Sibling: essere il fratello di un ADHD (e Dop, e autistico, ma vabbè…)

Flavio ha 4 anni, è biondo, ha gli occhi azzurri, un buon carattere, è forzuto ed ha una bella tempra. Flavio si può definire in molti modi, ma una delle sue definizioni è che è un sibling.

I sibling sono i fratelli di disabili.

La disabilità di un membro della famiglia definisce anche gli altri membri della famiglia stessa?

Dispiace dire che è così. Sembra una prospettiva disabile-centrica, ma cavolo se è vero. Perché se vivi con una persona che ha un problema, vivi il suo problema. Se vivi con una persona che ha delle peculiarità, quelle peculiarità influenzano la tua vita, nel bene e nel male.

Mi costa fatica definire Flavio usando ancora una volta Alessandro, mi sembra di sottovalutarlo, ma non è affatto così e del resto non posso fare altrimenti. Poi, intendiamoci bene, Flavio è miliardi di altre cose (4 anni, biondo, occhi azzurri, forte etc.) ma il fatto di crescere e confrontarsi con un fratello come il suo è uno degli elementi con cui fa i conti dalla nascita, quindi rientra nei criteri di definizione.

I rapporti tra fratelli sono sempre molto complicati. Il fratello è il pari con cui ti raffronti in famiglia, qualche volta è un alleato, altre volte un nemico. Comunque, resta uno specchio in cui vedi un percorso simile al tuo, con cui condividi le regole e la guida dei genitori. Ma è proprio quel “pari” che, nelle famiglie con un bambino disabile, secondo me viene a mancare. Perché, per quanto tu genitore cerchi di dosare le energie per entrambi e di far arrivare il tuo amore nella stessa misura, il bambino che ha bisogni più impellenti non è mai il sibling. Ci sarà sempre una terapia a cui portare l’altro, una riunione con la scuola, un appuntamento alla Asl, una pratica dell’INPS che sottrarrà tempo al figlio senza disabilità. E al figlio senza disabilità si chiederà sempre di fare quel piccolo sforzo in più per capire e tollerare il fratello.

Quindi, di quale parità parliamo? La situazione è al contrario impari, a me a tratti sembra addirittura ingiusta (ma forse qui è il senso di colpa a parlare al posto mio) e quindi penso che il rapporto tra un sibling e suo fratello sia meno alla pari rispetto al classico rapporto tra fratelli. Tuttavia, dicono che per il sibling crescere con un fratello “diverso” sia anche una grande risorsa, che se il sibling viene coinvolto in modo positivo nella gestione familiare, ne può uscire più maturo, sensibile e consapevole.

Flavio ha solo 4 anni e ancora non so che piega prenderà la sua personalità nei prossimi anni. Non so se ne uscirà responsabilizzato e sereno oppure solo ribelle e arrabbiato. Cercherò di dargli tutti gli strumenti di cui avrà bisogno, così come oggi cerco di non fargli mancare affetto e attenzioni, ma mi rendo conto che per lui non deve essere semplice convivere con un fratello che sì, è divertente, brillante e simpatico, ma che al tempo stesso quando è arrabbiato (e ci sono periodi in cui lo è spesso) urla, offende e lancia le sedie. Penserà che quel comportamento sia normale? Questo è il motivo per cui, dopo una crisi di Alessandro, solitamente anche Flavio si mette a urlare, sebbene a lui passi subito?

Dicono anche che, per un sibling, non esiste la percezione di anormalità nel rapporto con il fratello disabile, perché lo ha visto nascere o è nato dopo di lui, per cui considera normale avere un fratello con quelle caratteristiche. Certo, non lo metto in dubbio, ma non so quanto sia piacevole.

Purtroppo il rapporto tra loro due non è dei migliori. Non giocano mai, se non in rarissime circostanze e situazioni particolari, si stuzzicano di continuo e ogni scambio verbale si trasforma immediatamente in scontro. “Ma questo è normale tra fratelli”, direte voi. Può darsi, ma non credo che sia normale che avvenga il 100% delle volte e del tempo che passano insieme. Il fatto è che, in presenza di un disturbo del comportamento, la qualità delle relazioni si abbassa moltissimo. Non è certo colpa di chi ha il disturbo, ma non posso biasimare chi non ha nessun disturbo e si trova alle prese con la persona che invece ce l’ha, e che magari risulta aggressiva, scortese, fastidiosa.

Mettiamoci anche che Flavio ha sempre e solo 4 anni, per cui può capire fino a un certo punto. Per lui, stuzzicare il fratello per avere la sua attenzione, fosse anche un bel calcio nel didietro, è del tutto normale, oltre che appropriato alla sua età. Ma dall’altra parte c’è Alessandro che non tollera i bambini più piccoli di lui, e che in aggiunta nutre verso il fratello una grandissima gelosia. Non posso biasimare neanche lui, che per quanto cresca circondato di attenzioni e facilitazioni, dovrà pur provare un pizzico d’invidia per quel bel fratello biondo-occhi azzurri dietro cui tutti si sciolgono e a cui le relazioni amicali vengono così facili, al contrario di se stesso che invece fa un’enorme fatica a gestire emozioni, affetti e tutto.

Insomma, questo mix fratello normodotato/fratello atipico/immaturità dei 4 anni/ maturità ancora parziale dei 7 anni/carattere forte di Alessandro/carattere altrettanto forte di Flavio diventa spesso esplosivo. Molto spesso. Così spesso che anche la psicologa di Alessandro, dopo averli avuti qualche volta insieme nell’ora di terapia, mi ha detto che vuole lavorare proprio sul loro rapporto.

E io lì ho tirato un sospiro di sollievo, perché sono 4 anni che penso di non potercela fare da sola, che nel loro legame così avviluppato e poco funzionale io non riesco a metterci le mani, non so da dove cominciare. Allora va bene chiedere aiuto, forse qualcuno dall’esterno potrà guidare questi due fratelli verso la loro dimensione.

Perché poi si vogliono bene, di questo esistono tante piccole prove, ma sono come quelle coppie che non fanno che litigare e che alla fine, se non vogliono divorziare, devono affidarsi al terapista.

Flavio ha solo 4 anni, è biondo, ha gli occhi azzurri. Ha una stazza importante, inoltre ha una personalità accesa. Orgoglioso, fumantino, ma anche socievole e collaborativo, preciso e acuto. Inoltre Flavio è un sibling, vive con un fratello che non sa regolare le emozioni e che non sa ancora interagire al meglio con il mondo.

