapia le cose sono andate meglio”.

Nessuno, credo, vorrebbe dare uno psicofarmaco al proprio figlio, ma ci sono situazioni in cui ti pieghi a farlo per il bene del bambino. Non perché sia più facile per te genitore, ma perché potrebbe diventare più facile per lui, e anche perché forse nemmeno tu genitore riesci a capire fino in fondo cosa voglia dire vivere con un turbina nel cervello che sta tutto il tempo su di giri, e magari se fossi tu quel bambino e qualcuno ti regalasse un motore più efficiente per gestire i tuoi pensieri saresti felice.

Non è facile decidere che va bene, che darai uno psicofarmaco a tuo figlio. Sembra sempre che con lo psicofarmaco tu ne voglia manipolare l’animo, in un certo senso.

Eppure lo sai benissimo che lo psicofarmaco non manipola niente, e lo sai che in psichiatria a volte i farmaci sono dei salvavita. Lo vedi che, per quanta terapia tu gli faccia fare, c’è sempre quel nucleo che non riesci a scalfire, e lo sai che è lì, in quel nocciolo duro, che si sono aggrovigliati tutti i nodi irrisolti di tuo figlio. Ma al contempo ti chiedi se quel “nucleo” non abbia diritto di esistere proprio come i suoi occhi color nocciola o la fossetta sulla sua guancia, ti chiedi se la sua unicità non stia in fondo proprio lì, in quel lampo di follia che gli vedi balenare negli occhi. E quindi tu che fai, lo vuoi cambiare? E se poi non torna mai più come prima? Se lo guasti?

Il confine è davvero sottile, il cervello è il terreno di incontro tra la nostra biologia, la nostra chimica e la nostra anima. Chi può davvero decidere che lo schizofrenico non vada bene con la sua schizofrenia, che l’ossessivo compulsivo non vada bene con le sue ossessioni e l’adhd non vada bene con il suo motore che gira a vuoto? Alla fine la risposta che mi sono data è questa: se la diversità mentale genera sofferenza in chi è atipico, allora l’atipico ha diritto alla sua pasticca.

Tuttavia, per quante belle cose io mi sia raccontata, il primo giorno in cui siamo stati noi, a casa, a dare la pasticca ad Alessandro, non ho potuto non piangere. Era come se in quella medicina fosse condensata tutta la mia incapacità di risolvere le cose diversamente.

Gli stai dando questo composto chimico perché non sai dargli altro. Perché non basti. Ecco, lo so che è egocentrismo puro, ma mi sentivo insufficiente e incapace. Poi è passata anche questa, come tante altre considerazioni negative che faccio. (“Sei sempre negativa”, mi rinfaccia Federico, che invece soffoca le sue paure con il pragmatismo piuttosto che con il vittimismo come faccio io).

Quei pensieri lì sono passati e la pasticca è diventata routine. Chi ha tempo per crearsi più problemi di quanti non ce ne siano già?

E poi, finalmente, abbiamo iniziato a contare anche gli effetti benefici. Quelle volte che a scuola è riuscito a lavorare più a lungo, o che a casa ha letto un libro per più di un’ora, o che è stato paziente in fila alle Poste.

Ma ci sono state occasioni terribili in cui la maggiore capacità di concentrazione lo ha portato ad annoiarsi ancora più facilmente e a reclamare continui stimoli.

Le sue crisi, più che in passato, dipendono ora dalla noia.

“Mi avete aiutato a concentrarmi, ma ora su cosa mi concentro?”.

Non dimentichiamo, infatti, che è anche un bambino plusdotato. Non si accontenta di una palla e di una bici. Con il farmaco più che mai, va in cerca di esperienze gratificanti e grandiose che lo assorbano, di avventure esaltanti di cui lui sia il protagonista. E non è semplice, per noi, offrirgli una vita che sia al tempo stesso soddisfacente ma tranquilla, routinaria ma emozionante, accogliente ma ogni giorno diversa. Non è semplice e nemmeno lo vogliamo sempre, perché vorremmo anche che lui imparasse a stare nella sua noia. Ma lì arriva la crisi, che ci sottrae tempo, energie, che rompe, che travolge, che influenza il fratellino il quale, il giorno dopo, inizia a imitare il fratello maggiore.

Un gran casino.

Io oggi non lo so se il farmaco è la nostra strada. Sto ancora setacciando i miei pensieri per separare il pregiudizio dalla valutazione oggettiva, il senso di colpa dal senso di responsabilità.

Ma intanto stasera ho finito di scrivere questo post e tra poco lo pubblicherò, sebbene mi faccia paura sapere che dirò a tutti che mio figlio prende uno psicofarmaco. Ci sono casi però in cui la paura esige di essere presa a schiaffi affinché non si incancrenisca.

Quando avrò cliccato su “Pubblica”, sarà come in quei sogni in cui sei nudo davanti al pubblico, ma sarà anche come svegliarsi dopo quei sogni e scoprire con sollievo che la vergogna la provavi tu da solo. Non c’è nessun pubblico, e anche se ci fosse un pubblico, dopo resteresti sempre e comunque tu con i tuoi problemi, insomma al pubblico sai che gliene frega di te. Ma ti ritroveresti anche più vera e forse più leggera per esserti cancellata dalla fronte il marchio che, tu da sola, ti eri impressa.

Il tic che ti sbatte la realtà in faccia

Da agosto Alessandro ha dei tic. Sono tic sia motori che verbali, anche un po’ comici, in realtà. Fa degli scatti con il torace e con le braccia ed esclama “tenk”.

