In estate ho avuto un brutto incidente e mi sono rotta la schiena. Letteralmente rotta la schiena.
Subito dopo l’infortunio ho avuto un immenso crollo emotivo, una cosa mai provata prima, mai. Un dolore sordo, ottuso e potente proveniente dalle zone più profonde della mia psiche. Era una voce a cui forse non avevo mai voluto dare ascolto. Un urlo baritonale che partiva dallo stomaco per salire fino alla gola, rimbalzare contro il palato e venir fuori come un richiamo primitivo, un impudico e scostumato e straziante lamento funebre.
Piangendo e urlando e prendendo coscienza del fatto che sì, muovevo ancora le gambe ma no, non stavo affatto bene, ho iniziato a ripetere questa frase: “Non mi posso bloccare. Io non mi posso bloccare”. E in quel momento di poca lucidità io non pensavo nè alla schiena nè a una possibile paralisi, io pensavo che il giorno dopo mi sarei dovuta assolutamente rimettere in macchina per portare i miei figli a scuola, andare a lavoro e soprattutto accompagnare Alessandro a fare le sue terapie. E così nei giorni successivi, e la settimana dopo ancora, e per sempre. E se io fossi stata assente, non ne avrebbero sofferto solo i figli, ma anche il mio compagno, che avrebbe dovuto fare altre cose al posto mio, oltre a fare già tutte le sue.
Io non mi posso bloccare. Non mi sarei mai potuta bloccare, anche perché giusto il giorno prima, proprio il giorno del mio compleanno, ci avevano detto su Alessandro che oltre all’adhd e al dop e alla plusdotazione c’era anche l’autismo. Un nuovo elemento con cui familiarizzare. Potevo bloccarmi proprio adesso? No. Eppure ero a terra, e prima ancora di venire a sapere di avere la schiena rotta, sapevo già di aver aperto una voragine, da qualche parte dentro di me.
Poi mi hanno messo un busto che ho portato due mesi. Ci sono state notti insonni con il mal di schiena, giornate estenuanti, un’estate che è passata con una lentezza crudele. Apparentemente sono riuscita a tenere in piedi la nostra routine, eppure quell’incidente è stato un punto di non ritorno. La ragione è che mi ha messo di fronte alla mia grande fragilità, un aspetto con cui avrei sperato di non dover mai fare i conti. Ma la fragilità esiste, e quanto più saremo stati bravi a costruire la nostra forza (o corazza), quanto più fragorosa dovrà essere la caduta che infine ci spezzerà. Perché la verità è che nessuno può illudersi di non essere fragile, corruttibile o soggetto alle fatalità. Nemmeno chi deve prendersi cura delle fragilità di qualcun altro. Nemmeno un caregiver. Anche se il fardello che portiamo è enorme ed è proprio lui, in fondo, ad averci reso così forti e resistenti, possiamo cadere ad un colpo di vento. Magari non al primo, magari nemmeno al secondo, ma prima o poi state certi che anche noi cadiamo.
Non ho ancora accettato la scoperta della mia fragilità. Oltre alle mie ossa, si è rotto quell’involucro in cui custodivo, o forse nascondevo, quella parte di me così insospettabile, delicata e vulnerabile. Potrei dire che ora sono più vicina a conoscermi, ma in realtà mi sento solo più lontana da quella che ero, quindi ancora senza una direzione futura e con un presente complicato. Però i punti di non ritorno sono quello che sono, ovvero punti di partenza. Una cosa di cui perciò sono certa è che è stata una partenza, anche se verso l’ignoto. Non sono fiera di come sto andando in questo viaggio. Sono una donna acciaccata che mette un piede dietro l’altro e che ormai si commuove per poco. So però che non mi sto opponendo al viaggio, dunque vado.
Dopo aver appreso dai medici della mia schiena rotta ho scritto una poesia. Si intitola Frida e la pubblico ora, a distanza di quasi 1 anno, perché ho avuto bisogno di meditare a lungo prima di espormi. Ma la poesia c’è e penso che sia un testo sincero, per cui la scrivo qui in attesa che quel ricordo si allontani fino a diventare solo uno dei tanti episodi che compongono la sinfonia di una vita.
FRIDA
Non si sono nemmeno avvicinati a girare il dito nella piaga tanto gli facevo schifo.
Sono devastata schiena spezzata Frida di periferia Dea Khali che regge così tante cose così tante cose e il tronco è marcio. Il tronco è marcio. La colonna portante ha vacillato il tetto è venuto giù. Ero in una teca per insetti esposta mentre piangevo e tutti guardavano compatendo la pazza, la strega esausta. Guardatela, è lei che strilla! Scrofa sgozzata!
Come uno scarafaggio mi sono dimenata, poi girata prima sulla pancia infine sulle gambe con lo scheletro e il cuore fatti a pezzi.
Pensavano piangessi per lo scheletro invece celebravo la morte del cuore.
Ora sappiamo che Alessandro rientra nello spettro autistico. Lo sappiamo da un mese, il giorno dopo averlo saputo io sono caduta da una parete in palestra e mi sono fatta male, molto male. La sconterò a lungo questa mia superficialità, credere di non accusare mai nulla ma poi cadere per i troppi pensieri.
Comunque.
Spettro autistico. In verità me lo aspettavo. Se proprio devo essere sincera, non sono dispiaciuta. Mi sembra anzi che ora tutto torni, che tante piccole cose abbiano finalmente un senso. Per esempio i guanti di lana indossati in maniera ossessiva, anche a scuola, per tutto l’inverno. Non poter uscire senza avere sempre qualcosa in mano, spesso più di un oggetto per singola mano. Raccogliere sassi a decine, ovunque, scavando pure nell’asfalto. Ripetere molte volte le stesse cose, senza curarsi dell’interesse del prossimo. Percepire tutto in maniera eccessiva, anche le più fini sensazioni dei tessuti sulla pelle. Avere il rifiuto della cuffia della piscina sulle orecchie. Sminuzzare i fogli all’infinito, perdersi con le mani nelle sostanze vischiose. E tutti quei tic.
