Arrivare secondi

Io non ho un solo figlio, e sebbene spesso le mie energie siano completamente risucchiate dall’ADHD di Alessandro, devo ricordare che oltre ad Alessandro esiste anche Flavio. Non sempre è facile, un po’ perché Flavio cresce e viene su da solo, un po’ perché le energie sono limitate, e prima o poi dove non arrivi devi mettere un punto.

Ma Flavio esiste e reclama le attenzioni che gli spettano, dà fastidio come ogni fratello minore, ruba giocattoli, urla e si arrabbia, fa i capricci, rompe le cose del maggiore, picchia e spinge. Eppure, avere a che fare con lui è facile, almeno in questa fase della sua vita.

Ha un carattere molto forte, ma è anche malleabile e ragionevole. Ottiene le cose con la furbizia più che con l’aggressività. Ha momenti di autonomia, che ti danno respiro, ma cerca sempre anche il contatto fisico, in un modo piacevole e tenero. É molto attivo, ma sa dosare le sue energie, per cui riesce a fermarsi quando è il momento di ricaricare le pile. Forse le sue sono doti, forse questa è semplicemente la normalità e io la conosco adesso per la prima volta.

Difficile non procedere per paragoni quando hai più di un figlio. Ogni caratteristica dell’uno prende forma e si staglia sullo sfondo delle differenze con l’altro. Non che prima tu non conoscessi ogni sfaccettatura del tuo primo figlio, solo che tutto era mischiato nel gran calderone del tuo formarti come genitore, sicché era difficile dare un nome preciso alle cose. Per esempio: è davvero un bambino volitivo e un po’ prepotente o è così perché tu sei troppo permissivo? Quante volte te lo sei chiesto? Oppure: è realmente un bambino con un forte attaccamento materno o forse sei tu a non lasciargli spazio?

Nel mio caso le domande erano altre (sarà così aggressivo per colpa mia? Sarà così sveglio per merito di tutti gli stimoli che gli ho dato io? Sarà così indisciplinato per la mia incapacità di dare le regole? E così via…), ma molte di queste domande sono svanite quando è nato Flavio, che mi ha riportato sulla terra facendomi assaporare un altro modo di essere madre, con altre dinamiche, dettate da una creatura con un’altra personalità, completamente diversa. Perché ho capito una cosa, e non l’ho capita finché non ho avuto due figli: possiamo credere quanto vogliamo di essere noi a plasmare i nostri bambini, ma la verità è che sono individui con la propria personalità, con pregi e difetti che esistono e possiedono a prescindere da noi. Abbiamo un ruolo cruciale nella loro crescita e formazione come individui, questo è chiaro, ma il loro percorso nella vita non dipende solo ed esclusivamente da noi. Veder crescere due fratelli, riconoscere le loro differenze intrinseche così come le similitudini, aiuta a comprendere meglio dove finiscano meriti o colpe della famiglia e dove inizi la loro personalità.

Io riconosco, in maniera egoista e anche un po’ meschina, che avere avuto Flavio mi ha salvato. Mi ha salvato dalla paura di avere una parte di colpa nei comportamenti disturbati di Alessandro. Tutto questo è andato di pari passo con la diagnosi dell’ADHD, ma prima dell’ufficialità, durante i momenti più duri, quelli in cui davvero ho rischiato di sentirmi finita e di perdere la lucidità, poter osservare un altro bambino – ugualmente cresciuto da me ma non problematico – mi ha dato la forza di capire che tutto ciò che Alessandro viveva non dipendeva da me. E se questo è stato orribile (fosse dipeso da me, ci sarebbe stata una soluzione), è stato anche liberatorio. Ho avuto sentimenti egoisti, l’ho già detto, ma aggiungo che l’unico modo per aiutare mio figlio poteva passare solo attraverso l’accettazione della natura del “problema”, e quindi ben venga l’egoismo.

Tuttavia, come ogni altro rapporto tra madre e figli, anche il mio è pieno di ombre e contraddizioni. Da un lato, vedere Flavio sereno mi dà la possibilità di concentrare le energie sul figlio più difficile. Dall’altro mi chiedo se tutto questo sottrarre, comparare e confrontare non stia creando un grande vuoto in Flavio. So che nella vita si fa di necessità virtù, e lui ha già imparato a ottenere le cose a modo suo, tuttavia non posso non chiedermi cosa significhi crescere in una famiglia in cui tuo fratello è l’elemento che più preoccupa i tuoi genitori, quello alle cui esigenze devi adattarti per forza di cose, sempre e comunque.