Questi tic sono partiti in sordina, poi si sono amplificati moltissimo e sono quasi scomparsi. Dal giorno del prelievo sono ricomparsi in maniera evidente, che quasi non cessano mai finché Alessandro è sveglio.

Scompariranno di nuovo? Ci accompagneranno ancora per molto? Sono una sfaccettatura di Alessandro che finora non si era palesata e con cui dovremo imparare a convivere?

Mentre mi faccio tutte queste domande, e mentre cerco di scacciare dallo sfondo l’ombra inquietante della sindrome di Tourette, non posso non notare che anche i tic, questi cazzo di tic, mi hanno regalato qualcosa.

Credo per esempio che solo quando mi sono trovata davanti ai suoi tic io sia riuscita finalmente ad accettare che l’ADHD non è una parte di Alessandro da asportare, ma è Alessandro stesso, ovviamente con un problema da gestire, ma con cui al tempo stesso trovare un modus vivendi.

Mi spiego: nonostante i buoni propositi e tutta la buona volontà, i comportamenti di Alessandro finivano sempre in qualche modo per farmi infuriare, ovviamente con lui. Era come se, in fondo, io non riuscissi realmente a capire che alcuni suoi comportamenti non erano dettati dalla mancanza di impegno da parte sua o dal suo brutto carattere. Era come se la mia parte più infantile e istintiva si sentisse offesa o colpita, come se lui stesse facendo qualcosa a me di proposito al solo scopo di ferirmi. Per quanto ci ragionassi e mi dicessi che non era così, che alcuni comportamenti erano dettati dal funzionamento del suo cervello, che quelle crisi facevano male più a lui che a me, beh, io soffrivo più per me che per lui.

Poi un giorno questo ragazzino inizia a vibrare come un terreno percosso da un grosso elefante, nonché a emettere suoni insensati. Ed è allora che nel mio cuore – perché davvero non sto parlando di raziocinio ma semplicemente di cuore – scatta qualcosa.

Il tic mi ha mostrato con un’evidenza fisica, tangibile, che ci sono forze e movimenti interiori che non dipendono da alcuna volontà, che sono del tutto incontrollabili.

Il tic mi ha sbattuto in faccia la realtà.

Accettazione.

Sarei presuntuosa se dicessi che io oggi ho finalmente accettato, perché è così lunga e tortuosa e piena di passi falsi la strada dell’accettazione che forse non voglio nemmeno immaginare di essere arrivata alla meta: avrei troppa paura di illudermi e basta.

Ma di sicuro, da quando è arrivato il tic, la rabbia che provo si è quasi dissolta. Ritorna su ancora, ma ormai poco, solo in casi eccezionali e se ne va presto lasciando il posto al dispiacere, visto che ora so che dietro quegli occhi feroci e quelle mani che menano all’aria cercando di colpirmi c’è una volontà sopraffatta da forze più grandi, le stesse che caricano, caricano, caricano e infine sfociano in quel tic.

Poi c’è stata la cosa di mio padre. Mio padre che ha iniziato a vivere il suo ruolo di nonno soprattutto nell’ultimo anno, prima molto meno. E che per diverso tempo ha sminuito l’ADHD, anche se non ne ha mai parlato in questi termini, essendo lui un uomo molto discreto e rispettoso.

Eppure sapevo che non gli dava peso, come se fosse qualcosa di transitorio, o forse un eccesso di premura da parte di noi genitori verso quel figlio poco maturo ma molto intelligente che, prima o poi, avrebbe smesso da solo di dare problemi.

Ho visto mio padre trasformarsi completamente da quando Alessandro ha i tic. Levando per un secondo l’ansia (lo spettro della sindrome di Tourette sempre là sullo sfondo), ho visto maturare in lui un senso di protezione e accudimento, dettato dalla compassione verso il nipote. Compassione che prima non provava in questi termini semplicemente perché non vedeva lo svantaggio, non vedeva il deficit.

Il tic è la prova provata.

Lo schiaffo in faccia che ti porta giù quando te ne stai andando per massimi sistemi e ti fa capire che in ogni caso, per quanto tu stia male in questa situazione, non sei tu ad avere un problema ma quel bambino.

Ed è lì che ritrovi l’adulto che è in te, rinunci ad ascoltare la voce interiore che reclama attenzioni e che si sente ferita, mentre invece inizia a prevalere l’istinto di protezione verso colui che è meno fortunato di te.

Ecco, io penso che questo abbia fatto il tic: cadere ogni velo.

E Alessandro che ne pensa?

Non sappiamo se Ale sappia oppure no che ha un tic, non ne ha mai parlato se non una sera, prima di coricarsi.

“Mamma, potresti trovarmi un terapista ipnotico? Vorrei che mi levasse questa ossessione del tenk. Per favore, me lo cerchi tu, mamma?”.

Sono rimasta in silenzio, perché non volevo mentire, non volevo sottolineare, non volevo rivelare troppo e perché davvero non sapevo cosa dire per non fare danni.

Si è distratto e quel pensiero non è diventato per fortuna un pensiero ossessivo, anzi non ne ha parlato mai più.

In fretta, come fa qualsiasi altra cosa, ha chiuso gli occhi e si è addormentato. Almeno per quel giorno, il tic ha smesso di agitarlo.

Paura, fallimento, impotenza, speranza

Alessandro ha paura delle punture e stamattina aveva le analisi del sangue. Abbiamo cercato di prepararlo al meglio nelle ultime settimane ma non è servito, Alessandro oggi non è riuscito ad affrontare la sua paura. Lui stesso si era preparato una “strategia” (così la chiamava) per la missione analisi, diceva che avrebbe guardato il tablet e offerto il braccio ai dottori e sarebbe riuscito ad affrontare la sua paura, ma non è andata così.