Adesso che so, tutto è più chiaro.
Inoltre lo sapevo già. Sono 7 anni che lo so. Qualche mese fa, a una festa, ho persino detto “È autistico” a una mamma venuta da me a lamentarsi del suo comportamento. Volevo farla sentire una merda, ci sono riuscita dicendole quella che all’epoca era ancora una bugia, anche se io sapevo che forse era una verità.
Che poi autismo, adhd, dop. Cosa cambia a noi che non facciamo i medici? Sono solo nomi. Tutto quello che mi serve, tutto quello che serve anche a lui, è qualcuno che ci dica come funziona e come va oliato il meccanismo, così possiamo andare avanti. Che poi il nome sia A, B o C, la sostanza è sempre la stessa.
La dottoressa dell’ospedale è affascinata dal funzionamento di Alessandro. Dice che è atipico, simpatico, socievole, con un’intelligenza fuori da ogni standard, che il suo futuro si prospetta privo di difficoltà perché ha il giusto aiuto.
Nel reparto, lui è la star. Lì ci sentiamo così forti, così fortunati. Brilliamo di luce riflessa.
Fuori invece abbiamo una routine che ci toglie il fiato. Cerchiamo di galleggiare, a volte la nostra vita fa davvero schifo, altre volte ci sentiamo pieni di gratitudine. Cerchiamo di godere sempre di quello che c’è, perché sappiamo che a tanti altri va molto peggio. Un giorno siamo superstar, il giorno dopo latrine.
Un giorno crediamo di poter accettare con facilità la frase “vostro figlio è nello spettro autistico”. Il giorno dopo cadiamo sotto i nostri stessi pensieri e ci fracassiamo la schiena.
E va bene così. Va bene così. Non desidero nulla di diverso, davvero.
Come sto. Me lo chiedono spesso le persone amiche. Come sto. Rispondo sempre “bene” ma a volte lo sguardo mi tradisce. A volte invece sto davvero bene.
Qualche mese fa ho avuto una specie di burnout, chiamiamolo crollo, dopo un incidente.
Come sto dopo questi eventi. Non ho ancora una risposta, molte cose stanno sfumando da sole, altre hanno bisogno di essere messe a fuoco e ci vorrà tempo.
Non sono fuori dal buco, ma vedo i contorni della mia piccola trasformazione. Più dura e pragmatica, forse più lucida, un po’ delusa da una fragilità che non sapevo di avere, ma più consapevole dei limiti. Sempre coriacea come la blatta, ma forse meno ostile. Un maggiolino, allora?
Come starò in futuro. Anche questo me lo chiedono spesso. La domanda successiva è “andrà meglio con tuo figlio negli anni?”. Dico sempre di sì, perché un po’ ci credo, ma anche perché non mi va di spiegare le cose ogni volta da capo. Mi sembra una domanda così insensata. Se lui fosse su una sedia a rotelle, per esempio, nessuno mi chiederebbe mai “pensi che un giorno potrà camminare?”.
La cecità di fronte alla malattia o alla diversità psichiatrica, che tutti vorremmo far passare, che tutti ci illudiamo possa passare solo con la buona volontà del paziente. Ma non è così.
Il cervello è plastico, si adatta. La psiche è resiliente, impara a sopravvivere, ok. Ma la diversità resta diversità, perché questo desiderio di normalizzare?
Sì, probabilmente le cose miglioreranno (grazie al lavoro di tutti noi, prima di tutto di Alessandro). Sì, certo che impareremo a convivere sempre meglio con alcune peculiarità o difficoltà, ma la nostra vita è questa e non cambierà. Continueremo a destreggiarci tra terapie, colloqui ordinari o d’urgenza, consulti, dubbi, spese. E avremo sconfitte e soddisfazioni, come tutti.
Io non voglio che questa mia vita cambi, io al contrario voglio imparare a stare comoda nella mia vita. Io la mia vita l’ho gia accettata, anzi mi piace da morire. Mi piace sapere che ho una sfida al giorno, che ci sono ostacoli da superare e che il premio e al tempo stesso la moneta di scambio non sono soldi o coppe dorate o carriera o targhe sul muro, ma amore. Mi piace che non sempre ci sia il premio ma che sempre ci sia un prezzo da pagare. Ormai adoro, anzi voglio che la mia vita sia diversa, atipica, che la mia famiglia sia costruita attorno a una nota discordante. Non c’è alcun bisogno che questo cambi, non ho bisogno di pensare che andrà meglio. Ma ho bisogno di imparare a stare bene anche il giorno in cui va tutto male.
Un giorno parlavo con un’infermiera della ASL. Stava compilando una qualche cartella medica di mio figlio, quando all’improvviso si fermò e mi trafisse. Ricordo le palpebre un po’ invecchiate ma ben truccate su quegli occhi cerulei inquisitori. Ma soprattutto ricordo la domanda che mi fece, inaspettata e in quel momento del tutto incomprensibile: “Come vanno le cose tra lei e il papà del bambino?”. Suonò alle mie orecchie come una frase aliena, come se un passante mi avesse chiesto se conoscevo la differenza tra un pangolino e un armadillo. Risposi di sì all’infermiera e allora lei mi spiegò che ciò era un bene, perché molte volte le famiglie come la nostra vanno in crisi e i genitori iniziano a litigare. Finsi di capire, invece non avevo capito niente come al solito. Dico “come al solito” perché in quel periodo ero nel grande calderone della raccolta di informazioni, della ricerca delle diagnosi e delle risposte, e molto di ciò che credevo di sapere della vita, delle cose o di me stava per rivelarsi una facciata. Ho scritto facciata, ma forse ci stava ancora meglio il termine cazzata.
Infatti solo un paio d’anni dopo compresi il monito dell’infermiera. Fu possibile dopo aver sperimentato per un periodo sufficientemente lungo cosa significa vivere con un bambino ADHD e DOP, e solo dopo aver conosciuto tante altre coppie e famiglie nella stessa situazione.