Quando Alessandro ha una crisi, a volte Flavio ha paura. Altre volte si isola e gioca da solo. Qualche volta mi guarda e si limita ad alzare le spalle. Cerco di spiegargli sempre che non deve avere paura, perché Alessandro abbaia ma non morde. Poi, magari tra qualche anno, spero che voglia ascoltare tutta la storia e che capisca che di suo fratello c’è da essere anche fieri, per tutto l’impegno che ci ha messo. E spero che mi crederà quando gli dirò che anche di lui c’è da esser fieri, perché ha vissuto con noi una grande avventura, una corsa sfrenata nella vita senza possibilità di riprendere fiato, mai. Spero che sappia capire il valore della diversità, lui che una diversità ce l’ha avuta sotto gli occhi da quando è venuto al mondo.

Spero che questo piccolo “peso” che l’universo gli ha assegnato si faccia in lui risorsa, quando sarà in grado di capire quanto riesce a sostenere. Spero più di ogni altra cosa che lui e il fratello riescano a trovare il modo di comunicare e stare bene insieme, almeno ogni tanto, anzi sempre più spesso. Il mio desiderio è questo.

Flavio ha solo 4 anni, ma ha già tanto da raccontare, e questo lo deve anche al suo essere nato sibling.

Paura, fallimento, impotenza, speranza

Alessandro ha paura delle punture e stamattina aveva le analisi del sangue. Abbiamo cercato di prepararlo al meglio nelle ultime settimane ma non è servito, Alessandro oggi non è riuscito ad affrontare la sua paura. Lui stesso si era preparato una “strategia” (così la chiamava) per la missione analisi, diceva che avrebbe guardato il tablet e offerto il braccio ai dottori e sarebbe riuscito ad affrontare la sua paura, ma non è andata così.

È andata che è rimasto tranquillo fino all’ingresso nella stanza dei prelievi, dove alla fine si è bloccato per iniziare a piangere, poi a urlare, poi a scappare, poi a parlare troppo, poi a sudare, e tutte queste cose tante volte in tanti ordini differenti.

Siamo andati a fare una lunga passeggiata e abbiamo fatto un salto al mercato lì vicino, dove al banco di fiducia ci ha salutati e incoraggiati l’affezionato Gabriele. Ma non è servito a nulla. Siamo quindi andati dal fioraio, a cui Alessandro ha raccontato di non essere lì perché ama o fiori, ma per calmarsi e poter fare il prelievo. Ma non è servito a nulla. Abbiamo persino comprato i cornetti ai dottori per stemperare la tensione e fare amicizia, ma nulla.

Una volta tornati nella sala prelievi, è ricominciato tutto da capo.

Non esagero, una ventina di persone ha provato con metodi differenti a convincerlo o rassicurarlo. Una vecchietta l’ha chiamato “bello di nonna” afferrandolo prima che lui si catapultasse in fuga per le scale. Una signora si è inginocchiata e l’ha guardato negli occhi dicendogli che anche lei aveva paura ma che sarebbero entrati insieme tenendosi per mano, se lui avesse voluto. Più donne gli hanno offerto la compagnia dei propri figli in sala prelievi, i bambini erano tutti d’accordo. Molte vecchiette e vecchietti l’hanno incoraggiato con “non è niente”, “ma tu sei coraggioso” e tante altre frasi che potete certamente immaginare.

Dopo due ore alla ASL, ho giocato la carta nonna e ho chiesto a mamma di raggiungerci. Si è catapultata: in quindici minuti, col fiatone, era da noi, la guardia giurata dietro di lei per vedere chi fosse quel ragazzino le cui urla si sentivano fino alla guardiola al piano terra.

I dottori e gli infermieri sono passati dall’insofferenza iniziale ad una sollecitudine maggiore. Poi si sono di nuovo stancati di noi e mi hanno detto che avrei dovuto portare il bambino in un ospedale pediatrico. Poi hanno iniziato di nuovo a provarci anche loro, con tutti i metodi possibili, ma non c’è stato verso. Quando mi sono arresa e ho rimesso la giacca ad Alessandro, anche per questi medici era finito il turno e si sono fermati a parlare con me. Mi hanno detto che avrei potuto provare al Bambino Gesù, ma lì – ho replicato io – non c’è possibilità di prenotare e per Alessandro le attese sono, in alcuni casi, impossibili da sostenere. In che senso, mi hanno chiesto. Allora ho spiegato dell’ADHD e del resto, e loro forse a quel punto hanno capito davvero che cosa stessimo vivendo io e Ale. Penso che fino a quel momento non ci avessero davvero “visti”. Si sono fermati tutti a ragionare e mi hanno proposto di organizzare un prelievo in un’altra stanza, magari con la presenza della neuropsichiatra a supporto di tutta l’operazione. Non so se faremo così, in settimana tenterò prima la strada del Bambino Gesù, poi vedremo.

Nel frattempo, cerco di dare un senso a questa giornata.

Il primo sentimento che penso di aver provato è un fortissimo senso di impotenza, che mi ha ricordato i tempi in cui “subivo” le crisi di Alessandro senza riuscire a guidarle, né a prevenirle. L’unica differenza è che questa volta non provavo nessuna vergogna, sebbene gli occhi di tutti fossero puntati su di me. La mancanza di vergogna mi ha aiutato a mantenere i nervi saldi per due ore e mezzo e forse ha aiutato Alessandro a contenere la sua paura, evitando che trascendesse in vera crisi di rabbia.

Ma a fargli fare il prelievo non ci sono riuscita comunque, perciò ora provo un forte senso di fallimento. Ero davvero convinta che saremmo riusciti a portare a casa il risultato. Soprattutto lo speravo, perché Alessandro ha passato tutta la settimana ricadendo in comportamenti bizzarri, in particolare a scuola. Martedì scorso ha trascorso la mattinata sdraiato a terra tra i banchi, per dirne una. E oggi, dopo questa esperienza, è ricomparso il tic che aveva fatto la sua prima apparizione proprio in un’occasione simile e che ultimamente sembrava essere quasi andato via.

Non essendo riuscita a offrire a mio figlio delle strategie funzionali, mi è venuto da ripensare alle parole della sua psicologa: “I comportamenti di Alessandro cambieranno nel tempo e vi porranno davanti sempre nuove sfide, anche quando avrete la sensazione di poter ormai fronteggiare tutto.”

E così è stato, è arrivato il comportamento imprevisto a cui non ho saputo dare una risposta.

Ma.

Per fortuna c’è anche un “ma” in questa storia.