È andata che è rimasto tranquillo fino all’ingresso nella stanza dei prelievi, dove alla fine si è bloccato per iniziare a piangere, poi a urlare, poi a scappare, poi a parlare troppo, poi a sudare, e tutte queste cose tante volte in tanti ordini differenti.

Siamo andati a fare una lunga passeggiata e abbiamo fatto un salto al mercato lì vicino, dove al banco di fiducia ci ha salutati e incoraggiati l’affezionato Gabriele. Ma non è servito a nulla. Siamo quindi andati dal fioraio, a cui Alessandro ha raccontato di non essere lì perché ama o fiori, ma per calmarsi e poter fare il prelievo. Ma non è servito a nulla. Abbiamo persino comprato i cornetti ai dottori per stemperare la tensione e fare amicizia, ma nulla.

Una volta tornati nella sala prelievi, è ricominciato tutto da capo.

Non esagero, una ventina di persone ha provato con metodi differenti a convincerlo o rassicurarlo. Una vecchietta l’ha chiamato “bello di nonna” afferrandolo prima che lui si catapultasse in fuga per le scale. Una signora si è inginocchiata e l’ha guardato negli occhi dicendogli che anche lei aveva paura ma che sarebbero entrati insieme tenendosi per mano, se lui avesse voluto. Più donne gli hanno offerto la compagnia dei propri figli in sala prelievi, i bambini erano tutti d’accordo. Molte vecchiette e vecchietti l’hanno incoraggiato con “non è niente”, “ma tu sei coraggioso” e tante altre frasi che potete certamente immaginare.

Dopo due ore alla ASL, ho giocato la carta nonna e ho chiesto a mamma di raggiungerci. Si è catapultata: in quindici minuti, col fiatone, era da noi, la guardia giurata dietro di lei per vedere chi fosse quel ragazzino le cui urla si sentivano fino alla guardiola al piano terra.

I dottori e gli infermieri sono passati dall’insofferenza iniziale ad una sollecitudine maggiore. Poi si sono di nuovo stancati di noi e mi hanno detto che avrei dovuto portare il bambino in un ospedale pediatrico. Poi hanno iniziato di nuovo a provarci anche loro, con tutti i metodi possibili, ma non c’è stato verso. Quando mi sono arresa e ho rimesso la giacca ad Alessandro, anche per questi medici era finito il turno e si sono fermati a parlare con me. Mi hanno detto che avrei potuto provare al Bambino Gesù, ma lì – ho replicato io – non c’è possibilità di prenotare e per Alessandro le attese sono, in alcuni casi, impossibili da sostenere. In che senso, mi hanno chiesto. Allora ho spiegato dell’ADHD e del resto, e loro forse a quel punto hanno capito davvero che cosa stessimo vivendo io e Ale. Penso che fino a quel momento non ci avessero davvero “visti”. Si sono fermati tutti a ragionare e mi hanno proposto di organizzare un prelievo in un’altra stanza, magari con la presenza della neuropsichiatra a supporto di tutta l’operazione. Non so se faremo così, in settimana tenterò prima la strada del Bambino Gesù, poi vedremo.

Nel frattempo, cerco di dare un senso a questa giornata.

Il primo sentimento che penso di aver provato è un fortissimo senso di impotenza, che mi ha ricordato i tempi in cui “subivo” le crisi di Alessandro senza riuscire a guidarle, né a prevenirle. L’unica differenza è che questa volta non provavo nessuna vergogna, sebbene gli occhi di tutti fossero puntati su di me. La mancanza di vergogna mi ha aiutato a mantenere i nervi saldi per due ore e mezzo e forse ha aiutato Alessandro a contenere la sua paura, evitando che trascendesse in vera crisi di rabbia.

Ma a fargli fare il prelievo non ci sono riuscita comunque, perciò ora provo un forte senso di fallimento. Ero davvero convinta che saremmo riusciti a portare a casa il risultato. Soprattutto lo speravo, perché Alessandro ha passato tutta la settimana ricadendo in comportamenti bizzarri, in particolare a scuola. Martedì scorso ha trascorso la mattinata sdraiato a terra tra i banchi, per dirne una. E oggi, dopo questa esperienza, è ricomparso il tic che aveva fatto la sua prima apparizione proprio in un’occasione simile e che ultimamente sembrava essere quasi andato via.

Non essendo riuscita a offrire a mio figlio delle strategie funzionali, mi è venuto da ripensare alle parole della sua psicologa: “I comportamenti di Alessandro cambieranno nel tempo e vi porranno davanti sempre nuove sfide, anche quando avrete la sensazione di poter ormai fronteggiare tutto.”

E così è stato, è arrivato il comportamento imprevisto a cui non ho saputo dare una risposta.

Ma.

Per fortuna c’è anche un “ma” in questa storia.

Sebbene Ale si sia paralizzato davanti alla sua fobia, non ha avuto una vera e propria crisi di rabbia, di quelle con schiuma alla bocca e parolacce urlate ai quattro venti. Anzi, devo dire che la sua paura l’ha manifestata in modo molto forte ma anche molto preciso, senza farsi inquinare da altri sentimenti e soprattutto senza mai perdere la lucidità. A parte brevi momenti in cui non riusciva più a guardare negli occhi nessuno, è rimasto sempre presente a se stesso. Quindi, tutto sommato, lo considero un passo avanti rispetto a quelle crisi disumane, sfibranti, che solitamente lo percuotono come bastonate lasciandolo intontito anche per giorni.