L’infermiera aveva ragione: le coppie si sfasciavano sotto quel “peso”. Continuavo a incontrare mamme o papà di bambini ADHD che dichiaravano di essersi separati, di non avere il minimo aiuto dal partner o di non riuscire a trovare un punto d’incontro nelle modalità di gestione del disturbo del proprio figlio. Nei racconti che ascoltavo, i problemi dipendevano quasi sempre dal fatto che c’era un genitore che riconosceva il problema e un genitore che diceva che il figlio non aveva nessun problema. Il genitore che negava l’esistenza del problema era di solito anche quello che si arrabbiava di più quando il figlio si metteva a “fare il matto”.
Come dice una mia amica molto saggia (questa mia amica si chiama Giulia: ciao Giulia!), ogni coppia ha il suo equilibrio misterioso, perciò lungi da me provare a capire dall’esterno quali sentimenti muovessero realmente quelle persone. Vedevo però delle dinamiche tutte molto simili, che più o meno si potevano riassumere con questa immagine: la coppia era come una barca i cui rematori avessero preso a pagaiare in versi opposti, stancandosi moltissimo senza arrivare da nessuna parte.
Nella mia coppia non c’è mai stata una crisi, anche se – ci mancherebbe -ci sono stati come in tutte le coppie dissapori, piccole delusioni e momenti di stanchezza. Per quanto riguarda la gestione dei figli, siamo sempre riusciti a remare nella stessa direzione, trovando punti d’incontro o compromessi. Abbiamo avuto il merito di guardare subito in faccia il problema e di raccontarcelo per quello che era, senza rinnegarlo. Forse è perché Federico è uno che nella vita ne ha già viste tante, forse è perché io non dormo bene se non mi racconto la verità, ma quando qualcuno ci ha detto “vostro figlio ha questo problema” noi abbiamo solo risposto “ok, ci dica cosa dobbiamo fare per andare avanti al meglio”.
E questo è stato il nostro grandissimo vantaggio sulla vita che ci stava mettendo alla prova.
Ma tolto questo innegabile punto di forza (a volte la disillusione, il cinismo e la grettezza sono davvero dei punti di forza), quanto è stato difficile.
Cosa? Eh, per esempio riuscire a non incollare sull’altra persona tutto quel risentimento appiccicoso che in realtà è verso la vita, un rancore che in certi momenti sembra pece che scontorna ogni cosa, gli sottrae ogni senso e fa sembrare tutto nero. Sentire in maniera acuta la propria rabbia e decidere di non consegnarla all’altra persona, di non usarla come una frusta tanto per ferire l’altro come siamo feriti noi. Riuscire a trasformarla invece in una richiesta di aiuto, soffocando l’orgoglio, che poi orgoglio di cosa? Come se quel male riguardasse solo noi e non anche l’altra persona. Qualcuno mi spieghi perché è così difficile ammettere di avere lo stesso problema delle persone a cui vogliamo più bene: è perché abbiamo paura di crollare insieme? Forse è perché ci fa orrore l’idea di rispecchiarci nel dolore di chi abbiamo di fronte?
A volte poi si litiga per non restare soli. Magari proprio per varcare quella soglia, per cercare quel collegamento tra noi e gli altri in un momento in cui ogni forma di scambio più pacifica sembra impossibile. Ma se si prende l’abitudine al litigio, in poco tempo diventa un modus vivendi che non ci scrolliamo più di dosso.
Altre volte, invece, si sceglie di restare soli perché si ha bisogno di raccogliere i pensieri, di analizzare, o perché si vuole evitare di aggredire e allora meglio ritirarsi nella tana e aspettare che l’istinto di fare una sfuriata passi. Può esserci molta saggezza in questa scelta, una scelta che vuole evitare di ferire l’altro. Ma la solitudine sa diventare anche un’abitudine comoda, da cui tornare indietro può essere tanto faticoso.
Perché per due genitori è così difficile crescere un bambino che ha l’ADHD o il DOP? Forse perché significa affrontare una serie di problemi pratici (dal costo delle terapie alle discussioni con la scuola, dalle pratiche burocratiche ai continui controlli medici) avendo a che fare con un bambino che – più o meno ogni giorno – ti urla che fai schifo, che ti odia, che vorrebbe ucciderti e che vorrebbe suicidarsi. E quel bambino ha solo 6 anni.
Se ti lasci trascinare da questo vortice di provocazioni, le provocazioni stesse salgono di livello, con lanci di oggetti di ogni tipo, inclusi coltelli o bottiglie (tratto da una storia vera), con mobili sfasciati (già…), fughe da casa (sempre tratto da una storia vera), cinture del seggiolino slacciate con la macchina in piena corsa in autostrada (ancora storia vera).
E anche se diventi molto bravo a gestire quelle situazioni, le provocazioni ci sono lo stesso, solo che diminuiscono perché tu sei zen, o magari non sei affatto zen ma la psicologa ti spiega cosa fare per disinnescare, così tu impari a farlo e la tensione in casa si stempera. Ti spiegano che non devi mai vedere solo il negativo ma anche concentrarti sul positivo, e di cose positive tuo figlio ne ha fatte tantissime, considerando il suo disturbo. Oggi, ad esempio, ha lanciato la forchetta perché non gli piaceva la carne, ma un anno fa avrebbe lanciato il piatto con la carne dentro.
Sì, sono ironica, ma non del tutto. I progressi rincuorano, noi stessi li vediamo e non facciamo che raccontarli a noi e agli altri. Ma certe volte sei stanco, hai combattuto tutto il giorno per quel bambino e lo vorresti solo… Come? Più riconoscente? Sì, dai, forse. Ma soprattutto felice, e invece proprio quel giorno anche lui è molto stanco (perché – ricordalo sempre – se tu hai lottato 100 significa che lui ha dovuto lottare 1.000) e il disturbo si palesa in tutta la sua magnificenza. Anzi, proprio perché sei stanco e tuo figlio ha una sensibilità pazzesca e istintiva, quasi primordiale, il disturbo si amplifica a causa della tua stanchezza e la crisi diventa grandissima, lunghissima, dura anche ore e ti travolge come un’onda.