Sebbene Ale si sia paralizzato davanti alla sua fobia, non ha avuto una vera e propria crisi di rabbia, di quelle con schiuma alla bocca e parolacce urlate ai quattro venti. Anzi, devo dire che la sua paura l’ha manifestata in modo molto forte ma anche molto preciso, senza farsi inquinare da altri sentimenti e soprattutto senza mai perdere la lucidità. A parte brevi momenti in cui non riusciva più a guardare negli occhi nessuno, è rimasto sempre presente a se stesso. Quindi, tutto sommato, lo considero un passo avanti rispetto a quelle crisi disumane, sfibranti, che solitamente lo percuotono come bastonate lasciandolo intontito anche per giorni.

Allora mi dico che forse l’ultimo sentimento che provo oggi è la speranza, perché vedo un suo percorso e anche un mio percorso. Non è affatto facile, si compone di tanti insuccessi e dubbi e a volte sembra davvero di camminare nella melma di un pantano, ma qualche passo ecco che lo abbiamo fatto anche noi.

E stasera avevo voglia di fissarlo qui, perché penso che questa giornata orrenda si meriti di finire così, con una vomitata sulla tastiera che mi lasci libera stanotte di sognare giorni più semplici.

La ginestra sta sempre là

Oggi sono passata davanti alla vecchia scuola di Alessandro e ho visto la ginestra accanto al cancello d’ingresso. I suoi dritti rami spettinati si affacciavano dalla ringhiera sgretolata come dita di un carcerato affamato di sole. Era bellissima con la sua fioritura giallo intenso e le piccole foglie carnose, rade e brillanti.

L’anno scorso, nei momenti peggiori, vederla era una consolazione. Era una delle poche cose belle di quella scuola e cercavo di pensare a lei, soltanto a lei, ogni volta che svoltavo l’angolo per raggiungere l’edificio quando le maestre mi chiedevano di andare a prendere Alessandro con urgenza.

Le ero così affezionata che per tutta la primavera, e poi in estate, ho pensato di piantare una ginestra anche nel nostro giardino. Volevo che qualcosa della scuola, qualcosa di bello, restasse anche a me, e che mi aiutasse a dimenticare – o forse a perdonare – tutto ciò che che era stato fatto a mio figlio.

Per esempio le urla feroci contro di lui quando pensavano che nessuno li stesse ascoltando.

O quel chiamarlo “monello” davanti alla baby sitter.

O la mancanza di pietà davanti a un bambino che ogni giorno, per mesi, è stato lasciato nelle sue mutande sporche perché questo prevede il contratto di insegnanti e bidelli.

Oppure il mandarlo per punizione nelle altre classi, dove le maestre lo indicavano agli alunni come “il bambino cattivo”.

E il fatto che lui per gli altri bambini fosse ormai esattamente questo: il bambino cattivo, con cui tutti avevano paura di giocare. Tanto che all’uscita, alla mia domanda su come fosse andata a scuola, lui per mesi mi ha risposto sempre nello stesso modo: “A me bene, invece quello cattivo ha fatto le monellerie”. Avere un alter ego gli consentiva di confessarsi con me. Un alter ego a tre anni.

Però c’è anche il risvolto della medaglia: se le maestre non si fossero lamentate dal primo giorno, se fossero state più accomodanti, tolleranti e rassicuranti, non avremmo probabilmente mai iniziato così presto il percorso per la diagnosi dell’ADHD, che oggi ci consente di avere un vantaggio temporale non indifferente rispetto all’inizio delle scuole elementari, e che più di ogni altra cosa ci permette di vivere la quotidianità con consapevolezza e serenità.

Il fiore del deserto

Sono passati undici mesi dalla conclusione dello sciagurato anno scolastico 2018-2019. Alessandro ha cambiato scuola, ha una maestra di sostegno con cui ha iniziato un bel percorso, sappiamo che è un bambino con ADHD, da diverse settimane è a casa come tutti gli altri bambini italiani e prosegue con le sue terapie, seppur a distanza attraverso il computer.

L’anno scolastico 2018-2019 sembra lontano anni luce, ma oggi sono passata davanti a quella scuola e la ginestra era sempre nello stesso posto, il mio bellissimo fiore del deserto. Resistente a tutto, resistente come abbiamo saputo essere anche noi, sfavillante come quei fiori che sanno nascere nella miseria di una strada scalcagnata e di un cancello arrugginito.

Sta lì, continua a rigenerarsi anno dopo anno e so che se la passa bene, perché io e lei ce la intendiamo.

Si fa presto a dire #iorestoacasa

Oggi ho letto in un gruppo social di genitori di bambini ADHD che la Regione Veneto ha concesso alle persone con alcuni tipi di diagnosi psichiatriche di allontanarsi da casa entro il raggio dei 200 metri. Non ho ancora verificato la fonte e non conosco i dettagli, ma non mi sembra affatto una cosa priva di senso. La cattività tra le mura domestiche non fa bene a nessuno, ma è ancora più dannosa per chi è instabile, incline alla paranoia o alla depressione, così come per gli iperattivi. E per le loro famiglie, aggiungo io.

Infatti nel gruppo molti genitori ne parlavano come di una benedizione, perché in caso di crisi dei figli avevano la possibilità di farli uscire e di farli camminare per qualche metro, ristabilendo un equilibrio che altrimenti sarebbe stato assai difficile da ritrovare.

Come tutti, anche noi siamo in casa da tre settimane e mezzo. In queste lunghe giornate non mi sono annoiata, non ho dovuto cercare ispirazione guardando le dirette social dei vip, non ho potuto rinfrescare tutte le stanze. Chi sta lavorando da casa come me, oppure chi non sta lavorando ma si ritrova in casa con dei bambini lo sa benissimo: la noia è un lusso ormai dimenticato. Io però temevo moltissimo questa reclusione, avevo paura che rompesse il sottile guscio in cui mio figlio Alessandro aveva finalmente trovato un embrione di equilibrio.

Da un giorno all’altro, niente più scuola con la nuova insegnante di sostegno che aveva appena iniziato ad allacciare i fili di un legame di reciproca fiducia, niente più terapia due volte a settimana con una dottoressa che ormai è un punto di riferimento per lui e per noi, niente più nonna, una figura centrale per Alessandro, il suo rifugio sicuro.

Retorica familista

Forse adesso siamo già troppo stufi, ma all’inizio era tutto un fiorire di “approfittatene per stare con i vostri bambini” e “quanto è bello avere finalmente tempo per i figli”. Io non mi sono unita al trenino della retorica familista, perché per quanto ovviamente anche io fossi contenta di passare delle ore con i bimbi, la verità è che penso che la famiglia non basti.