Allora mi dico che forse l’ultimo sentimento che provo oggi è la speranza, perché vedo un suo percorso e anche un mio percorso. Non è affatto facile, si compone di tanti insuccessi e dubbi e a volte sembra davvero di camminare nella melma di un pantano, ma qualche passo ecco che lo abbiamo fatto anche noi.

E stasera avevo voglia di fissarlo qui, perché penso che questa giornata orrenda si meriti di finire così, con una vomitata sulla tastiera che mi lasci libera stanotte di sognare giorni più semplici.

Sì, ma di preciso cos’è l’ADHD?

Negli ultimi mesi ci siamo trovati più volte a dover spiegare l’ADHD alle persone che si occupano di Alessandro. Ci è capitato con le nuove insegnanti a scuola, con il maestro di nuoto, con il maestro di judo e con quello di rugby (tre sport in due mesi, proprio così). Ci è capitato con gli altri genitori della nuova classe, con gli altri genitori del corso di judo e suppongo che a breve capiterà con gli altri genitori del corso di rugby. La piscina, per fortuna, è stata abbandonata, per cui dovremo dare una spiegazione in meno.

Mi sono accorta che definire in maniera chiara e semplice che cosa sia l’ADHD è davvero difficile. La definizione del disturbo, o per meglio dire della neuro-diversità, è “sindrome da deficit di attenzione e iperattività”. Chi ne è affetto ha difficoltà a mantenere l’attenzione ed è iperattivo, cioè non riesce a stare fermo. Tutto questo è riduttivo, perché in realtà le persone con ADHD possono concentrarsi e anche fermarsi, purché abbiano una valida ragione per farlo. Il problema è che la loro “ragione” non coincide con quella del resto della popolazione. Mentre noi senza ADHD, in diverse misure, sappiamo trarre “piacere” o “interesse” anche dal portare a termine compiti poco interessanti, riuscendo a comprendere che se faremo una certa cosa (anche noiosa) poi avremo un vantaggio, le persone con ADHD non sanno lavorare in maniera efficace per raggiungere un obiettivo che non abbia una gratificazione immediata.

Io non traggo piacere dal vestirmi ogni mattina e preferirei di gran lunga restare in pigiama tutto il giorno, tuttavia so che la vergogna di uscire in pigiama supererebbe il fastidio di vestirmi a casa, così riesco a pianificare le mie azioni in vista di uno scenario futuro che posso prevedere grazie ad un mix di esperienza, educazione e anche carattere (sono molto previdente). Una persona con ADHD non riesce a strutturare le sue azioni pensando a quello che ne conseguirà in futuro, per cui non vede il senso nel fare cose noiose o anche solo lente a realizzarsi.

Il presente sovrasta ogni altra dimensione temporale: quella del passato, ovvero l’esperienza, e quella del futuro, ovvero la capacità predittiva, che spesso è banale previdenza (prendo l’ombrello perché il cielo è nuvoloso).

Le funzioni esecutive sono quelle che consentono al cervello umano di organizzare pensieri e azioni per raggiungere un obiettivo. Nelle persone con ADHD non sono come dovrebbero.

C’è poi la questione dell’impulsività.

Quando ho davanti a me una faccia da schiaffi, avverto l’impulso di passare alle mani e di vendicarmi di quella persona che mi sta offendendo. Riesco tuttavia a bloccarmi, perché so che uno schiaffo mi farebbe stare peggio, so che potrei avere problemi con la legge, so che esistono modi più efficaci per ottenere qualcosa da qualcuno e ricordo che una volta da piccola venni rimproverata dai miei genitori per aver picchiato qualcuno. Riesco insomma a inibire un impulso perché so che soddisfare quell’impulso non mi farebbe stare così bene, anzi riaffiorano alla mia memoria le sensazioni negative provate quella volta che schiaffeggiai un altro bambino e venni rimproverata.

La persona con ADHD ha più difficoltà di me a frenare questo impulso, perché al contrario di me non riesce a mettere velocemente sul piatto della bilancia i suoi ricordi e le sue previsioni. Non potendo ricordare con tempismo le esperienze passate né prevedere in maniera razionale le conseguenze delle sue azioni, il prurito nelle sue mani è l’impulso che prevale, perché è l’unico che presumibilmente gli darà piacere. Sembra che per lui quella sia l’unica soluzione, perché il suo cervello non sa elaborare strategie alternative, e spesso quando ci riesce è ormai troppo tardi.

I medici spiegano questo comportamento come scarsa capacità di inibire e di autoregolare il comportamento. Per questo, le persone con ADHD sono estremamente impulsive e istintive, anche quando il loro istinto sembra davvero molto vicino ad un istinto animalesco.

Ma poi arriva il giorno in cui la persona con ADHD si imbatte in un argomento o in un’attività davvero troppo interessante. Probabilmente non sarà un’attività che richiederà lunghi tempi di preparazione o di analisi. Probabilmente sarà un’attività rapida, intuitiva, vulcanica, oppure si tratterà di un argomento d’impatto, esplosivo, dirompente, ricco di colpi di scena. In ogni caso, sarà qualcosa che catturerà la sua attenzione. E allora la persona con ADHD si chiuderà su quell’attività, forse anche per ore. Ma come? Non aveva difficoltà a concentrarsi? Non era incapace di soffermarsi su qualcosa?