Tempo fa ho pubblicato questo blog su Facebook. Mi ha scritto una mia amica, una ragazza che non sentivo da anni, e mi ha confidato di essere cresciuta in una situazione simile, quella in cui lei era la sorella del bambino diverso. Ho avvertito il peso della sua condizione, il suo enorme senso di responsabilità ma anche lo strascico di una vita ad essere l’ombra di qualcun altro.

A volte, durante le crisi di Alessandro, negli occhi di Flavio ho visto uno smarrimento in cui mi sono persa anche io. Per me è stato difficile, in quei momenti, riacquisire il mio ruolo e tornare ad essere per lui un punto di riferimento, perché la verità è che la serenità dei suoi occhi a me serve per non andare giù. Ma lui ha diritto di smarrirsi, molto più di me, e io il dovere di afferrarlo prima che vada a fondo.

Ecco, io vorrei un giorno potergli dire tutte queste cose, chiedergli scusa se molte volte ho fatto così poco, ma dirgli anche che lui per me è un vento fresco di primavera, una brezza marina che penetra nei polmoni e ristora, è la luce prima di partire per le vacanze, la strada durante un viaggio verso il paese dell’infanzia. Probabilmente tutto questo non gli basterà mai, forse nessuna mamma basterà mai ai propri figli, ma spero ugualmente che lui un giorno lo legga. E lo capisca. E un po’, magari, mi perdoni.

Fare squadra, costruirsi una rete

Un cruccio che ho sempre avuto da quando ho intuito – dapprima – e scoperto – poi – che mio figlio ha una neurodiversità (si dice così?) è stato quello di sentirmi isolata. Isolamento e solitudine come mamma, come persona, come famiglia.

Dare un nome e cognome ai nostri problemi (ADHD) e ottenere anche una certificazione e un inquadramento legislativo ha significato ritrovare un’appartenenza, ma un’appartenenza ancora tutta di nomenclatura e ancora tutta privata. Anche così, la solitudine permaneva.

Poi, due mesi fa, ho deciso di pubblicare questo mio blog sul mio profilo personale facebook. L’atto ha avuto varie conseguenze. La prima è che, per me, si è chiusa ufficialmente la fase della ricerca di risposte e si è aperta la fase dell’accettazione. Poter dire in pubblico “mio figlio è un bambino con ADHD” ha avuto un valore liberatorio enorme.

La seconda è che molte persone, amici o semplici conoscenti, mi hanno scritto per esprimermi simpatia, solidarietà, affetto. Davvero, è stato un bagno d’amore che mi ha inondato e che non mi aspettavo.

Ma la gratificazione del momento dura, appunto, un momento. Lascia bellissimi ricordi, ma il giorno dopo ricominci ad affrontare le tue incombenze quotidiane e sei di nuovo solo.

Però è successa un’altra cosa bellissima: si sono fatte avanti delle persone nella mia stessa situazione, e abbiamo iniziato a raccontarci le nostre storie.

Ho conosciuto A., dolcissima amica, che si barcamena tra la propria carriera e la voglia di essere una mamma presente.

Ho conosciuto M.E., istrionica donna, che forse è al di sopra di tutti i miei crucci perché ha raggiunto il nirvana dell’accettazione, e ironizza sulla sua quotidianità incasinata.

Ho ritrovato M., che lotta contro i pregiudizi, so benissimo cosa significhi.

Ho chiacchierato con F., che mi ha portato il suo punto di vista di sorella di un ragazzo disabile e mi ha fatto capire che non dovrò mai dimenticare che io di figli ne ho due, non soltanto uno.

E tutto questo scambio mi ha dato la spinta finale, dopo due mesi di titubanze, per iscrivermi ad una Onlus dedicata alle famiglie di persone con ADHD. Sono dentro da poco, circa un mese, ma sto imparando tantissimo. Sto imparando, e quindi accettando, che ci attende una vita di lotte e rivendicazioni, di ricorsi, di studio, di informazione. Sarà dura? Credo di sì, come credo che agire nella consapevolezza renda sempre e comunque più felici rispetto a subire con passiva rassegnazione o – ancora peggio – a nascondere la testa sotto la sabbia. Intanto sono in un gruppo, una comunità, un posto in cui non sono più sola, in cui posso anche aiutare qualcuno, in cui posso trovare comprensione ed empatia. Non sono più sola, la mia famiglia non è più sola e questo ci restituisce una sensazione di normalità, o meglio ancora di routine, che ci rende più semplici, per certi versi anche più banali, e anche per questo molto più forti di prima.

Sì, ma di preciso cos’è l’ADHD?

