Oggi ho letto in un gruppo social di genitori di bambini ADHD che la Regione Veneto ha concesso alle persone con alcuni tipi di diagnosi psichiatriche di allontanarsi da casa entro il raggio dei 200 metri. Non ho ancora verificato la fonte e non conosco i dettagli, ma non mi sembra affatto una cosa priva di senso. La cattività tra le mura domestiche non fa bene a nessuno, ma è ancora più dannosa per chi è instabile, incline alla paranoia o alla depressione, così come per gli iperattivi. E per le loro famiglie, aggiungo io.
Infatti nel gruppo molti genitori ne parlavano come di una benedizione, perché in caso di crisi dei figli avevano la possibilità di farli uscire e di farli camminare per qualche metro, ristabilendo un equilibrio che altrimenti sarebbe stato assai difficile da ritrovare.
Come tutti, anche noi siamo in casa da tre settimane e mezzo. In queste lunghe giornate non mi sono annoiata, non ho dovuto cercare ispirazione guardando le dirette social dei vip, non ho potuto rinfrescare tutte le stanze. Chi sta lavorando da casa come me, oppure chi non sta lavorando ma si ritrova in casa con dei bambini lo sa benissimo: la noia è un lusso ormai dimenticato. Io però temevo moltissimo questa reclusione, avevo paura che rompesse il sottile guscio in cui mio figlio Alessandro aveva finalmente trovato un embrione di equilibrio.
Da un giorno all’altro, niente più scuola con la nuova insegnante di sostegno che aveva appena iniziato ad allacciare i fili di un legame di reciproca fiducia, niente più terapia due volte a settimana con una dottoressa che ormai è un punto di riferimento per lui e per noi, niente più nonna, una figura centrale per Alessandro, il suo rifugio sicuro.
Retorica familista
Forse adesso siamo già troppo stufi, ma all’inizio era tutto un fiorire di “approfittatene per stare con i vostri bambini” e “quanto è bello avere finalmente tempo per i figli”. Io non mi sono unita al trenino della retorica familista, perché per quanto ovviamente anche io fossi contenta di passare delle ore con i bimbi, la verità è che penso che la famiglia non basti.
Non basta a nessun bambino, e soprattutto non basta a un bambino che ha bisogno di aiuti speciali proprio per imparare a vivere fuori della sua famiglia. Senza rete non si sopravvive. Se la rete la devi costruire a fatica, e ti si strappa di continuo, e tu ogni volta la ricuci pungendoti le dita, la paura di restare ancora una volta senza ti può davvero far sentire come se ti stessi scontrando contro un muro.
Ma oltre a questo ho fatto un altro pensiero: perché dovrei essere finalmente felice di godermi i figli? Non me li sarei goduti fino a oggi? E dov’ero, allora?
No, mi dispiace, ma non ci casco. Sono quello che sono, e le scelte che ho fatto e che faccio non hanno sottratto niente ai miei cari, perché se è vero che sono per molte ore al giorno lontana da loro, penso di dare tutto ciò che posso, con una presenza emotiva che non si misura in giri di lancette. Io, oggi, penso davvero di non poter dare più di quel che do, per tutti i pensieri che ho fatto, per tutte le parole che ho detto, per tutti i bocconi amari che ho mandato giù e tutte le piccole vette che ho conquistato. E se anche ci fosse qualcosa in più da dare, non sarebbe alla mia portata, perciò è come se non esistesse.
Nota:
Potrei estendere il discorso a tutti gli altri filoni che ho visto diffondersi in questi giorni: “ho avuto finalmente il tempo di pensare”, “ho avuto finalmente il tempo di leggere”, “ho avuto finalmente il tempo di scoprire chi sono”. E quindi? Quando questo tempo non lo avrai più, cosa farai? Ti perderai di nuovo? No, essere presenti a se stessi è un dovere che non può essere legato alla quantità di tempo che hai a disposizione.
Se ti sei perso di vista, forse devi chiederti perché prima di gioire del fatto che qualcuno ti abbia finalmente incatenato di fronte a uno specchio.
E chiudo qui, altrimenti vado fuori tema e sembro pure cattiva.
Tante piccole vittorie
Il pensiero della quarantena in casa con mio figlio iperattivo e con il fratellino più piccolo mi atterriva, è vero, ma sta andando meglio di quanto credessi.
Abbiamo trovato un nostro modus vivendi e andiamo avanti nonostante le ripicche tra fratelli (di routine in tutte le famiglie) e alcuni episodi critici (di routine nella nostra famiglia). Ma le crisi sono sempre circoscritte, non durano più intere giornate come accadeva fino a tre o quattro mesi fa.