Non basta a nessun bambino, e soprattutto non basta a un bambino che ha bisogno di aiuti speciali proprio per imparare a vivere fuori della sua famiglia. Senza rete non si sopravvive. Se la rete la devi costruire a fatica, e ti si strappa di continuo, e tu ogni volta la ricuci pungendoti le dita, la paura di restare ancora una volta senza ti può davvero far sentire come se ti stessi scontrando contro un muro.

Ma oltre a questo ho fatto un altro pensiero: perché dovrei essere finalmente felice di godermi i figli? Non me li sarei goduti fino a oggi? E dov’ero, allora?

No, mi dispiace, ma non ci casco. Sono quello che sono, e le scelte che ho fatto e che faccio non hanno sottratto niente ai miei cari, perché se è vero che sono per molte ore al giorno lontana da loro, penso di dare tutto ciò che posso, con una presenza emotiva che non si misura in giri di lancette. Io, oggi, penso davvero di non poter dare più di quel che do, per tutti i pensieri che ho fatto, per tutte le parole che ho detto, per tutti i bocconi amari che ho mandato giù e tutte le piccole vette che ho conquistato. E se anche ci fosse qualcosa in più da dare, non sarebbe alla mia portata, perciò è come se non esistesse.

Nota:

Potrei estendere il discorso a tutti gli altri filoni che ho visto diffondersi in questi giorni: “ho avuto finalmente il tempo di pensare”, “ho avuto finalmente il tempo di leggere”, “ho avuto finalmente il tempo di scoprire chi sono”. E quindi? Quando questo tempo non lo avrai più, cosa farai? Ti perderai di nuovo? No, essere presenti a se stessi è un dovere che non può essere legato alla quantità di tempo che hai a disposizione.

Se ti sei perso di vista, forse devi chiederti perché prima di gioire del fatto che qualcuno ti abbia finalmente incatenato di fronte a uno specchio.

E chiudo qui, altrimenti vado fuori tema e sembro pure cattiva.

Tante piccole vittorie

Il pensiero della quarantena in casa con mio figlio iperattivo e con il fratellino più piccolo mi atterriva, è vero, ma sta andando meglio di quanto credessi.

Abbiamo trovato un nostro modus vivendi e andiamo avanti nonostante le ripicche tra fratelli (di routine in tutte le famiglie) e alcuni episodi critici (di routine nella nostra famiglia). Ma le crisi sono sempre circoscritte, non durano più intere giornate come accadeva fino a tre o quattro mesi fa.

Un po’ siamo noi ad aver imparato a ignorare, a dare meno peso, a gestire, a levare di torno in meno di un minuto tutto ciò che potrebbe venir lanciato, a dire la frase giusta al momento giusto, a prevedere l’arrivo del ciclone e a sviare prima che sia tardi, a non chiedere mai troppo, a non volere troppo. E la sera, quando alla fine siamo solo io e il papà sul divano a contare i cocci della giornata, quante pacche sulle spalle ci diamo, per dirci che siamo stati bravi, per consolarci, per assolverci a vicenda di tutte le volte che invece abbiamo perso le staffe. Anche questo riuscirsi a ritrovare ogni sera lo abbiamo dovuto imparare, vincendo quell’impulso distruttivo che ti farebbe venir voglia di dare fuoco a tutto il mazzo di carte ogni volta che il castello crolla.

Ma il merito più grande va a lui, Alessandro, che sta lavorando tantissimo e che lo dimostra ogni giorno con tante piccole vittorie prima impensabili.

Una settimana fa, ad esempio, stava saltando sul letto in preda all’euforia, e sempre in preda all’euforia mi ha mollato un cazzotto dritto su una delle lenti dei miei occhiali. Sono passati 6 giorni e mi fa ancora male il naso, questo solo per dire quanto il colpo fosse forte e ben assestato. Colpa mia: so benissimo che lui, quando prova un’emozione troppo forte, si sfoga fisicamente e picchia, perciò avrei dovuto contenere l’euforia in qualche modo, oppure allontanare la mia faccia. In quel momento, però, mi sono arrabbiata tantissimo, scatenando di conseguenza la sua ira, che di solito aumenta in maniera esponenziale quando si sente in colpa e quando capisce di aver fatto qualcosa di inaccettabile, per giunta contro la sua stessa volontà.

Ma proprio quel giorno è accaduto qualcosa di bello. Io, passati i primi minuti, ho deciso di dirgli che andava tutto bene e che non ero arrabbiata perché avevo capito che non l’aveva fatto apposta (quanto mi è costato farlo, dirglielo e soprattutto convincermene!). Lui non ha dato in escandescenze, ha solo manifestato in modo forte la sua rabbia per una decina di minuti per poi – qui sta il miracolo – tornare su emozioni più contenute e gestibili.

E alla fine, ciliegina sulla torta, ha aperto con me l’argomento (ed è una cosa che non fa mai, di solito torna sul tema dopo qualche mese per spiegare finalmente la sua versione dei fatti): “Mamma, sono uno stupido, perché ti ho dato un cazzotto.” E lì giù a dirgli che non è uno stupido, ma che ha solo fatto una cosa che non si doveva fare. Pianti, qualche timido abbraccio, qualche resistente bacetto prima di tornare a dare pugni, questa volta ad un punching ball strategicamente fatto apparire in giardino.

Forse è una banalità, forse è il minimo che un genitore vorrebbe sentirsi dire dopo aver ricevuto un pugno in faccia, ma per me quelle parole sono state tutto ciò di cui avevo bisogno.

Sta iniziando a regolare il suo comportamento. Non sa ancora fermare quel pugno, forse imparerà, forse proprio non ci riuscirà mai. Ma riesce a fermare quello che viene dopo. Sono così fiera di lui.

Quindi come va a casa?

Ecco, chiarito che a me di stare a casa a fare torte di mele interessa meno di zero e che per me l’interesse primario è che Alessandro riceva le terapie che lo stanno aiutando a crescere, a casa si sta meno peggio di quanto credessi.

Ma questo non cambia di una virgola il mio pensiero: per quanto sia bello stare con mamma e papà, nessuno può fare a meno del contesto sociale, della sua rete. E non basta la didattica a distanza, non bastano i lavoretti, non basta il sorriso di chi ti ha messo al mondo, perché questi bimbi il mondo lo devono vivere e calpestare, ne hanno il diritto.

Non parliamo poi dei bambini che a casa non hanno proprio nessun sorriso, perché magari vivono in contesti violenti o chissà di che altro tipo. Ma a loro qualcuno avrà pensato?