Negli ultimi mesi ci siamo trovati più volte a dover spiegare l’ADHD alle persone che si occupano di Alessandro. Ci è capitato con le nuove insegnanti a scuola, con il maestro di nuoto, con il maestro di judo e con quello di rugby (tre sport in due mesi, proprio così). Ci è capitato con gli altri genitori della nuova classe, con gli altri genitori del corso di judo e suppongo che a breve capiterà con gli altri genitori del corso di rugby. La piscina, per fortuna, è stata abbandonata, per cui dovremo dare una spiegazione in meno.

Mi sono accorta che definire in maniera chiara e semplice che cosa sia l’ADHD è davvero difficile. La definizione del disturbo, o per meglio dire della neuro-diversità, è “sindrome da deficit di attenzione e iperattività”. Chi ne è affetto ha difficoltà a mantenere l’attenzione ed è iperattivo, cioè non riesce a stare fermo. Tutto questo è riduttivo, perché in realtà le persone con ADHD possono concentrarsi e anche fermarsi, purché abbiano una valida ragione per farlo. Il problema è che la loro “ragione” non coincide con quella del resto della popolazione. Mentre noi senza ADHD, in diverse misure, sappiamo trarre “piacere” o “interesse” anche dal portare a termine compiti poco interessanti, riuscendo a comprendere che se faremo una certa cosa (anche noiosa) poi avremo un vantaggio, le persone con ADHD non sanno lavorare in maniera efficace per raggiungere un obiettivo che non abbia una gratificazione immediata.

Io non traggo piacere dal vestirmi ogni mattina e preferirei di gran lunga restare in pigiama tutto il giorno, tuttavia so che la vergogna di uscire in pigiama supererebbe il fastidio di vestirmi a casa, così riesco a pianificare le mie azioni in vista di uno scenario futuro che posso prevedere grazie ad un mix di esperienza, educazione e anche carattere (sono molto previdente). Una persona con ADHD non riesce a strutturare le sue azioni pensando a quello che ne conseguirà in futuro, per cui non vede il senso nel fare cose noiose o anche solo lente a realizzarsi.

Il presente sovrasta ogni altra dimensione temporale: quella del passato, ovvero l’esperienza, e quella del futuro, ovvero la capacità predittiva, che spesso è banale previdenza (prendo l’ombrello perché il cielo è nuvoloso).

Le funzioni esecutive sono quelle che consentono al cervello umano di organizzare pensieri e azioni per raggiungere un obiettivo. Nelle persone con ADHD non sono come dovrebbero.

C’è poi la questione dell’impulsività.

Quando ho davanti a me una faccia da schiaffi, avverto l’impulso di passare alle mani e di vendicarmi di quella persona che mi sta offendendo. Riesco tuttavia a bloccarmi, perché so che uno schiaffo mi farebbe stare peggio, so che potrei avere problemi con la legge, so che esistono modi più efficaci per ottenere qualcosa da qualcuno e ricordo che una volta da piccola venni rimproverata dai miei genitori per aver picchiato qualcuno. Riesco insomma a inibire un impulso perché so che soddisfare quell’impulso non mi farebbe stare così bene, anzi riaffiorano alla mia memoria le sensazioni negative provate quella volta che schiaffeggiai un altro bambino e venni rimproverata.

La persona con ADHD ha più difficoltà di me a frenare questo impulso, perché al contrario di me non riesce a mettere velocemente sul piatto della bilancia i suoi ricordi e le sue previsioni. Non potendo ricordare con tempismo le esperienze passate né prevedere in maniera razionale le conseguenze delle sue azioni, il prurito nelle sue mani è l’impulso che prevale, perché è l’unico che presumibilmente gli darà piacere. Sembra che per lui quella sia l’unica soluzione, perché il suo cervello non sa elaborare strategie alternative, e spesso quando ci riesce è ormai troppo tardi.

I medici spiegano questo comportamento come scarsa capacità di inibire e di autoregolare il comportamento. Per questo, le persone con ADHD sono estremamente impulsive e istintive, anche quando il loro istinto sembra davvero molto vicino ad un istinto animalesco.

Ma poi arriva il giorno in cui la persona con ADHD si imbatte in un argomento o in un’attività davvero troppo interessante. Probabilmente non sarà un’attività che richiederà lunghi tempi di preparazione o di analisi. Probabilmente sarà un’attività rapida, intuitiva, vulcanica, oppure si tratterà di un argomento d’impatto, esplosivo, dirompente, ricco di colpi di scena. In ogni caso, sarà qualcosa che catturerà la sua attenzione. E allora la persona con ADHD si chiuderà su quell’attività, forse anche per ore. Ma come? Non aveva difficoltà a concentrarsi? Non era incapace di soffermarsi su qualcosa?