Dopo l’onda io e Federico, come due naufraghi, restiamo sulla spiaggia.
Dentro abbiamo ancora tutta la rabbia per le cose che ci ha urlato, la delusione per un altro episodio difficile che forse si sarebbe potuto evitare se solo… (avessimo spento prima la tv? Avessimo avvisato che al posto del pesce c’era la frittata?), il dispiacere per un figlio così sofferente che alla fine della sfuriata quasi sicuramente ci avrà detto “mi dispiace, mamma, preferirei non essere mai nato”.
A quel punto, beccarsi come due pappagalli isterici potrebbe essere uno sfogo naturale. A volte lo abbiamo fatto, non lo nego. Di solito ci succede dopo il parent training e ciò è paradossale, perché dopo aver ricevuto tanti buoni consigli dalla psicologa su come gestire nostro figlio, iniziamo a gestire malissimo il nostro rapporto. Me lo spiego solo così: è uno dei pochi momenti in cui siamo soli, ma anche uno di quelli in cui siamo più stanchi, quindi va sempre a finire con una lite, ma poi passa.
Quello che proviamo a non fare mai è rinfacciare all’altro la gestione sbagliata del figlio, o dei figli. Su quel terreno cerchiamo di non scivolare nemmeno per sbaglio, perché sappiamo che se cadi lì non ti rialzi così facilmente. L’istinto ci ha sempre suggerito di agire – rispetto alla gestione figli, e in particolare alla gestione Alessandro- come una testuggine romana, sempre insieme, stessa direzione, stesso obiettivo.
Ecco, l’obiettivo. Forse l’unico modo per sopravvivere a queste tempeste è non perdere di vista l’obiettivo comune. Se l’obiettivo sta lì, ed è lo stesso per entrambi, si può riuscire a perdonare l’altro – o noi stessi – per le sviste, gli errori, le distrazioni più fatali e anche le piccole angherie reciproche.
Ma questo, ormai vi sarà chiaro, significa sentirsi sempre in battaglia. Si sceglie di identificare un nemico all’esterno della coppia anziché all’interno, ma l’atmosfera è marziale. Non c’è riposo, si vive per adempiere a un dovere, non si trasgredisce mai.
In certi momenti, se devi affrontare un grande problema, questa rigidità è inevitabile. In alcune fasi, quelle più dure, lo stoicismo è stato la nostra salvezza. Prendersi per mano ogni sera e raccontarsi delle battaglie vinte, farsi forza per affrontarne di nuove il giorno successivo, partire per il fronte e rivedersi solo dopo molto tempo, trovandosi cambiati e cercandosi ogni volta da capo con gran fatica.
Tutto questo è stato inevitabile ed è stato strategico per la sopravvivenza.
Ma il colore, direte voi, dove se ne va.
Il sogno, la risata, l’illusione, la speranza, l’aspettativa, il progetto, la leggerezza. Dove se ne vanno.
Per fortuna arrivano i momenti sereni, e se sei stato un bravo soldato e sei sopravvissuto insieme al tuo compagno di squadra, ti puoi levare la corazza e puoi ricordare che hai un corpo con una forma sottile, che hai dei capelli che profumano, che i denti quando ridi si scoprono e sono molto bianchi. E così fa il tuo compagno di squadra. Ma i vostri corpi sono anche segnati da infinite cicatrici, da nudi si vedono bene, guarda come luccicano al sole i lembi di pelle ancora lucida. Avremo il coraggio di guardarle tutte? Avremo il coraggio di mostrarle tutte? Io ne ho alcune che tengo per me, e so che anche lui ne ha. Certo, fingiamo che non sia vero, ma sappiamo che è così. Nascondiamo alcune ferite anche per rispetto, perché nessuno può arrogarsi il diritto di essere quello che soffre di più. Le nascondiamo perché nessuno dei due può permettersi di crollare e perché sa che – se crollasse – l’altro resterebbe solo. Questa continua oscillazione tra l’importanza di dirsi le cose e la necessità o il bisogno di nascondersele è frutto di un’alchimia che al momento funziona.
Qualcuno lo chiama equilibrio di coppia, qualcun altro affinità. Io continuo a vedere due persone che si sono scrutate a fondo, lì dove c’è la melma, e si sono accettate senza troppi giri di parole. Una cosa che mi dico spesso è che non lascerei affacciare nessun altro su certi miei abissi vergognosi. Il segreto del mio amore, se ci penso, non è nelle cose belle. No, il segreto del mio amore è nell’accettazione della melma.
Se dovessi trovare l’animale che più mi ha rappresentato in questi anni, sarebbe di sicuro la blatta.
Perché, direte voi.
Perché la blatta vive nella sporcizia e io sento a volte di avere un gran casino intorno, una vita che è tutto tranne che invidiabile.
Perché la blatta fa ribrezzo e io a volte faccio schifo a me stessa, quando sto troppo a pezzi per non piangere e mi si appannano gli occhiali, quando mio figlio mi chiama “cretina” davanti al fruttivendolo, quando non riesco a gestire più niente e sbaglio anche l’uscita del raccordo, mi perdo le chiavi, mi perdo ogni pezzo di me cercando di sembrare sempre tutta d’un pezzo.
Perché la blatta ha le antenne lunghe e avverte il pericolo, e io sento ormai di vivere così, fiutando i pericoli per non lasciarmi cogliere di sorpresa da nulla, visto che non mi aspetto belle sorprese ma al massimo complicazioni. Un nuovo tic, un nuovo disturbo, un nuovo casino a scuola, un verbale inps che arriva in ritardo, un referto medico che non basta per avere più ore di sostegno, un ingranaggio qualsiasi che smette di girare in questa macchina complessa che è diventata la mia esistenza.