E per quanto riguarda i bambini con bisogni speciali, la quarantena non può che essere una breve parentesi, perché le famiglie sono indispensabili, questo è vero, ma hanno bisogno di supporto, altrimenti il danno può diventare immenso. Io stessa mi chiedo: alla fine di questa fase, avremo fatto passi indietro rispetto al terreno così faticosamente conquistato? Dovremo ricominciare da zero?

Le preoccupazioni sono tante, perciò se qualcuno, in Veneto o altrove, si è posto il problema e ha deciso almeno di concedere 200 metri di libertà, non riesco a non vederlo come un gesto di grande sensibilità verso una realtà che spesso passa sotto traccia, invisibile e difficilissima da spiegare. 

Cronometro, mon amour

Tempo. La variabile tempo è sempre stata la più importante e difficile da gestire nel rapporto con mio figlio. Fin dalla nascita, quando voleva uscire prima, e poi infatti ci è riuscito. O come quando, ancora neonato, sbagliavo l’ora della pappa, e allora erano guai. Ma non guai normali, bensì guai che ci facevano fermare nel bel mezzo di una strada di montagna (true story), solo le mucche a farci compagnia, per preparare in fretta e furia qualcosa.

In fretta e furia. Ecco, se fosse per Alessandro, tutto sarebbe sempre in fretta e furia. Normale: è iperattivo.

Ma non sempre va bene. Tralasciamo i problemi in fila al supermercato (a proposito, ho scoperto che quando avrò la diagnosi della ASL avrò diritto alla fila prioritaria), o la difficoltà in quei tre minuti con il cappotto davanti alla porta aspettando di poter uscire (la nostra maniglia si è rotta in una di queste occasioni), o gli oggetti lanciati in macchina quando c’è traffico (stamattina sono stata colpita da una pallina).

Non va bene perché è indice di un ritmo che non funziona correttamente, un ritmo che, indipendentemente da quello che accade, o dall’umore, o dal contesto sociale in cui ci si trova, è sempre accelerato. Come avere una macchina senza freni. Ok, corri e arrivi prima, ma ti schianti o vai nel pallone.

Comunque ho capito che dettare il ritmo è uno dei miei compiti con Ale. Dare il ritmo, segnare il battito, tum tum tum, un due tre. È un grandissimo aiuto per lui. In questo compito, mi viene in soccorso il cronometro, che è diventato ormai una mia appendice.

Senza sapere bene perché lo facessi, lo utilizzavo anche quando aveva un anno e mezzo per aiutarlo a mettere a posto i giochi senza che si perdesse in altre attività. Gli davo un countdown e lui si attivava bene.

Oggi, grazie alla neuropsicomotricista, so che il metodo del cronometro con lui è molto efficace perché lo aiuta a concentrarsi sull’obiettivo senza andare in confusione. Ti dico cosa fare, ma ti dico anche in quanto tempo lo devi fare. E tu lo fai, rassicurato da un confine temporale che è stato contrattato, è chiaro, non può riservarti sorprese.

In più, ti dico anche a che ritmo farlo, quindi ti aiuto a rallentare se vedo che corri troppo, o ti riporto sull’attività se vedo che te ne vai per i fatti tuoi.

Perché è importante? La neuropsicomotricista mi ha spiegato che più si allena a concentrarsi e a tenere un tempo, più il suo cervello impara ad attivarsi nella maniera corretta (quindi senza crisi e senza lasciarsi iperstimolare da altro) sulle sue “consegne”. Oggi sono giochi. Domani saranno le lezioni a scuola, il lavoro, le responsabilità della vita di un adulto.

Perché tutto questo funzioni, è necessario che le sue “consegne” siano brevi, durino al massimo cinque minuti. Anche il rinforzo positivo, cioè in soldoni il premio, può essere scandito dal tempo, in modo che il bambino non si perda nella sua ricompensa, che di solito nel nostro caso è un cartone animato, e non entri in crisi quando è il momento di ricominciare a “lavorare”.

Da qualche mese a casa nostra è tutto un “Se dico ROSSO ti vai a lavare le mani, se dico BLU ti fermi, poi dico ROSSO e ricominci. Alla fine, vedi i cartoni per due minuti. Alexa, imposta un timer di due minuti…”

Nessuno ti verrà a salvare

Poco prima di Natale, un’altra piccola delusione dalla scuola. L’insegnante di sostegno privata di Alessandro, da un giorno all’altro e senza preavviso, ha lasciato il lavoro. Avrà avuto le sue motivazioni personali, ma ci sono mestieri che hanno a che fare con il benessere di altre persone e, ecco, in quei casi non è che si possa sparire senza nemmeno un saluto, senza preparare il bambino, senza trovare un’alternativa.

Al momento, a un mese e mezzo di distanza, non abbiamo ancora nessun sostituto e le maestre della scuola si stanno alternando per supplire al disservizio. Per fortuna, le vacanze di Natale ci hanno messo una toppa, ma cosa succederà da qui a giugno è ancora un mistero.

La cosa bella è che non mi importa. Davvero, non mi importa. Qualunque cosa succeda, la affronteremo come abbiamo fatto finora. Imprevisti, cose brutte, ma anche belle sorprese: vediamo che accadrà, ci penseremo a tempo debito. Tra neuropsicomotricità, parent training e mille sfide da affrontare ogni giorno, credo che stiamo già facendo tutto il possibile, il resto dovrà fare il suo corso.

Soltanto tre settimane fa, invece, avevo il morale sotto le scarpe. La maestra di sostegno aveva appena abbandonato la nave, le maestre ordinarie erano completamente nel pallone e mi chiamavano ogni giorno per raccontarmi cosa accadeva a scuola, a casa la situazione stava di nuovo peggiorando.

Finché, una sera, Daniele mi ha detto qualcosa di semplice e disarmante che ha cambiato totalmente il mio modo di vivere la situazione.

Daniele è un mio amico. L’ho conosciuto a 16 anni, ci siamo persi e ritrovati diverse volte senza mai smarrire l’affetto reciproco. Adesso lui vive in Germania con la sua famiglia e, viva Whatsapp, lo sento molto più spesso di quando viveva a Roma.

Dopo aver ascoltato uno dei miei interminabili messaggi vocali con gli ultimi svolgimenti della storia, anche lui mi ha mandato un messaggio audio piuttosto lungo, in cui mi diceva di voler ribaltare il mio punto di vista.