Sì, ma in quel caso il suo deficit prenderà una strada diversa. Sarà perfettamente in grado di dedicarsi alla sua passione, ma dimenticherà di organizzare, pianificare ed eseguire tutto il resto. Se è uno studente, non farà i compiti. Se è un adulto, non si recherà al lavoro. Se è un bambino piccolo, non ascolterà nessun richiamo dei suoi genitori e magari dimenticherà di andare in bagno o di indossare le scarpe. Inoltre, spiegano i medici, le persone con ADHD non sanno effettuare il cosiddetto “shifting” da un argomento all’altro. O si concentrano su tutte le cose allo stesso modo e senza stabilire delle priorità, oppure si focalizzano su qualcosa e non ne sanno uscire senza uno sforzo immenso. Tutti noi sappiamo chiacchierare con un amico e ignorare in modo più o meno consapevole il rumore di fondo. Per la persona con ADHD, non esiste rumore di fondo, tutto ha la stessa priorità, per cui più che di deficit di attenzione si dovrebbe parlare di eccesso di attenzione. Ma non è un vantaggio, perché a vivere in questo modo c’è da impazzire: come faccio a restare sereno se il film che sto guardando ha la stessa importanza del clacson che mi arriva da una distanza di 50 metri? E se poi accade che riesco finalmente a concentrarmi su qualcosa e dimentico il resto, come reagisco nel momento in cui devo smettere perché qualcuno mi ha chiamato o magari perché si presenta un imprevisto?

Ecco, appunto, l’imprevisto, un altro grande tema.

La capacità di pianificare e organizzare riguarda anche quella di modificare un programma. Chi ha una visione strategica riesce ad adattarsi ai cambiamenti pur di raggiungere il suo obiettivo. Se invece l’obiettivo è sempre collocato nel presente, nel qui e ora, difficilmente si riuscirà a piegare il proprio comportamento in vista di quel che potrà accadere in futuro. Ecco che subentra una fortissima rigidità mentale, che rende le persone con ADHD molto limitate quando si tratta di affrontare l’imprevisto. Eppure immaginiamo gli iperattivi come persone sempre in corsa sulle montagne russe della vita, avventurieri alla ricerca costante dell’ebbrezza. No, non lo sono. Se per la maggior parte delle persone è piuttosto semplice e automatico cercare le chiavi di casa, infilarle in borsa e poi uscire, per una persona con ADHD lo sforzo mentale è molto più grande. Immaginate perciò la frustrazione quando non trovano le chiavi dove dovrebbero essere, oppure quando sono finalmente riusciti a uscire di casa e scoprono che il loro ristorante preferito è chiuso e perciò dovranno fare la spesa, ovvero dovranno organizzarsi per fare la spesa. Il loro è un pensiero rigido, il che – attenzione – non li rende affatto degli automi efficienti e volitivi (in stile impiegato modello giapponese), anzi. A causa della loro incapacità di adattare con flessibilità le azioni (o i sentimenti) alle circostanze impreviste della vita di tutti i giorni, si chiudono in stati d’animo negativi e spesso smettono di imparare dall’esperienza. Così i loro problemi si ingigantiscono sempre di più.

Ecco, forse questa è la chiave interpretativa che io, nel mio piccolo, ho trovato per arrivare finalmente a spiegare come mai mio figlio, bambino con ADHD, riesca con estrema facilità a memorizzare quantità enormi di dati su argomenti di suo interesse o possa passare ore a guardare la televisione come in trance, ma non riesca ancora a disegnare o a vestirsi da solo. Questo è lo schema che ho creato per capire la sua rabbia, e finalmente digerirla. Questo è il paradigma che adesso governa la nostra vita, in cui tutto deve essere pianificato, spiegato, adattato affinché la quotidianità non vada a rotoli come tantissime volte ci è successo.

Ma io ho impiegato 5 anni per capirci finalmente qualcosa, e ancora mi sento molto incompleta, per cui vorrei tanto sapere come trasmettere questa complessità, questa ricchezza, anche alle altre persone. A volte mi arrendo, lo ammetto, e mi riduco a dire che è iperattivo e ha bisogno di sfogarsi. Ma so che sto tradendo lui e la sua essenza, so che sto riducendo a una frase molto superficiale tutta la sua unicità.

Ho capito perciò che parte del mio impegno è volto a trovare parole più semplici per dire chi è mio figlio. Non ci sono ancora riuscita, ma la vita è complessa, lui è magnificamente complesso, e io ho bisogno ancora di altro tempo. So che le cose diventano semplici solo quando le si è capite perfettamente, perciò mi dico che forse è perché non è ancora arrivato il momento, devo ancora camminare su questa strada alla ricerca di un modo comprensibile per definirla. Forse il giorno in cui saprò dare un nome al mio cammino e saprò dirlo anche agli altri, mi sentirò anche meno sola di adesso. Per ora, invece, cammino.