Tutti i pregi della blatta
Ma anche la blatta ha i suoi pregi, e così la sua vita. Forse è soprattutto nei suoi innumerevoli pregi che mi identifico di più.
Per esempio la blatta non si arrende mai. Tu la insegui, la colpisci cento volte e lei prosegue nella sua cieca corsa verso la salvezza. Io mi sento indistruttibile, sarà che ogni mattina continuo a svegliarmi, dopo tutto.
Inoltre la blatta è resistente, coriacea. Tanto piccola quanto difficile da catturare. Così mi sento io: insignificante e schiaffeggiata, ma lo stesso attaccata con tutte le mie unghie a questa vita strisciante.
La blatta è realista, concreta. La blatta sa che vive nella spazzatura o sotto i battiscopa delle cucine più luride, lei non nutre nessuna illusione verso l’esistenza che conduce, ma sembra ugualmente non aver voglia di morire. Si accontenta di essere viva, non ha bisogno di raccontarsi tutte quelle cazzate come le formiche operose o le nobili api che fanno il miele bla bla bla. E io mi sento così, non ho più voglia di menzogne, preferisco guardare a ciò che ho oggi, a ciò che sono oggi.
La forza della blatta è nella sua semplice resistenza alle intemperie. Non esiste insetto più brutto o inutile, eppure le api sono in via di estinzione, le blatte sono un flagello inestinguibile.
Sentirmi blatta mi aiuta a sentirmi forte anche quando il risultato è scarso, davvero ai minimi. Per esempio la giornata ha fatto schifo ma c’è stata una mezz’ora di gioia, allora ne è valsa la pena lo stesso, perché tanto la vita di una blatta è così, sempre ai minimi termini.
Ho un’amica che dice sempre che il problema della vita è l’aspettativa. La blatta non ne ha, la blatta è sincera con se stessa e con gli altri: la vita è uno slalom tra una crudele spruzzata di Baygon e un lancio di ciabatta. Ma è l’unica vita che ha e quindi se la tiene stretta.
Il punto di vista di Ale sulle blatte
In realtà io sono terrorizzata dalle blatte, preferirei difendermi da un leone che da uno di quegli scarafaggi. Perciò un giorno Alessandro si è sentito in dovere di riabilitarle ai miei occhi e mi ha detto che in un documentario aveva scoperto che le blatte non abbandonano mai i loro figli.
“Perciò mamma anche tu sei un po’ come le blatte, no? Lo vedi che in realtà sono carine?”
È stato strano, perché quando Alessandro ha avuto questa uscita io avevo già creato la mia personalissima filosofia della blatta, e ovviamente non gliene avevo mai parlato.
Che fosse un segno oppure solo un caso, io ci ho voluto leggere qualcosa: anche se ti senti l’ultimo degli esseri viventi, intrappolato in qualcosa che sai di non meritare, il senso esiste lo stesso se lo stai facendo per il bene di qualcun altro che ha più bisogno di te. E parlo del senso della vita, mica bruscolini.
Ho deciso di fare un elenco, che aggiornerò nel tempo, dei libri sull’ADHD e in generale sulle disabilità che ho letto e trovato utili. Spero possano essere d’aiuto anche ad altre persone.
Martin L. Kutscher, Mio figlio è senza freni
Questo è stato il primo libro teorico sull’ADHD che ho letto. Il mio Kobo mi dice che l’ho comprato ad aprile 2020, quindi pochi giorni dopo aver ricevuto la diagnosi di Alessandro. Mi ha aperto un mondo, con spiegazioni chiare ma accurate, grazie alle quali per la prima volta ho iniziato a inquadrare questo lato di mio figlio.
Sfogliando oggi le sottolineature che ho fatto allora, ho trovato delle cose interessanti.
Intanto, quella che probabilmente è stata la mia prima presa di coscienza di trovarmi di fronte a una disabilità:
Forse è paradossale ma pensare che il proprio figlio abbia una disabilità aiuta a mantenere un atteggiamento positivo. Se pretendi che non ci sia alcuna disabilità sul piano dell’autocontrollo, allora concluderai probabilmente che tuo figlio ti disubbidisce di proposito. Se ti ostini a pensare che tuo figlio non abbia difficoltà di previsione e di organizzazione, allora concluderai che sceglie semplicemente di infischiarsene. (Capitolo 2)
In questo libro ho poi trovato un concetto che mi ha colpito nel profondo e che cerco sempre di ripetere a me stessa quando sento che non sto facendo un buon lavoro: si tratta del “conto relazionale”, ovvero pensare che essere un genitore è come avere un conto in banca che a volte cresce, altre diminuisce. Non occorre che sia sempre in crescita, basta che sia sempre in attivo. Leggete qua:
Può essere utile pensare di avere un conto bancario delle esperienze con il bambino: ci sono momenti buoni e momenti cattivi che possono essere depositati nella tua relazione. Il tuo obiettivo è avere il bilancio complessivo in attivo. Ogni volta che ti accingi a interagire, chiediti: «Il mio prossimo commento/atto contribuirà a portare il mio conto bancario con mio figlio in rosso o in attivo?». (Capitolo 2)
Il dottore ci sta dicendo che si può sempre rimediare a quell’urlo di troppo, all’insofferenza di un momento di stanchezza o alle crisi isteriche (io ne ho spesso). Per nessuno è facile avere a che fare con dei bambini, ma un bambino con ADHD riesce a sfrucugliare nel mucchio delle tue frustrazioni finché non trova il tasto dolente, il nervo scoperto, quel dettaglio che di sicuro ti farà esplodere. E dopo ti sentirai davvero senza giustificazioni, a meno che non trasformi subito quel senso di fallimento in un segno “meno” del tuo conto relazionale a cui aggiungere qualche “più” per rimediare. E infatti, più avanti (capitolo 7) ho sottolineato questo passaggio: “Il dottor Barkley (2000) incita i suoi lettori a perdonarsi ogni notte per non essere stati capaci di essere perfetti. Ogni notte ripensa a come hai agito quel giorno e a come potresti fare meglio.”