“Lo sai, La’, tutta ‘sta situazione è assurda, ma io te la voglio far vedere così: è assurda? Va bene, te ne fai carico, ma la prendi per quella che è, perché tanto è così. Sì, ci sei rimasta male di quella del sostegno andata via, e ti dispiace che nessuno si assuma la responsabilità di questa situazione, ma tanto è così.

Nessuno ti verrà a salvare.

Non possiamo aspettare che arrivi qualcuno, ci faccia una carezza sulla guancia e ci dica che risolverà la situazione, perché ‘sto mondo non ha spazio per i deboli, non ha spazio per bambini e anziani normali, figuriamoci per quelli con necessità speciali.”

(E vabbè, Daniele, per poter essere mio amico, non poteva che essere profondamente polemico e anti-sistema. Ora però riprendo il racconto).

“Adesso ci siete tu, Federico e i bambini; voi dovete affrontare la situazione, così come state già facendo e senza aspettarvi niente da nessuno. Poi mi dici che non vedi soluzione, ma la soluzione non la devi nemmeno cercare, la soluzione arriverà da sola, un giorno, semplicemente seguendo la vostra strada, che a me sembra giusta e che magari correggerete quando ce ne sarà bisogno. Come la maratona, La’…”

(Sì, sempre Daniele, per poter essere mio amico, non poteva che essere sportivo e/o competitivo. Un attimo di pazienza che concludo).

“La maratona è quella cosa che a un certo punto ti fa pensare ‘Ma chi me l’ha fatto fare?’, ma è solo perché sei a metà e sei stanco, allora ti devi concentrare sui tuoi passi, sulla strada, non pensare più all’arrivo, finché al traguardo non ci arrivi davvero. La maratona è la strada, non è mica il traguardo, che ti credi. Che poi è pure giusto, perché se pensi solo all’arrivo che fai? Ci arrivi, ok, e poi? Come la settimana, che uno arranca arranca arranca, arriva la domenica, poi però è subito di nuovo lunedì. No, bisogna guardarsi i piedi mentre si va avanti e quella è già la vita, non ciò che verrà dopo come ricompensa.”

Oh, davvero, non so perché. Non che prima queste cose non le sapessi o non le pensassi già, però non riuscivo a farle mie. Invece, dopo le sue parole, mi sono fatta un ultimo piccolo pianto e poi ho smesso. Ho ripreso qualche giorno dopo, certo, non sono mica un robot, ma ora è diverso, mi sento più forte. Pronta ad affondare il tallone nel cemento, centimetro dopo centimetro e, davanti agli occhi, un obiettivo “micro” per zoomare tutto al massimo e non perdermi nemmeno un dettaglio del meraviglioso fango in cui avanzo.

In giro con un bambino iperattivo

Avere un bambino iperattivo in famiglia può essere molto divertente. Tendo a dimenticarlo troppo spesso, per fortuna altrettanto spesso mio figlio me lo ricorda. Uscire con lui è un vero piacere, è come passeggiare con un amico simpatico che ti intrattiene incessantemente con i suoi racconti e le battute di spirito. Non sai mai cosa ti potrà accadere di lì a cinque minuti, anche lo spostamento più breve e lineare può trasformarsi in un’avventura. Basta indossare le stesse lenti con cui lui osserva il mondo, e poi che lo spettacolo abbia inizio.

Al supermercato

Uno dei posti in cui ne sono successe di più è al supermercato. Noi, poveri ingenui, pensavamo che bastasse infilarlo nel seggiolino del carrello per farlo stare fermo, ma di lì a poco avremmo cambiato idea.

Un giorno, infatti, lo lascio nel carrello accanto al banco delle carni e mi distraggo per scegliere le uova, sicura che lui – per una volta – davvero non possa fare nulla, se non afferrare e lanciare dietro di sé qualche prodotto, come infatti è appena accaduto nel reparto frutta. Passa un minuto, mi volto verso di lui e il carrello non c’è più. Afferrandosi agli scaffali e trascinando il carrello con la forza delle braccia, riesce ad andarsene in giro. Lo ritrovo cinque metri più in là, al banco del pesce, che chiacchiera con la commessa.

Il periodo dell’acquiescenza al carrello è durato poco. Ben presto ha smesso di volerci entrare, preferisce gironzolare a piedi e scegliere con me cosa comprare. Poiché tocca qualunque cosa, capita che faccia cadere dei prodotti. Io cerco di prevenire le sue mosse, ma a volte arriva prima di me. Siamo in un piccolo supermarket di provincia, siamo in vacanza. Il negozio espone diverse bottiglie souvenir di limoncello con il nome della località turistica. Sono colorate, alcune hanno all’interno un veliero di vetro soffiato, attraggono Alessandro come calamite, e lui le tocca ogni volta che siamo in quel supermercato. Un pomeriggio gli do le spalle per venti secondi, tempo di afferrare una confezione di petto di pollo e sobbalzo per un rumore di vetro fracassato. Mi volto e lui è accanto alla bottiglia rotta, limoncello e vetri ovunque, tutti ci guardano, anche lui mi guarda ed esclama “Ops!”.

La bottiglia rotta di limoncello l’ho pagata 10 euro e 66. Qualche giorno prima aveva rovesciato uno scaffale di solari Bilboa e scheggiato una calamita souvenir, ma la cassiera mi aveva strizzato l’occhio e abbonato la marachella.

Comunque sono abituata a pagare per i suoi piccoli danni. Ovetti kinder scartati prima del tempo, lattine di coca cola lanciate e ammaccate, e una volta un formaggio al rum addentato con tutta la pellicola di plastica in un momento di nervosismo durante l’attesa al banco dei salumi.

Al supermercato vicino casa, ormai, ci conoscono bene. Lui chiama tutti “amico” o “amica” e tutti lo chiamano “amico Ale”. Gli regalano in continuazione assaggi di biscotti, cioccolatini, gomme da masticare. Gli mettono da parte il pesce migliore, conoscono i suoi gusti e le sue abitudini. Quando sono sola e lui non riesce ad aspettare che io finisca di imbustare e di pagare, uno dei ragazzi gli fa la guardia accompagnandolo oltre la porta scorrevole. Dal vetro mi rassicura con lo sguardo e mi fa cenno di finire senza fretta, ché a mio figlio ci pensa lui. Una volta mi ha chiesto se avessi solo un bambino, solo quel bambino. Gli ho detto di no, che ne ho anche un un altro e mi ha guardato incredulo, un po’ compassionevole, un po’ ammirato, lo devo ammettere.

Non dare confidenza agli sconosciuti. Anzi sì.