Sì, ma in quel caso il suo deficit prenderà una strada diversa. Sarà perfettamente in grado di dedicarsi alla sua passione, ma dimenticherà di organizzare, pianificare ed eseguire tutto il resto. Se è uno studente, non farà i compiti. Se è un adulto, non si recherà al lavoro. Se è un bambino piccolo, non ascolterà nessun richiamo dei suoi genitori e magari dimenticherà di andare in bagno o di indossare le scarpe. Inoltre, spiegano i medici, le persone con ADHD non sanno effettuare il cosiddetto “shifting” da un argomento all’altro. O si concentrano su tutte le cose allo stesso modo e senza stabilire delle priorità, oppure si focalizzano su qualcosa e non ne sanno uscire senza uno sforzo immenso. Tutti noi sappiamo chiacchierare con un amico e ignorare in modo più o meno consapevole il rumore di fondo. Per la persona con ADHD, non esiste rumore di fondo, tutto ha la stessa priorità, per cui più che di deficit di attenzione si dovrebbe parlare di eccesso di attenzione. Ma non è un vantaggio, perché a vivere in questo modo c’è da impazzire: come faccio a restare sereno se il film che sto guardando ha la stessa importanza del clacson che mi arriva da una distanza di 50 metri? E se poi accade che riesco finalmente a concentrarmi su qualcosa e dimentico il resto, come reagisco nel momento in cui devo smettere perché qualcuno mi ha chiamato o magari perché si presenta un imprevisto?

Ecco, appunto, l’imprevisto, un altro grande tema.

La capacità di pianificare e organizzare riguarda anche quella di modificare un programma. Chi ha una visione strategica riesce ad adattarsi ai cambiamenti pur di raggiungere il suo obiettivo. Se invece l’obiettivo è sempre collocato nel presente, nel qui e ora, difficilmente si riuscirà a piegare il proprio comportamento in vista di quel che potrà accadere in futuro. Ecco che subentra una fortissima rigidità mentale, che rende le persone con ADHD molto limitate quando si tratta di affrontare l’imprevisto. Eppure immaginiamo gli iperattivi come persone sempre in corsa sulle montagne russe della vita, avventurieri alla ricerca costante dell’ebbrezza. No, non lo sono. Se per la maggior parte delle persone è piuttosto semplice e automatico cercare le chiavi di casa, infilarle in borsa e poi uscire, per una persona con ADHD lo sforzo mentale è molto più grande. Immaginate perciò la frustrazione quando non trovano le chiavi dove dovrebbero essere, oppure quando sono finalmente riusciti a uscire di casa e scoprono che il loro ristorante preferito è chiuso e perciò dovranno fare la spesa, ovvero dovranno organizzarsi per fare la spesa. Il loro è un pensiero rigido, il che – attenzione – non li rende affatto degli automi efficienti e volitivi (in stile impiegato modello giapponese), anzi. A causa della loro incapacità di adattare con flessibilità le azioni (o i sentimenti) alle circostanze impreviste della vita di tutti i giorni, si chiudono in stati d’animo negativi e spesso smettono di imparare dall’esperienza. Così i loro problemi si ingigantiscono sempre di più.

Ecco, forse questa è la chiave interpretativa che io, nel mio piccolo, ho trovato per arrivare finalmente a spiegare come mai mio figlio, bambino con ADHD, riesca con estrema facilità a memorizzare quantità enormi di dati su argomenti di suo interesse o possa passare ore a guardare la televisione come in trance, ma non riesca ancora a disegnare o a vestirsi da solo. Questo è lo schema che ho creato per capire la sua rabbia, e finalmente digerirla. Questo è il paradigma che adesso governa la nostra vita, in cui tutto deve essere pianificato, spiegato, adattato affinché la quotidianità non vada a rotoli come tantissime volte ci è successo.

Ma io ho impiegato 5 anni per capirci finalmente qualcosa, e ancora mi sento molto incompleta, per cui vorrei tanto sapere come trasmettere questa complessità, questa ricchezza, anche alle altre persone. A volte mi arrendo, lo ammetto, e mi riduco a dire che è iperattivo e ha bisogno di sfogarsi. Ma so che sto tradendo lui e la sua essenza, so che sto riducendo a una frase molto superficiale tutta la sua unicità.

Ho capito perciò che parte del mio impegno è volto a trovare parole più semplici per dire chi è mio figlio. Non ci sono ancora riuscita, ma la vita è complessa, lui è magnificamente complesso, e io ho bisogno ancora di altro tempo. So che le cose diventano semplici solo quando le si è capite perfettamente, perciò mi dico che forse è perché non è ancora arrivato il momento, devo ancora camminare su questa strada alla ricerca di un modo comprensibile per definirla. Forse il giorno in cui saprò dare un nome al mio cammino e saprò dirlo anche agli altri, mi sentirò anche meno sola di adesso. Per ora, invece, cammino.

Mentre siamo in vacanza

Siamo in vacanza e avrei tante cose da raccontare, ma scrivo dal cellulare e non posso dilungarmi. Voglio solo fissare alcune idee, che elaborerò meglio al mio rientro.

Sta andando tutto molto bene. Non è il primo viaggio che facciamo, ma forse è il viaggio in cui siamo più consapevoli di quello che siamo e di come possiamo agire per far funzionare tutto al meglio.

Ci sono tantissimi aspetti da migliorare, ma nel complesso ce la caviamo.

Riporto qualche episodio. Ieri Alessandro aspettava con ansia di andare in piscina, ma un imprevisto glielo ha impedito. Quando ho saputo che non avremmo avuto tempo per la piscina, l’ho guardato e gli ho detto: “Devi sapere una cosa. Ti farà arrabbiare, ma vedrai che riusciremo a gestirla. Purtroppo papà ha avuto un contrattempo e non può portarti a nuotare come promesso.”