Sembra che, allora come oggi, avessi bisogno di perdonare me stessa oltre che di capire mio figlio!
Daniele Fedeli, Mio figlio non riesce a stare fermo
Libro utilissimo, chiaro, pieno di esempi semplici e immediatamente comprensibili. Penso che sia il primo libro che ogni persona che approccia per la prima volta al problema dell’ADHD dovrebbe leggere. Con questo volume ho finalmente capito cosa sono le “funzioni esecutive” del cervello, in che senso l’ADHD non è un deficit di abilità ma di controllo (frase con cui mi dovrei ricordare di rispondere a tutti quelli che mi dicono “eppure è così intelligente!”), perché non è vero che se un bambino viene ipnotizzato da videogiochi e tv non può essere iperattivo (spiegazione che dovrei dare a tutti quelli che mi dicono “però davanti ai cartoni sta così buono!”), come funziona l’attenzione e perché l’iperattività è collegata alla bassa tolleranza verso le frustrazioni (che si traduce in irascibilità o scoppi d’ira intensi oltre ogni immaginazione).
Oltre alla teoria, il libro di Daniele Fedeli è ricco, ricchissimo di consigli educativi: cosa dire in determinate circostanze, cosa non fare, come prevenire un problema.
Purtroppo non esiste un manuale di istruzioni per chi ha a che fare con un bambino con una neuro-diversità, perché al di là delle buone pratiche c’è la psiche profonda di ciascun individuo. E con “individuo” intendo il bambino, con la sua personalità e con le esperienze che gli capitano ogni giorno, ma intendo anche il genitore, che affronta questa sfida con la soggettività che gli è propria.
Tuttavia, avere dei punti di riferimento teorici – e questo libro ne è uno – può almeno indirizzare e orientare, soprattutto per chi – come me – ha bisogno di comprendere razionalmente le cose per poterci arrivare anche con il cuore.
Flavio Fogarolo e Giancarlo Onger, Inclusione scolastica: domande e risposte
Ecco, questo per me è un testo sacro. Lo sfoglio prima di ogni GLO (incontro scolastico ufficiale tra genitori, insegnanti di sostegno, insegnanti di cattedra, dirigente scolastico e psicoterapeuti del bambino con “bisogni educativi speciali”), di ogni incontro ufficioso con gli insegnanti, oppure quando so che a scuola è successo o sta per succedere qualcosa che mi costringerà a rivendicare un diritto o a compiere un dovere. Tanto per dirne una: sono obbligata ad andare a prendere mio figlio quando diventa ingestibile? La verità è che io l’ho sempre fatto, il primo anno di scuola materna l’ho fatto TUTTI I GIORNI (nessuno escluso) , ma adesso lo faccio per mio figlio, per alleggerire la sua giornata e rendere più semplice la sua vita già abbastanza incasinata. Quando invece non conoscevo i nostri diritti, lo facevo perché pensavo che fossi obbligata, perché ero terrorizzata visto che quella maestra “indimenticabile” mi chiamava dicendomi di avere il dovere di difendere gli altri bambini dagli attacchi di mio figlio, a quanto pare un treenne incontenibile. Ci sono tante persone volenterose nella scuola e non voglio né posso generalizzare, ma si fa anche tanto terrorismo, a cui spesso basta rispondere con il buon senso che deriva dal conoscere meglio degli altri le regole. Perché io sono ossessionata dal rispetto degli altri e delle regole, ma voglio che lo stesso sia fatto con mio figlio, e purtroppo le cose hanno iniziato a girare meglio solo quando io ho iniziato a girare con questo libro. E aggiungo che ho la sensazione che un genitore informato possa essere una valida spalla anche per gli insegnanti, che a loro volta sono spesso lasciati soli con il “problema” in classe, senza aiuto dai piani alti. La squadra e la rete funzionano sempre meglio dei singoli tori scatenati.
Tra l’altro esiste anche un gruppo facebook coordinato dal Prof. Fogarolo: credo che l’iscrizione per chi vive queste situazioni, sia da genitore che da insegnante, sia quasi d’obbligo.
Russel A. Barkley, ADHD: strumenti e strategie per la gestione in classe
A proposito di insegnanti, io questo libro l’ho letto e regalato con vero piacere a una delle maestre di sostegno di Alessandro. Per un genitore, torna utile la semplicità di alcune spiegazioni su cosa sia l’ADHD e come funzioni questo disturbo. Per un insegnante, ci sono tantissime strategie utili per gestire al meglio in classe un bambino o ragazzo con queste difficoltà. In effetti, penso che avere un bambino ADHD tra i propri allievi sia una vera sfida. Quando poi si aggiungono anche DOP (disturbo oppositivo provocatorio), disturbo di condotta, sindrome di Tourette, stati d’ansia, dislessia, disgrafia (tutti disturbi che spesso vanno a braccetto con l’ADHD, Alessandro ad esempio ha il DOP), lavorare è difficile, sfibrante, non sempre si ottengono i risultati sperati.
Come si può sentire un insegnante? Immagino che il carico di stress che provo io, da genitore, sia simile a quello di un insegnante. E immagino che per un insegnante sentirsi chiamare “cacca di maestra” davanti a tutti i colleghi sia umiliante, perché in pochi conoscono l’ADHD e tutti penseranno che tu non sia riuscito a educare l’alunno, così come gli altri genitori pensano di me che io non sia riuscita a educare mio figlio.
Anche qui, l’arma è la conoscenza, perché con questo tipo di disabilità l’amore e l’empatia non bastano. Sono certamente importanti (Alessandro si affida moltissimo alle persone che dimostrano di amarlo), ma quando arriva la crisi, o per evitare che arrivi, occorrono conoscenza del disturbo e strategie comprovate.