Forse è perché parla con tutti, forse è perché fa cose buffe, o magari è solo molto simpatico, ma riceve regali da sconosciuti ovunque andiamo. Un giorno, sempre al famoso supermercato vicino casa, ha attaccato bottone con una coppia di ragazzi. Dopo due minuti, gli stavano comprando il primo pacchetto di Big Babol della sua vita.

Un mese fa, ultimi scorci d’estate, ci siamo fermati a prendere un ghiacciolo. Un signore anziano è entrato nel bar e ne è uscito con delle caramelle. Si è presentato come il signor Enzo e ha regalato le caramelle ad Alessandro, “perché i bambini dovrebbero essere tutti come te”.

L’anno scorso, in un piccolo forno, Alessandro ha avuto una violenta crisi di pianto. Non riuscivo a calmarlo in nessun modo, ero lì ferma da mezz’ora, tutta sudata, tentandole tutte. Si è avvicinato un signore, si è chinato e gli ha fatto un paio di domande strategiche. Io mi sono fatta da parte perché sapevo che, se fossi intervenuta, avrei fatto precipitare di nuovo la situazione. Questo anonimo signore è riuscita tranquillizzarlo, fungendo da diversivo che ha distolto l’attenzione dal motivo del pianto, e la crisi è passata. Dopo mi ha guardato e mi ha detto: “Posso comprargli un pacchetto di patatine? Mi ha ricordato mio figlio quando era piccolo, che aveva queste stesse crisi e ogni volta mi faceva spaventare.”

Regali a parte, non esiste passeggiata senza che lui si fermi a chiacchierare con qualcuno. Significa anche che, se siamo al ristorante (sì, perché adesso noi riusciamo anche a cenare al ristorante, purché il servizio sia veloce più del vento), attaccherà bottone con le altre persone sedute nel locale. Perciò anche noi faremo amicizia, noi che di solito siamo schivi e amiamo starcene tranquilli per conto nostro, soprattutto in vacanza. Ma i figli ti obbligano a sfidare i tuoi limiti, questo l’ho già scritto.

Energie infinite e camminate chilometriche

Assai raramente, durante una passeggiata, mio figlio mi ha chiesto di potersi riposare o di essere preso in braccio. Se è capitato, doveva essere davvero allo stremo delle forza, perché di solito cammina per ore, con il caldo o il freddo, sotto la pioggia o sotto il sole. E mentre cammina parla, chiacchiera con chi gli capita a tiro, osserva e commenta quello che vede, salta da un muretto all’altro, tira fuori vecchi aneddoti e chiede il perché delle cose. Ricorda molto bene le strade e riconosce i tragitti che ha già percorso altre volte.

Quando siamo a casa, a volte, sembra un leone in gabbia, è un mulinello che gira senza uno scopo, un vulcano traboccante, una mosca che continua a sbattere contro il vetro. Quando me ne accorgo, se posso, gli metto le scarpe e lo porto in giro, senza avere in testa una meta precisa, promettendogli magari un gelato o un piccolo regalo. Si calma all’istante, dirotta tutta la sua attenzione verso ciò che lo circonda e mette nei piedi tutte le sue energie. Sulla strada non può andare in crisi, sa che è partito da un punto preciso e sa che dovrà raggiungerne un altro. Nessuna distrazione potrà comunque distoglierlo dal compito del camminare, perché – e qui sta la magia – può distrarsi continuando a camminare. Io la vedo quell’energia, la percepisco nel suo flusso che parte dalla testa, gli attraversa il torace e va a scaricarsi nelle gambe fino ad abbattersi sul terreno, dove finalmente si disperde.

La bellezza è nei dettagli

Un’altra cosa che non mi stanca mai del tempo passato con Alessandro è osservare il mondo con i suoi occhi. Un albero di limoni non è mai soltanto un albero di limoni, è una pianta che forse assomiglia ad un altro albero visto chissà dove, e chissà se i suoi frutti usciranno fuori di colori strani o se invece saranno davvero limoni.

“Chi può dirlo, Alessandro, a me pare proprio un albero di limoni, ma chissà…”

“Mamma, ti ricordi di ripassare qui tra un mese così controlliamo cosa nasce?”

“Va bene.”

Così un muro non è mai solo un muro, ma è una costruzione di una specifica tipologia di mattoni su cui dobbiamo controllare accuratamente che non ci sia muffa, e se anche ci fosse muffa, passeremmo senz’altro ad esaminare quest’ultima nei minimi dettagli. Una casa non è mai solo una casa, ma è il posto in cui forse abita qualcuno di interessante, e chissà cosa starà facendo in questo momento, sbirciamo nella finestra, vediamo se ha un cane in giardino, controlliamo se un ladro sta entrando dalla porta proprio in questo momento, scopriamo se quella lampadina è un antifurto o solo un citofono.

Sono solo le fantasticherie di un bambino, e forse io sono più allenata all’ascolto perché spesso ho dovuto fare conversazione con questo bambino per prevenirne le crisi di rabbia. Ma la verità è che io amo queste fantasticherie perché, pur così bizzarre e divertenti, finiscono per riportarmi con i piedi per terra, mi costringono a prendere coscienza dei luoghi che attraverso, a dare un nome e ad immaginare una storia per tutti gli oggetti che ne fanno parte. Posso relegare me stessa e i miei pensieri in un angolo, mentre lo scenario emerge dal fondo e si fa protagonista. In quel momento preciso, colgo la bellezza di tutto ciò che mi circonda e che prima non notavo. Ce lo insegnano i bambini, a me lo sta insegnando mio figlio iperattivo: la bellezza della vita è nei dettagli, nei piccoli capolavori che compongono l’imperfezione complessiva, così come nei momenti di magico equilibrio che si possono verificare sempre, anche nella giornata meno felice.

Famiglia

Questi siamo noi. Io sono Laura, e mi sono già presentata qui.

Poi c’è Alessandro, ne parlo in quasi tutto il blog perciò direi che non ha bisogno di altre presentazioni.

Ma in famiglia c’è anche il nostro bombolo, di appena 1 anno, un piccolo caterpillar dalle mani delicate e dal sorriso stampato in faccia, soprattutto quando guarda cosa combina il suo Alessandro.

E poi c’è Federico, il mio adorato Fede, quello che mi riporta sempre sulla terra quando rischio di schiantarmi in volo (leggi: placa le mie paranoie), quello a cui ogni tanto faccio la domanda “ce la faremo a fare questa cosa così difficile?” e che mi risponde ogni volta “certo, come abbiamo sempre fatto”. E ha dannatamente ragione, ogni volta, ma non diteglielo per favore ché si monta la testa.

“Sono il peggiore”. ADHD e autostima.