Nei suoi occhi sono passate mille nuvole di bufera, piene di pioggia e lampi. Ero pronta al peggio, ovvero a una lunga crisi senza se e senza ma. Invece è scoppiato a piangere come qualsiasi altro bambino, ha protestato, ha detto che non sarebbe andato da nessuna parte, ma poi è finita lì. È finita lì. Mi ha seguita in macchina, continuando a borbottare si è addormentato, al risveglio era come nuovo e abbiamo passato un bel pomeriggio.

Poi c’è stato l’episodio della spada, una spada da gladiatore che chiedeva da giorni. Finalmente ci decidiamo a regalargliela ma nel negozio non la troviamo più, è stata venduta appena la sera prima. Penso che si debba portarlo via di là il prima possibile, ma lui sbatte i piedi e per tre volte urla “No” con tutta la sua voce. Va verso uno scaffale coperto da alcuni teli, la commerciante lascia fare, io gli dico di non toccare e ancora una volta gli propongo di andare fuori a parlarne. Lì dietro ci sono altri giocattoli, non so perché li tengano lì, comunque ci sono. Li guarda e con rapidità sceglie un altro gioco, esclamando: “ecco, ho trovato un’alternativa e non mi arrabbio più!”. Applausi.

Ci sono state poi tante piccole ribellioni, ma tutte innocue. Abbiamo spiegato, a volte abbiamo urlato in modo irragionevole, altre volte è stato necessario urlare, perché è vero che le regole urlate al vento non hanno valore, ma anche il nostro bisogno di gridare andava assecondato.

Anche se sono sempre sul chi va là nel tentativo di prevenire o gestire, ogni tanto cerco di ridere e basta con questo figlio che oggi sulle giostre correva come un pazzo gridando “Santi Numi”.

Subito dopo si è affacciato dallo scivolo e mi ha chiesto se “Santi Numi” si può dire o è una parolaccia.

Sempre oggi, mi si è piazzato davanti mentre inserivo i soldi in una macchinetta del caffè e ha pigiato compulsivamente dei tasti, facendo uscire un cappuccino. Faceva schifo, inoltre io volevo un espresso. Mi sono arrabbiata tanto e lui ha iniziato a schiaffeggiarsi. Poi me lo sono bevuto lo stesso, perché nella vita capita di volere un espresso e di ricevere invece un cappuccino con latte liofilizzato, ma se trovi qualcuno che ti insegna a mandare giù con coraggio quella miscela nauseabonda, per me vinci lo stesso.

Alla fine la diagnosi è arrivata

E ha confermato tutto.

Alessandro “presenta disturbo ipercinetico con difficoltà attentive e disregolazione comportamentale”.

Ora è scritto su un atto pubblico ufficiale. Non si torna più indietro, non che ne avessi intenzione, del resto.

La diagnosi è arrivata due settimane fa. In questi 14 giorni non ho avuto tempo per scrivere, ma ho avuto tempo per metabolizzare.

Non mi aspettavo nulla di diverso, solo nutrivo ancora una speranza, anche se minuscola, che tutto alla fine si risolvesse in un grande fuoco di paglia.

Il mio sogno piccolo piccolo era di chiamare le mie amiche e dire loro: “Tutto a posto, ci siamo preoccupati per nulla. Alessandro è solo molto vivace.”

E poi magari un giorno leggere qualche notizia su qualche bambino con autismo o con Asperger o, appunto, con ADHD, e sentirmi sfiorata da un ciclone che, però, non mi avrebbe mai davvero travolta.

Invece mi ha travolto, eccome se mi ha travolto, ma è un ciclone straordinario. Un ciclone che si chiama Alessandro.

La cosa che mi ha colpito di più della diagnosi è che contiene delle sigle strane. Ho approfondito: sono le sigle corrispondenti al tipo di patologia nel sistema di classificazione delle malattie.

Quindi mio figlio è una sigla, è stato incasellato.

Ha un’etichetta. E quante persone incontrate in questi anni mi hanno detto: “non fidarti delle etichette”. Peccato che poi le etichette gli siano state appiccicate addosso centinaia di volte, ogni volta che mostrava comportamenti inopportuni, quindi con una certa frequenza. Allora mi dico: non è meglio avere un’etichetta che spieghi il senso di certe sue arrabbiature, piuttosto che ricevere l’etichetta di bambino arrabbiato?

Adesso inizieremo un percorso burocratico che porterà al riconoscimento ufficiale del sostegno scolastico (per ora ha solo quello privato, pagato da noi) e dell’invalidità. Una legge ci tutelerà e, insieme, ci inserirà in una categoria. Adesso siamo una categoria. Mi fa paura, mi fa sentire in un certo senso vincolata, ma mi fa sentire anche meno sola.

Tutto ruotava attorno a questa situazione anche prima di due settimane fa. Adesso continuerà a farlo, ma sarà riconosciuto e forse avremo degli aiuti, o forse no, ma almeno saprò rispondere meglio a chi proverà a dargli delle etichette che saranno, quelle sì, del tutto sbagliate, come ad esempio:

“Sei cattivo”.

“Sei tremendo”.

“Non ti stanchi mai, eh?”

“Sei arrabbiato”.

“Sei maleducato”.

Ma anche a noi genitori:

“Avete un cattivo rapporto con lui”.

“Chiaramente avete problemi a relazionarvi con lui”.

“Forse è arrabbiato perché gli è nato il fratello”.

“Ma tutta questa rabbia da cosa gli viene?”

“Ma il padre è presente?”

“Quanto Youtube gli fate vedere?”

“Una bella pizza in faccia e gliela facevo passare io la voglia di fare così”.