Con l’ADHD l’approccio terapeutico ideale è infatti triplice: deve lavorare il bambino (con la terapia cognitivo comportamentale, per lo più), deve lavorare il genitore (con il parent training) e dovrebbero lavorare gli insegnanti con il teacher training. Ho scritto “dovrebbero” perché purtroppo tutto questo è lasciato alla buona volontà dei singoli maestri, quando invece penso che sarebbe d’obbligo mettere accanto a bambini disabili degli insegnanti in grado di trattare la loro specifica disabilità. In fondo, nessuno affiancherebbe a un bambino sulla sedia a rotelle un insegnante di sostegno senza braccia. Non ho ancora capito perché non si applichi lo stesso principio con bambini con disturbi “invisibili” e non solo fisici.
Claudio Vio e Maria Stella Spagnoletti, Parent Training
In realtà questo è un libro per gli operatori che si occupano di parent training, tuttavia ne ho letto metà (non mi sono addentrata negli aspetti troppo tecnici) e ho trovato molto utili le spiegazioni sull’ADHD e sull’efficacia del trattamento anche in età prescolare.
Una maestra della scuola dell’infanzia mi disse una volta che le sembrava molto strano che Alessandro fosse stato diagnosticato ADHD, visto che, a detta sua, questo tipo di diagnosi sarebbe stata tipica dei bambini più grandi.
In realtà con dei test specifici è oggi possibile individuare i casi sospetti molto prima dei 6-7 anni, ottenendo una diagnosi tempestiva e iniziando subito a fare delle terapie riabilitative. Prima si comincia e meglio è, sia con la terapia sul bambino che con il parent training per noi genitori.
Gianluca Daffi, Meno castighi, più ricompense
Un libro molto carino con delle attività da fare insieme per mettere a fuoco i punti di forza del bambino, togliendo attenzione ai difetti allo scopo di evitare che il bambino sia sempre identificato con il suo “problema”.
Alessandro è molto scaltro e ha capito subito che si trattava di un libro “terapeutico”, così lo ha guardato con sospetto e ha evitato di dargli troppa importanza. Inoltre è forse ancora piccolo per poterlo apprezzare, ma tra un anno, quando la terapia cognitivo comportamentale andrà a regime, glielo proporremo di nuovo.
Russell A. Barkley, Christine M. Benton, Mio figlio è impossibile
L’ho comprato ma non ancora letto, per cui mi limito a inserirlo nell’elenco. Del resto ho appena saputo che Alessandro non solo è ADHD, ma ha anche il DOP, Disturbo Oppositivo Provocatorio, per cui potrà essere molto utile.
Mario Di Pietro e Monica Dacomo, Largo arrivo io!
Un manuale leggero, semplice, con spiegazioni e consigli chiari per i genitori ma soprattutto per i ragazzi.
Mi chiedo spesso cosa dirò ad Alessandro quando gli racconterò che in lui c’è anche questa cosa che si chiama ADHD. Non che non abbia già adesso consapevolezza di sé, sa benissimo che il suo cervello è differente, sa che le sue arrabbiature non sono sempre volontarie e controllabili e sa che va da alcune dottoresse a “giocare” (ma lui dice, con molta più sincerità e apertura mentale di noi, che ci va per “imparare a gestire la rabbia”). Tuttavia, sta per arrivare il giorno in cui inizierà a farci domande molto più strutturate, magari perché si accorgerà che il suo rendimento scolastico è in qualche modo legato a questo calderone, e che accanto a lui c’è un insegnante che gli altri bambini non hanno. Le spiegazioni saranno necessarie e allora tirerò di nuovo fuori questo volume, dove gli autori si rivolgono con franchezza ai bambini ADHD, svelando dei semplici trucchetti per organizzare il tempo, mettere le cose da fare in un ordine di priorità, e anche catalogare i propri stati d’animo in modo da ridurre non solo il caos esteriore, ma anche quello interiore.
Andrea Dondi, Siblings. Crescere fratelli e sorelle di bambini con disabilità
Flavio, il mio secondogenito, sta crescendo e insieme a lui aumentano i suoi bisogni. Inoltre mi accorgo che, da un lato, tende a emulare a casa e fuori i “comportamenti problema” del fratello, dall’altro vive con terrore le crisi di Alessandro.
Mi sento molto inadeguata e impreparata ad affrontare questa situazione, anche perché sono la prima a venire investita ogni volta dal carico di emozioni negative che una crisi porta con sé. Ci sto lavorando, punto alla calma zen, ma oggi ne sono ben lontana e Flavio ne risente.
Allora mi sono detta che devo fare un lavoro anche su di lui, in modo che non cresca da solo e che un domani la difficoltà oggettiva in cui si è trovato senza averlo chiesto si trasformi in una sua risorsa. Una risorsa che non sia la rabbia di chi ce l’ha dovuta fare per forza di cose, ma la consapevolezza di chi sa come gestire e affrontare gli ostacoli che ti piombano davanti anche se non te li meriteresti.
Questo libro l’ho appena iniziato, ma l’incipit è interessante: parla di come focalizzarsi sul “sibling” (fratello del portatore di disabilità) possa regalare un punto di vista inedito e arricchente, perché:
ci consente di non rimanere concentrati solo sul “problema”, adottando un approccio centrato sulla famiglia nell’ottica della Family Centered Care (FCC).
E ancora:
Occuparsi di siblings indica la volontà di ampliare lo sguardo, non concentrandoci in modo prevalente sulle caratteristiche specifiche della disabilità e sui deficit, ma valorizzando le potenzialità e le risorse intrinseche in ogni famiglia, anche quando risultano poco evidenti o addirittura represse.
Ma dirò qualcosa di più quando avrò finito di leggere il libro.
I libri della compassione
Oltre ai libri teorici sull’ADHD, sono alla continua ricerca di libri scritti da altri genitori che vivono situazioni simili alla mia. Li chiamo “I libri della compassione” perché dentro ci rivedo la nostra storia, e dunque la partecipazione emotiva – cum patior (soffrire con) – è davvero forte.
Massimiliano Verga, Un gettone di libertà
Mi ha colpito di questo libro la rabbia. Rabbia non distruttiva o autoreferenziale, ma rabbia sincera e senza volontà di dissimulare. Rabbia che non significa odio verso gli altri (anzi!), né voglia di distruggere tutto e punto.