Quella volta che

Quella volta che hai dato un calcio al collo dell’utero e hai rotto le acque.

Quella volta che hai aperto la finestra e hai lanciato una bottiglia di vetro in giardino.

Quella volta che hai divelto dal muro un battiscopa di legno perché avevi perso una partita.

Quella volta che hai preso un mestolo dal cassetto e l’hai sbattuto sulla porta a vetri di nonna, creando una lunga crepa. Avevi appena un anno.

Quella volta che hai lanciato a terra una tazza di latte, e poi io ho pulito, ti ho versato altro latte perché per me era importante che tu imparassi a fare colazione, e tu l’hai lanciato di nuovo.

Quella volta che ti ho portato al cinema e all’uscita la stanchezza ha preso il sopravvento, sei come impazzito e mi hai urlato contro “stronza” (l’unica parolaccia che hai imparato all’asilo) dall’uscita fino alla macchina.

Tutte le volte che mi hai urlato “ti odio” “stupida” “scema” “ti ammazzo” “ti prendo a pugni” “ti spacco gli occhiali” “ti taglio i vestiti” “ti incendio”. A me, pacifica e pacifista, che nella vita non ho neanche mai tirato i capelli a mia sorella.

Tutte le volte che hai rovesciato sul tavolo bottiglie d’acqua, bicchieri di succo, vasetti di yogurt, di omogeneizzato, piatti di minestra, di carne, di pesce.

Tutte le volte che hai fulminato i faretti dell’ingresso per l’atto compulsivo di accendere e spegnere la luce.

La volta che hai preso le mie matite del trucco e hai scritto sul muro.

Tutte le volte che ti sei chiuso in bagno a svuotare flaconi di bagnoschiuma.

Quella volta che, a casa di amici, ti sei chiuso in bagno a spruzzare il deodorante e alla fine quasi ti veniva un enfisema.

Quella volta che, a casa di amici, hai rotto una libreria.

Quella volta che, a casa nostra, hai colpito e rotto lo schermo della televisione.

Quella volta che hai rotto il computer di nonno con una botta secca sulla tastiera. Il tecnico dell’assistenza non riuscì più a ripararlo.

La volta che sei scappato di casa e ti abbiamo ritrovato al quarto piano. È da allora che chiudiamo sempre a chiave la porta blindata.

Tutte le volte che abbiamo cucinato insieme e ho dimenticato di darti un solo ingrediente alla volta e hai rovesciato la farina, oppure lo zucchero, oppure le uova, oppure la granella per i biscotti, oppure l’acqua, oppure l’olio.

Tutte le volte che mi chiedi “cosa è questo” e che ne rovesci il contenuto prima che io abbia il tempo di risponderti.

Quella volta che ti sei aggrappato alla mia catenina e me l’hai strappata dal collo. Avevi 7 mesi.

Ma anche

Quella volta che mi hai visto dopo il parrucchiere e hai finto di svenire perché hai detto che ero troppo bella.

Quella volta che hai aperto il tuo astuccio e hai dato un pastello a ogni compagno di classe che non ne aveva.

Quella volta che abbiamo letto insieme un libro sulle parolacce e hai nascosto la testa sotto il cuscino e hai iniziato a piangere, dicendo che non avevi il coraggio di continuare a leggere.

Tutte le volte che prendi la foto di nonna e le dici che ti manca, poi la chiami e le chiedi se ha sentito la tua voce a distanza.

Quella volta che hai bussato al finestrino di una macchina in doppia fila e hai detto ad una signora sconosciuta che non si parla al telefono mentre si guida. Io poi ti ho fatto notare che in realtà era ferma, perciò sei tornato indietro e le hai detto: “Scusi se l’ho interrotta”.

Tutte le volte che ringrazi quando qualcuno ti cede il passo.

Quella volta che sei entrato in ospedale per conoscere tuo fratello appena nato e gli hai detto con l’emozione che ti portava via la voce “Ciao fratellino, vedrai che con me ti divertirai tantissimo”.

Tutte le volte che ti alzi dal letto, vieni nel nostro letto e mi stringi perché hai paura, e dopo due minuti hai caldo, e poi torni e mi abbracci ancora.

Quella volta che hai dato un calcio al collo dell’utero e hai rotto le acque, perché non vedevi l’ora di venire al mondo.

Il bambino che voleva evadere dall’incubatrice

Come ho raccontato qui, Alessandro è nato prematuro. Al momento non sappiamo se sia davvero iperattivo (nel senso clinico del termine), quel che è certo è che si è sempre trattato di un bambino con una vivacità sopra le righe. O forse “vivacità” non è nemmeno il termine giusto, perché se è vero che lui ha davvero energia da vendere, ho conosciuto bambini ancora più esuberanti. Ciò che vedo in lui di eccezionale è l’intraprendenza con cui pianifica la fuga dagli steccati che gli vengono costruiti intorno.