Oggi Federico mi ha raccontato un episodio accaduto mentre ero al lavoro. Alessandro stava trasportando la grossa macchina per lo zucchero filato della sua baby sitter Vale (una baby sitter solo temporanea, purtroppo…). D’un tratto si è sentito un gran tonfo, la macchina aveva aperto con il suo peso la scatola e si era schiantata per le scale.

Vale e Federico hanno subito controllato che fosse tutto a posto, e lo era. Alessandro però si è fatto prendere dallo sconforto, si è seduto su un gradino con il mento tremulo e gli occhi vicini alle lacrime.

“Sono il peggiore”, ha detto. “Combino solo guai e marachelle”.

Lo hanno consolato, assicurandogli che non è vero, ma la mortificazione ci ha messo un po’ a passare.

Federico ha provato a chiedere, con delicatezza: “Questa cosa te l’ha già detta qualcuno?”.

“Sì, è stato l’amico di…”

Prese in giro tra bambini, tanto normali quanto feroci, ma che in lui lasciano un segno molto profondo, anche quando non sembra e fa lo spavaldo.

Il problema è tutto nell’autostima, che nei bambini con il disturbo dell’attenzione (o ADHD, anche se non è ancora detto che Alessandro ce l’abbia) è sempre bassissima.

Perché?

Perché questi bambini di solito sanno benissimo qual è la maniera corretta di comportarsi, solo che la loro impulsività gli impedisce di seguire – per così dire – la “norma”. Vedono perciò se stessi agire in maniera sbagliata, senza poter fare molto per impedirlo.

Il loro disturbo comportamentale li porta a volte a far seguire subito un’azione ad un pensiero. Altre volte, invece, i loro gesti sono valvole di sfogo per tutta l’energia che hanno dentro. Hanno bisogno di muoversi, correre e colpire per sfogare un’incontenibile energia, poco importa se lungo il percorso travolgono tutti o mollano qualche sberla al malcapitato di turno.

Il problema è che sanno di sbagliare, ne sono pienamente consapevoli; tra l’altro sono spesso molto intelligenti e sensibili, motivo per cui sono ancora più consapevoli dei propri errori.

Mettiamoci anche che vengono rimproverati di continuo proprio a causa delle loro azioni, soprattutto quando il loro disturbo non è ancora stato riconosciuto ufficialmente.

Perciò, tra sgridate, castighi e punizioni, la frustrazione aumenta e l’autostima cala.

Risulta davvero difficile lavorare sull’autostima, me ne sto rendendo conto a mano a mano che Ale cresce. Apparentemente è orgoglioso, sicuro di sé, spesso superbo. Dentro, però, è ancora così fragile, forse non riesce a intravedere la sua strada e pensa di deludere sempre tutti, anche se stesso.

Per noi genitori è difficile trovare il punto di equilibrio tra i rimproveri, che comunque devono esserci, e la comprensione. L’empatia è sempre la chiave di tutto, ma a volte la pazienza sembra esaurita, oppure sentiamo di avere il bisogno di alzare la voce per affermare il nostro potere su quella scheggia impazzita di nostro figlio.

Eppure, noi quel punto di equilibrio lo dobbiamo proprio cercare, perché solo in quella zona di luce in mezzo a così tante ombre troveremo la chiave con cui insegnare davvero a nostro figlio a convivere con se stesso.

Io alla fine ho scelto di alleggerire il carico abbandonando le battaglie che non mi sembrano essenziali. Si tratta di cose che magari farebbero imbestialire altre mamme, così come facevano imbestialire me, ma se non l’avessi fatto avrei finito per passare tutto il tempo a urlare senza ottenere nulla, facendo sentire Ale sempre più sbagliato.

Ecco alcune delle battaglie che ho deciso di non combattere, riuscendo così a conservare le mie energie per guerre che invece reputo più importanti:

  • se Alessandro rompe un oggetto, rovescia una bottiglia, strappa un foglio, lascio correre
  • se Alessandro passa e mi da una botta solo per scaricare la tensione (e non per litigare con me), lascio correre
  • se Alessandro non riesce a stare seduto a tavola tutto il tempo, soprattutto quando siamo con degli ospiti o a casa di qualcuno, lascio correre
  • Alessandro non ha voluto il grembiule all’asilo, ha detto che lo prendevano in giro. Nemmeno le maestre si sono impuntate, perciò ho lasciato correre
  • se Alessandro mi dice qualche brutta parola quando è al culmine della stanchezza e capisco che sta praticamente dormendo in piedi, lascio correre
  • se Alessandro giocando con il fratellino diventa un po’ troppo manesco solo perché è la sua maniera di giocare, lascio correre

Invece ci sono alcune cose su cui non transigo perché, come diciamo noi, sono inaccettabili:

  • lanciare oggetti come gesto di sfida
  • picchiare per litigare e fare male agli altri
  • dire le parolacce per provocare o offendere
  • Scappare per strada e mettersi in pericolo

Non sempre riesco a mantenere la calma, di solito sono più brava la sera e meno brava la mattina, quando dobbiamo uscire tutti e 4 per andare a scuola o al lavoro. Però ci provo e se ci riesco è quasi sempre merito di qualcosa che mi ha consigliato Letizia, la psicologa che ci segue in un percorso di supporto alla genitorialità che dura ormai da 2 anni.

Comunque ho capito una cosa: i momenti in cui con il mio atteggiamento riesco davvero ad essere utile a mio figlio sono quelli in cui, pur restando ferma nei miei propositi, riesco a sentire nel profondo ciò che sente lui. Una delle letture che mi hanno cambiata di più da quando sono diventata genitore è “La rabbia delle mamme”, di Alda Marcoli (leggetelo, è bellissimo), in particolare dove consiglia di ricordare sempre chi è l’adulto e chi il bambino.

Io sono l’adulto, e per quanto sia elevato il livello di stress che mi può generare una crisi isterica di mio figlio, non mi potrà mai ferire davvero, perché è lui il bambino. Capito questo, accettato questo, diventa più facile comprendere e mettersi nei panni dei nostri figli anche nei momenti più difficili.

Ma torno all’autostima perché ho già scritto troppo. Se scelgo le battaglie davvero importanti, se lascio correre con quello che non è essenziale, se smetto di infuriarmi per le provocazioni e capisco davvero, nel mio profondo, che sono solo richieste di aiuto, i rimproveri smodati diminuiscono, io torno di supporto a mio figlio e aumenta il suo benessere, facendo salire piano piano la sua autostima.

Non dico sia semplice. Dico che occorre provare.