Un po’ siamo noi ad aver imparato a ignorare, a dare meno peso, a gestire, a levare di torno in meno di un minuto tutto ciò che potrebbe venir lanciato, a dire la frase giusta al momento giusto, a prevedere l’arrivo del ciclone e a sviare prima che sia tardi, a non chiedere mai troppo, a non volere troppo. E la sera, quando alla fine siamo solo io e il papà sul divano a contare i cocci della giornata, quante pacche sulle spalle ci diamo, per dirci che siamo stati bravi, per consolarci, per assolverci a vicenda di tutte le volte che invece abbiamo perso le staffe. Anche questo riuscirsi a ritrovare ogni sera lo abbiamo dovuto imparare, vincendo quell’impulso distruttivo che ti farebbe venir voglia di dare fuoco a tutto il mazzo di carte ogni volta che il castello crolla.
Ma il merito più grande va a lui, Alessandro, che sta lavorando tantissimo e che lo dimostra ogni giorno con tante piccole vittorie prima impensabili.
Una settimana fa, ad esempio, stava saltando sul letto in preda all’euforia, e sempre in preda all’euforia mi ha mollato un cazzotto dritto su una delle lenti dei miei occhiali. Sono passati 6 giorni e mi fa ancora male il naso, questo solo per dire quanto il colpo fosse forte e ben assestato. Colpa mia: so benissimo che lui, quando prova un’emozione troppo forte, si sfoga fisicamente e picchia, perciò avrei dovuto contenere l’euforia in qualche modo, oppure allontanare la mia faccia. In quel momento, però, mi sono arrabbiata tantissimo, scatenando di conseguenza la sua ira, che di solito aumenta in maniera esponenziale quando si sente in colpa e quando capisce di aver fatto qualcosa di inaccettabile, per giunta contro la sua stessa volontà.
Ma proprio quel giorno è accaduto qualcosa di bello. Io, passati i primi minuti, ho deciso di dirgli che andava tutto bene e che non ero arrabbiata perché avevo capito che non l’aveva fatto apposta (quanto mi è costato farlo, dirglielo e soprattutto convincermene!). Lui non ha dato in escandescenze, ha solo manifestato in modo forte la sua rabbia per una decina di minuti per poi – qui sta il miracolo – tornare su emozioni più contenute e gestibili.
E alla fine, ciliegina sulla torta, ha aperto con me l’argomento (ed è una cosa che non fa mai, di solito torna sul tema dopo qualche mese per spiegare finalmente la sua versione dei fatti): “Mamma, sono uno stupido, perché ti ho dato un cazzotto.” E lì giù a dirgli che non è uno stupido, ma che ha solo fatto una cosa che non si doveva fare. Pianti, qualche timido abbraccio, qualche resistente bacetto prima di tornare a dare pugni, questa volta ad un punching ball strategicamente fatto apparire in giardino.
Forse è una banalità, forse è il minimo che un genitore vorrebbe sentirsi dire dopo aver ricevuto un pugno in faccia, ma per me quelle parole sono state tutto ciò di cui avevo bisogno.
Sta iniziando a regolare il suo comportamento. Non sa ancora fermare quel pugno, forse imparerà, forse proprio non ci riuscirà mai. Ma riesce a fermare quello che viene dopo. Sono così fiera di lui.
Quindi come va a casa?
Ecco, chiarito che a me di stare a casa a fare torte di mele interessa meno di zero e che per me l’interesse primario è che Alessandro riceva le terapie che lo stanno aiutando a crescere, a casa si sta meno peggio di quanto credessi.
Ma questo non cambia di una virgola il mio pensiero: per quanto sia bello stare con mamma e papà, nessuno può fare a meno del contesto sociale, della sua rete. E non basta la didattica a distanza, non bastano i lavoretti, non basta il sorriso di chi ti ha messo al mondo, perché questi bimbi il mondo lo devono vivere e calpestare, ne hanno il diritto.
Non parliamo poi dei bambini che a casa non hanno proprio nessun sorriso, perché magari vivono in contesti violenti o chissà di che altro tipo. Ma a loro qualcuno avrà pensato?
E per quanto riguarda i bambini con bisogni speciali, la quarantena non può che essere una breve parentesi, perché le famiglie sono indispensabili, questo è vero, ma hanno bisogno di supporto, altrimenti il danno può diventare immenso. Io stessa mi chiedo: alla fine di questa fase, avremo fatto passi indietro rispetto al terreno così faticosamente conquistato? Dovremo ricominciare da zero?
Le preoccupazioni sono tante, perciò se qualcuno, in Veneto o altrove, si è posto il problema e ha deciso almeno di concedere 200 metri di libertà, non riesco a non vederlo come un gesto di grande sensibilità verso una realtà che spesso passa sotto traccia, invisibile e difficilissima da spiegare.