Per uscire di metafora: è un ribelle.

Si ribella alle regole, all’autorità precostituita, ai ruoli, a qualsiasi cosa gli sembri creata solo per limitare le sue mosse, a meno che non capisca il senso della limitazione. Questo significa che Alessandro accetta i “no” solo se ne capisce il senso. Me lo disse anche l’educatrice del suo nido: “se gli dici di no, per lui è come se non parlassi. Bisogna invece dirgli perché è no, e se lui è in grado di capirlo, di solito smette.”

Che fatica, per noi, spiegare tutti i nostri no. Spiegare che la presa delle corrente non si tocca perché dentro c’è l’elettricità.

E che cos’è l’elettricità? È una cosa che accende le luci ma che ti può anche fare male. Perché fa male? Se non me lo spieghi bene, provo da solo a toccare così lo scopro. No, fermo, fa male perché è una scarica che ti attraversa. Ma allora fa solo il solletico? Provo subito! No, fermo, fa male perché è come uno schiaffo potentissimo che ti può anche far sbattere a terra…

Così, per ogni cosa, perché un “no” da solo, magari detto con voce dura, durissima, e sguardo di pietra, non ha mai funzionato, anzi ha sempre spinto Alessandro a fare proprio la cosa proibita. Di sicuro, questo bambino non ha mai avuto paura di niente.

Persino in incubatrice, dove è stato messo subito dopo la nascita, era l’unico neonato che si proiettava all’esterno infilando le braccia e le gambe negli oblò. Dovete immaginare questi prematuri come dei piccolissimi cuccioli con scarsissima capacità di movimento. Tutti tranne lui, che spalancava gli occhi guardandoti fisso e distendeva braccia e gambe per cercare la sua via di fuga. Le infermiere non ci potevano credere, ma succedeva davvero!

Ha sempre avuto una precocità impressionante nel movimento. Ha imparato a girarsi sulla pancia a meno di 3 mesi, ha gattonato speditamente a 6, ha fatto i primi passi a 10 e abbiamo fatto la prima lunga passeggiata senza passeggino a 12 mesi e 1 settimana.

Dargli le regole è stato un compito difficile, ma non impossibile. Certo, a 1 anno era impossibile, ma già a 2 era perfettamente in grado di ascoltare le nostre spiegazioni e, quindi, di assimilare le regole.

Da parte nostra, è stato importante capire che un frettoloso “No!” non ci portava a nulla, se non a frustrazione e senso di impotenza. Per quanto fossimo decisi, risoluti o arrabbiati, non bastava negare una cosa affinché l’avessimo vinta noi. Non bastava nemmeno la classica sculacciata, ed era inutile la punizione. Quante volte abbiamo annullato impegni, buttato giocattoli nella spazzatura o atteso per ore che la crisi isterica sfumasse da sola: è stato sempre tutto inutile. Alla fine diventava un braccio di ferro da cui uscivamo tutti sconfitti.

Era ciò che volevamo?

No, quello che volevamo era trovare un modo per educare nostro figlio, e il muro contro muro non ci stava portando da nessuna parte. So cosa state pensando: ma non è che forse siete solo dei genitori mollaccioni? No, credetemi, ho avuto giornate, settimane, interi mesi di muro contro muro, in cui ho ostinatamente tenuto il punto per una questione di principio, ma non mi hanno mai portato a niente.

Gli unici “no” che ascolta sono quelli che comprende. Questa è stata la chiave: una volta capito, abbiamo iniziato a gestire meglio anche le situazioni più critiche.

Perciò basta muro contro muro. Benvenuta dialettica. Benvenuti compromessi.

Ciò non significa che adesso rispetti sempre le regole. In alcuni momenti prevale l’istinto ribelle, o magari è solo stanco e non riesce proprio a obbedire. Con alcune persone, poi, non c’è verso di farlo stare buono. L’ambiente ostile che ha trovato alla scuola dell’infanzia (di cui parlerò in un altro post) lo ha portato ad esempio a non riconoscere l’autorità delle maestre.

Il problema è che lui l’autorità non la riconosce solo perché tale. Per lui contano di più autorevolezza ed empatia, e chi non capisce questa cosa non riesce a fare breccia. Voi direte: beh, lasciatelo cuocere nel suo brodo, prima o poi capirà chi comanda! Sì, ma il problema è che, dopo aver visto per mesi che lasciarlo cuocere non serviva a nulla se non a rovinare il clima in famiglia, ho voluto trovare una soluzione differente.