“Io gli buttavo tutti i giochi, ti facevo vedere io come cambiava subito”.

Ecco, adesso di fronte a tutte queste frasi saprò come rispondere: con una bella pernacchia.

Il valore delle cose ufficiali

Quando le cose le vedi scritte, assumono un’altra istanza.

Ufficializzare significa mettere un mattone e proseguire nella costruzione.

Per me adesso è come se si fosse chiusa una fase, la fase della ricerca e della comprensione, e se ne fosse aperta un’altra, quella delle risposte e delle consapevolezze.

Credo di aver messo a fuoco completamente mio figlio, e non perché avessi bisogno di definizioni o diciture, ma perché tutto quello che appariva confuso e che mi faceva dubitare, oggi, non esiste più.

La sua rabbia esplosiva, ad esempio, non aveva mai trovato una spiegazione chiara finché non ho capito che derivava dalla sua incapacità di inibire alcuni comportamenti. Ho cercato a lungo altre spiegazioni, dando anche a me la colpa per quello che poteva sembrare a prima vista un suo stato di sofferenza e tormento continuo. Ma ora so che non è così, so che non dipende da traumi, non dipende dal contesto in cui vive, non dipende dal suo caratteraccio (per quanto il caratteraccio ce l’abbia, ma su altri fronti) e non dipende da me, sua madre. Dipende dal suo disturbo, può essere gestita e lo porterà ad essere sempre combattivo, basterà dargli gli strumenti giusti, e così il suo disturbo si trasformerà in un vantaggio.

La sua disorganizzazione? Non dipende dal mio disordine, né dall’assenza di regole chiare, né dalla tv che guarda. Dipende dal suo disturbo, ma troveremo il modo di governarla, e allora diventerà creatività, e si trasformerà in un vantaggio.

Alessandro ha un quoziente intellettivo molto al di sopra della media. Abbiamo scoperto anche questo, anche questo sta scritto nella diagnosi, misurato e trasformato in una sigla e in un numero. Pure questa è una risposta ai nostri dubbi. Come mai non riesce ad interessarsi alle cose che di solito piacciono ai bambini? Perché non gioca con i giocattoli? Perché non riesce a integrarsi nel gruppo classe? Perché è così estenuante e ribatte a tutto ciò che gli viene detto, dal momento in cui si sveglia a quello in cui si addormenta? Finalmente sappiamo che non dipende solo da alcuni suoi comportamenti disfunzionali, ma anche dalla sua diversità, quel quid che lo rende speciale e diverso da tutti gli altri. Anche questo aspetto dovrà trovare il giusto canale di espressione, ma ci proveremo e diventerà un vantaggio.

Vero, mio figlio è un bambino ADHD, ma oltre il muro delle difficoltà iniziali, io per lui vedo solo opportunità.

Una giornata difficile

Questa giornata inizia con una piccola crisi nel solito marasma mattutino. Al momento di attaccare la “programmazione” sulla porta di casa (dei disegni stilizzati di tutto ciò che Alessandro farà durante il giorno; è un’abitudine che lo rassicura molto), dimentico di attaccare la figura della nonna prima di quella della psicomotricista.

“Mamma”, inizia a urlare. “Ti sei dimenticata nonna prima di Raffaella. Perché?”. La voce è strozzata dalla rabbia. “Perché? Prima di Raffaella c’è nonna, è lei che mi porta da Raffaella! Voglio strappare quello stupido disegno sbagliato!”.

Io tampono, ma ormai la crisi è partita. “Ecco, Ale, ecco nonna, la metto qui, prima di Raffaela!”. Lui si butta a terra, io lo ignoro. Fingo di mostrare al fratellino qualcosa; Ale si incuriosisce, si distrae, si ferma. In qualche modo, riusciamo ad uscire di casa.

Alle 10 sono in ufficio già da un’ora. Mi arriva una chiamata dalla scuola. Sono abbastanza tranquilla perché in quel momento Alessandro non è a scuola, è a psicomotricità. Sarà qualcosa di burocratico. Richiamo e la responsabile della scuola mi dice che il giorno prima è successo di tutto. Lui non vuole più dormire di pomeriggio perché ormai ha 4 anni e mezzo, è fisiologico. Ma la maestra di sostegno va via alle 13 e le ore del pomeriggio non possono essere affrontate se lui non va a dormire. Ne va della sua serenità, ne va della serenità della classe. La responsabile mi chiede di valutare di farlo uscire prima un paio di volte a settimana. Io rispondo di sì, penso che mia madre mi potrà aiutare anche questa volta. Mi sento in colpa, è vero, ma che scelta ho? Un giorno la ripagherò di tutti questi sacrifici, mi dico. Anche se un figlio non potrà mai ripagare del tutto un genitore, adesso lo so.

Sono le 10 e sono stanca come se fossero già le 23. Alle 11 arriva il messaggio della responsabile della scuola: “Ciao mamma, la nonna non riesce a far entrare Alessandro. Sono tutti e due qui fuori e lui continua a scappare. Non so se sia il caso di farlo stare a scuola oggi…”

Chiamo mia madre e mi dice che in effetti se l’è riportato a casa. Non è riuscita a convincerlo, non c’è stato verso. Tutto è nato da una sua arrabbiatura nello studio della psicomotricista, dopo la quale non si è più calmato. “Va bene”, le dico, “esco prima e ti raggiungo, così puoi andare a fare quella tua visita.”

Lo trovo seduto su una poltrona con due occhiaie profonde, un po’ frastornato. Lo porto a casa (altre piccole crisi, subito sedate), penso di andare magari a fare una passeggiata ma piove, lo vedo stanchissimo, io stessa mi sento svuotata, vorrei che fosse già notte, ma sono solo le 15. Trascorriamo il tempo facendo un ciambellone, in qualche modo la sera arriva.