E questa soluzione oggi funziona, oggi riesco a gestire Alessandro, a volte anche a prevenire le sue mosse.

È un continuo patteggiamento, lo è sempre stato. Per strada non ha mai voluto dare la mano ad un adulto, così il compromesso è che la da solo se non si trova su un marciapiede. A tavola ha smesso di sopportare il seggiolone ben prima dei due anni, perciò gli abbiamo comprato una sedia da cui può scendere e salire in autonomia. E ne avrei di esempi, potrei continuare per ore.

Il succo del discorso è che un bambino ribelle non lo devi necessariamente domare, lo puoi anche conquistare. Responsabilizzare. Capire. Forse continuerà a farti impazzire, ma ci sarà il giorno in cui si avvicinerà al passeggino del fratellino e gli tirerà su il tettuccio per proteggerlo da sole, e allora capirai che il percorso è difficile, tanto impegnativo, ma forse ti sta restituendo un bambino perfettamente consapevole delle sue azioni, per certi versi persino maturo.

Ne abbiamo fatta di strada da quelle prime fughe dall’incubatrice, chissà ancora quanta ne dovremo fare, ma sono sicura che pian piano troveremo il modo di insegnare ad Alessandro, così come a suo fratello, che ci sono alcuni limiti che non devono essere superati. Per il resto spero di riuscire a rispettare la sua indole ribelle, perché fa parte di lui e va amata anche quando rende tutto più complicato. Il mio piccolo, adorabile, rivoluzionario.

Andavi di corsa pure quando eri solo un feto

Questa è la storia di come è nato Alessandro. Un feto può avere un suo carattere? Anche un feto può essere iperattivo? Non ho le risposte scientifiche, ma dalla mia esperienza sembrerebbe quasi di sì.

Quando dissi alla ginecologa che il test di gravidanza era positivo e io sentivo dei dolori al basso ventre, lei mi ascoltò e disse solo: “Aspetta un’altra settimana e ripeti il test. All’inizio non è niente, sono solo cellule”.

Ma una settimana dopo le cellule erano ancora lì, e c’erano anche due mesi dopo, quando la dottoressa scoprì che la camera gestazionale era leggermente scollata e mi disse di ripetere il controllo del battito cardiaco. Il cuore batteva ancora, e batteva anche altri tre mesi dopo, quando il mio collo dell’utero iniziò ad accorciarsi come a volersi liberare del suo ospite. Per precauzione, forse per non affezionarci troppo, non demmo mai al bambino che cresceva un nomignolo affettuoso, né fummo in grado di decidere prima della nascita come lo avremmo chiamato. Per noi restò sempre e solo “il feto”. Durante la gravidanza, più di un ginecologo mi consigliò di restare a riposo, guidare il meno possibile, evitare i pesi. Non era affatto detto che riuscissimo a farlo nascere davvero sano e salvo, ma lui era sempre lì, così testardo e ostinato, persino alla settimana ventisei, quando alcune strane contrazioni mi spinsero per precauzione al pronto soccorso, dove chiesero il ricovero a causa del rischio tangibile di parto prematuro. E alla fine, mi rispedirono a casa e fui obbligata a restare immobile per 6 settimane, forse le più lunghe della mia vita, perché il mio utero non riusciva proprio più a trattenere il bambino, che scalpitava per venire fuori- come infatti avrebbe fatto sempre, anche dopo la nascita.

I suoi colpi esplosivi hanno deformato il mio ventre per mesi. Durante il ricovero in patologia ostetrica, una dottoressa mi disse che per tutta l’ecografia quel bambino se ne era stato in piedi, dritto e impettito, proprio sul collo dell’utero che stava cedendo sotto i suoi colpi.

“Sta in piedi e saltella”.

Chiesi se fosse normale e lei rise. “Alcuni lo fanno, certo così non aiuta visto che la tua situazione è già precaria”.

Forse per quei colpi o forse per l’infezione batterica che mi portavo dietro da mesi senza saperlo, il collo dell’utero ha iniziato a diventare sempre più corto, più corto, più corto. 18 millimetri, 15, 11, alla fine solo 5.

Quanto conta un singolo millimetro nella lotta contro un parto pretermine.

Allo scadere della trentatreesima settimana, Alessandro è venuto al mondo, prematuro.

Era domenica, il primo pranzo da seduta dopo 6 settimane inchiodata al letto. Ero immensamente felice, quasi giunta com’ero al guado delle 36 settimane, quando il corpo del bambino sarebbe stato perfettamente formato, o almeno abbastanza da nascere senza nessun problema.

Quanto conta una singola settimana nella lotta contro un parto pretermine.

Mia madre e il mio compagno si erano presi cura di me nei lentissimi giorni passati senza possibilità di muovermi, ma quella domenica avevamo stabilito una breve tregua. Mi sono alzata dal mio letto-sudario e mi sono seduta a tavola con un lieve giramento di testa: troppo tempo passato da ferma in posizione orizzontale. Il lusso di un pranzo a tavola, la domenica.

Alla fine del pasto, il mio addome ha assunto una forma strana, poi ho sentito un colpo più forte del solito e una sensazione nuova tra le gambe. Mi si erano rotte le acque.

La nascita di Alessandro è stata veloce. Il nome lo abbiamo deciso durante il parto.

“Alessandro, ok?”

“Alessandro, va bene. Mi piace”.

Due ore di travaglio, quindici minuti in sala parto ed è saltato fuori, con una mano sul cordone e un’altra rabbiosamente aggrappata al camice dell’ostetrica. Rugoso, paonazzo, si è messo a strillare, minuto e incompleto come ancora era, un feto urlante con il bisogno di respirare e dei polmoni ancora immaturi. Il tempo di fare il primo screening e lo hanno portato in terapia intensiva. L’avevo toccato solo per un istante, l’avrei rivisto 6 ore dopo.

Nessuno di noi era preparato a quello che sarebbe accaduto di lì a poco. Non eravamo pronti ad essere genitori, non potevamo essere pronti alla terapia intensiva neonatale.

Superate le prime ore dopo il parto, ho iniziato a capire che qualcosa non tornava. Nella mia pancia non c’era più niente, ma nemmeno accanto a me c’era qualcosa, e tutto quello che avevo vissuto negli ultimi mesi, il concepimento, la gravidanza, il ricovero e infine il travaglio, non sembrava più reale. Ma era successo tutto davvero o avevo solo vissuto un sogno?

Nella stanza dove mi portarono subito dopo la nascita c’era un’altra puerpera. La prima notte il suo bambino pianse ininterrottamente e lei lo allattò con evidente fastidio. Lo tenne al seno senza interruzione, ogni volta che aveva provato a metterlo nella culla di plastica trasparente lui aveva ricominciato a strillare pretendendo la compagnia di sua madre, ormai stremata. Io invece potevo riposare tranquilla, ero sola. Con me non fecero restare neanche il mio compagno, che si mise a vagare nei dintorni dell’ospedale fino all’orario di visita. Riuscii a fare la pipì e mi dissero che era un buon segno, mi rimisi in piedi poco dopo il parto, ero dolorante ma stavo bene. Di fronte a me, l’altra donna con il bambino al seno. E io senza nulla. Avevo partorito davvero? Dove si trovava, allora?

Mi presento

Ciao, sono Laura e sono la mamma di Alessandro, un bambino ADHD, un bambino fenomenale che sorprende tutti con la sua intelligenza, che non sa stare fermo e che va a sbattere ovunque perché ha il bisogno di scoprire il mondo osservandolo da fuori e soprattutto smontandolo per vedere com’è fatto dentro. Lui è il bambino che rifiuta ogni coccola e che ama apparire spavaldo, ma che ha dentro un’anima così profonda e ricettiva che proprio lui, molto più di altri bambini, ha bisogno di amore, comprensione e protezione. Così forte e insieme così fragile, mi dico che crescerà e diventerà l’uomo che sarà anche grazie a questo suo percorso difficile.

E infine, più di ogni altra cosa, Alessandro è colui che ha capovolto la prospettiva della mia vita e che mi sta insegnando a lottare, ad arrabbiarmi, a prendere a spallate la vita e anche ad amare il diverso da me. Anche quando sono spaventata e mi sento sola, quando l’istinto a fuggire sembra prevalere, lui mi costringe a restare. Perché io sono la sua mamma e se lui è capitato proprio a me, significa che sono quella giusta per lui.

Con questo blog vorrei arrivare a tutti i genitori di bambini speciali che, come me, si sono sentiti isolati e abbandonati contro un mondo che non sembrava avere posto per loro e per i loro figli. Inoltre, vorrei che i genitori di bambini senza questi problemi riuscissero a capire un po’ di più com’è fatta la nostra quotidianità e che, astenendosi dal giudizio, provassero a mettersi nei nostri panni e a chiedersi in modo sincero: “io avrei saputo fare diversamente?”.

Spero di rompere quei muri, spero di trovare qui il mio rifugio sicuro, spero che scrivere mi aiuti a ritrovare la bussola quando non so più se la direzione è giusta. Perché di una cosa sono certa: se mamma e papà sono sereni e fiduciosi, anche Alessandro sta bene.