Decide di mandare un messaggio vocale al papà. Incredibili le sue parole, tanto che non ho ancora deciso se sono di reale pentimento o solo estremamente furbe.

“Papà io oggi non sono andato a scuola, sono rimasto con nonna. Non sono andato perché ero ancora arrabbiato con Raffaella e avevo paura di fare cose cattive a scuola se entravo…”

Dopo cena, cronaca di una tragedia annunciata, la bolla esplode. Arriva la crisi, il pretesto è un pretesto qualsiasi. Inizia il lancio dei giochi e degli oggetti, un libro della biblioteca comunale viene strappato (sto ancora pensando a cosa dirò quando andrò a restituirlo), partono cazzotti, calci. Guardo Federico dritto negli occhi e gli dico: “Ignoriamolo. Non raccogliamo assolutamente nemmeno mezza provocazione”. Lavo i piatti e scende la lacrima che stava appesa lì dalla mattina, ma non è ancora il momento di piangere, la crisi è in atto.

Fingendo di non provare dispiacere davanti alle sue sfide a viso aperto, vediamo che poco a poco l’intensità della sua rabbia si affievolisce. Poi torna a montare, un’aranciata viene rovesciata, vola qualche altra cosa. Cala nuovamente, lui se ne va in cameretta e si nasconde dietro al letto. Dopo 10 minuti di strano silenzio, sentiamo dei singhiozzi.

Federico si chiude in camera con lui. I singhiozzi diventano pianto inconsolabile.

“Sono solo uno stupido imbecille maleducato che fa cose brutte. Sono inutile. Sono inutile. Sono un bambino inutile”.

E poi, poco dopo: “Perché siamo nati? Perché si è formata la Terra? Vorrei che il mondo non esistesse, così non esisterebbero i bambini e non esisterei nemmeno io”.

Adesso che la rabbia è passata, anche lui vede con chiarezza quanto si è comportato male. Piange ancora per un’ora, continuando a dire di quanto sia inutile, stupido, imbecille, maleducato. Dice che gli manca la nonna perché lui è un suo fan (questi giovani che parlano già dalla nascita come se fossero in un talent show). Si porta nel letto la foto di mia madre. I singhiozzi diventano respiri, sempre più lenti e profondi, finché finalmente si addormenta, come sempre con la fronte corrucciata e le gambe avvinghiate alle coperte.

Anche oggi la sua lotta si è conclusa. Finalmente quella mia lacrima può scendere.

Dalla psicomotricista

Oggi ho portato Alessandro dalla psicomotricista. Finora ce lo aveva sempre portato mia madre, perciò per me era la prima volta. Lui era così emozionato per il fatto di avermi lì (e per il costume di Halloween che indossava) che ha voluto che entrassi in stanza. Così ho assistito a tutta la terapia.

La dottoressa (un altro dei tanti incontri fortunati della nostra vita) gli ha proposto una serie di giochi incentrati sul meccanismo: input-controllo dell’impulso-ricompensa.

Esempio: lei era in piedi su una sedia e lui in piedi in un cerchio appoggiato sul pavimento. Lei faceva cadere un piccolo ritaglio di fazzoletto e lui, durante la lieve e lenta caduta del pezzo di carta, doveva restare immobile. Appena il fazzoletto toccava terra, lui poteva uscire dal cerchio e scatenarsi in mosse ninja. Tutto ripetuto per dieci volte. Alla fine dell’esercizio, lei gli ha detto di sedersi per mangiare le patatine e gli ha messo davanti una patatina alla volta, con molta calma, fino ad arrivare a 10, chiedendogli di non toccare nulla finché lei non avesse finito. Lui, fremendo con tutto il corpo (e limitandosi ogni tanto solo a leccare una patatina per poi rimetterla giù), ha saputo aspettare prima di iniziare finalmente a mangiare.

Lo stile della seduta è stato questo.

Io ho osservato tutto dalla mia sedia. Lui, di tanto in tanto, si girava con una sguardo d’intesa, visibilmente felice della mia presenza.

È stato molto bello percepire il suo impegno, i suoi sforzi. Sta facendo un percorso bellissimo, sta davvero sfidando se stesso con tutte le sue energie. Vedere il suo piccolo corpo faticare nell’immensa missione di cambiare alcune sfumature della sua anima mi ha colpito. Ho pensato a quanto sia difficile, anche per un adulto, cambiare strada e prendere una direzione che va contro la sua natura, persino quando la sua natura lo fa stare male.

Lui lo sta facendo, sotto forma di gioco, vero, ma lo sta facendo.

Il mondo fuori da quella stanza era un mondo di bambini all’asilo, o a casa con le loro famiglie. Lui invece era lì, a lottare.

Le mamme fuori da quella stanza pensano al colore dei quaderni, al regalo di Natale per la maestra, a quella signora che accompagna il figlio in minigonna e che attira gli sguardi dei papà. Invece io ero lì a guardare lui lottare, e ne ero fiera. Ho anche mandato giù un fiotto di pianto, lo ammetto, perché mi fa tenerezza vedere il suo sforzo, perché percepisco che sta giocando ad un gioco molto più grande di lui.

L’altro ieri si è svegliato e mi ha detto di aver fatto un sogno.

“Mamma, sono stanco, ho dormito male. Stanotte ho sognato di lottare contro me stesso.”

Ha ragione, il suo inconscio glielo ha detto con chiarezza. Ma io sono con lui, ce la posso fare.