Rabbia perché come ti vuoi sentire quando vedi che tuo figlio ha dei problemi che tu non potrai mai alleggerire o risolvere, e che non passeranno mai, neppure quando sarà adulto e neppure quando il genitore non ci sarà più?
se impari a usarlo, lo strumento della rabbia non è poi così inutile. Ti aiuta. Ti rende lucido, anche se può sembrare un paradosso. Non è che sei incavolato con qualcuno o con qualcosa in particolare. Sei arrabbiato e basta. Ma quella rabbia ti restituisce la forza che credevi di avere perso. La forza per provarci, ogni giorno. La rabbia non è negativa di per sé. Certo, forse vivi meglio se non ce l’hai. La gastrite e il mal di testa non sono compagni simpatici. Ma un uomo arrabbiato non è per definizione peggiore di altri. Non per dire che io sono il migliore. Figuriamoci! Per dire che alla pari di tanti altri, appunto, ci provo. Qualche volta indovino, molte altre sbaglio. Come tutti. Senza troppi ricami: se nel mio zaino ho lasciato la rabbia è perché ho fatto presto i conti con il compromesso e con l’idea che non ne posso prescindere. Troppo presto, per i miei gusti. Perché rinunciare a trent’anni a un pezzo di futuro (o comunque all’idea che ti sei fatto del futuro) mi pare un buon motivo per essere arrabbiati. Ma non posso nemmeno passare il mio tempo a riempire e svuotare valigie. E quell’idea di futuro vorrei provare a trattenerla. Con ciò che ho, che mi saprò inventare o che qualcuno vorrà regalarmi. Di quell’idea vorrei provare a trattenerne almeno un pezzetto. Con la dose abbondante di rabbia che lo specchio mi riflette addosso e con le mani libere da inutili valigie. Perché con le mani finalmente libere, puoi tirare tutti i pugni che vuoi, certo. Ma puoi anche accarezzare, stropicciare, pizzicare. E perché no? Puoi anche tenerle in tasca, quelle mani. Quando hai bisogno di tirare il fiato o scopri il piacere di coltivare la pigrizia. Perché soltanto così puoi offrirle a chi le cerca per continuare il viaggio con te. Mettendo pure in conto un bel vaffanculo quando capita o ci vuole.
Chiara Garbarino, La felicità non sta mai ferma
Il racconto bellissimo di una mamma e di suo figlio con l’ADHD. L’ho letto prima di sapere che anche mio figlio è iperattivo, ma dal momento in cui l’ho letto io ho capito che era così. Per la prima volta ho aperto una finestra su un mondo a cui non avevo ancora dato nessun nome, ma in cui inevitabilmente stavo già vivendo. E mi sono sentita meno sola, tanto che poi ho scritto all’autrice, che mi ha risposto.
Gianluca Nicoletti, Una notte ho sognato che parlavi
Il motivo per cui ho letto questo libro, racconto di un padre su suo figlio autistico, è particolare.
Ero in macchina e mi dirigevo verso il lavoro dopo aver lasciato i figli a scuola. Ogni volta che lasciavo Alessandro, partivo con un enorme magone in gola perché non sapevo cosa sarebbe potuto accadere, oppure perché mi sorbivo una sua scenata all’ingresso e io, all’epoca, non sapevo ancora come comportarmi. In parte è ancora oggi così, ma alcuni spigoli troppo dolorosi li stiamo smussando, oppure non mi fanno più così male quando ci sbatto contro il mignolo del piede.
Comunque.
Ero in macchina e ascoltavo “Melog”, trasmissione su Radio24 di Gianluca Nicoletti. Quella volta si parlava di disabilità e lui iniziò a raccontare le difficoltà, come padre, che comportava avere un figlio disabile. Cose molto piccole, che per un genitore diventano enormi perché compromettono la quotidianità. Per dirne una: non puoi più uscire con gli amici a meno che non siano loro ad adattarsi a te, così poco a poco ognuno va per la propria strada finché resti solo. Ascoltavo queste parole e, sebbene non sapessi ancora dell’ADHD di Alessandro, mi rispecchiavo completamente in tutto ciò che veniva pronunciato.
Non ho mai dimenticato quella puntata, poi a distanza di mesi ho capito anche il motivo. Ecco allora che mi sono interessata a questo giornalista e ho scoperto che ha un figlio autistico a cui ha dedicato libri, un podcast e un film, oltre che innumerevoli iniziative sul territorio.
Sarà sempre il destino, o magari queste sono cose su cui mi fisso io e che invece succedono solo per caso, ma il giorno dopo aver finito il libro siamo stati in ospedale e una dottoressa ci ha detto che sospetta che Alessandro si trovi nello spettro autistico.
In effetti sono state innumerevoli, durante la lettura del libro, le somiglianze che ho riscontrato tra i comportamenti del protagonista e quelli di mio figlio. Infatti poco prima della visita avevo scritto a una mia amica queste parole:
“Domani abbiamo l’ultimo day hospital. Ma se esce un autismo lieve?“
Alba Marcoli, La rabbia delle mamme
Concludo con un libro che ho letto molto, moltissimo tempo prima di sapere dell’ADHD di Alessandro. L’ho letto quando lui aveva solo 3 anni e io mi sentivo persa perché non trovavo nessuna risposta ai comportamenti che metteva in atto.
Sono passati miliardi di litri di acqua sotto ai ponti e nemmeno mi riconosco più nella ragazza che comprò e lesse questo libro, tanto che ho difficoltà a ricordare con esattezza cosa ci fosse scritto.
Ricordo però con estrema chiarezza la sensazione di sollievo che provai leggendolo. Fu una carezza nel cuore di una metaforica notte molto lunga, molto buia e molto tempestosa e credo che tutte le mamme arrivate allo sfinimento dovrebbero averne una copia per capire che non ci sono colpe, non ci sono meriti, ci sono solo periodi difficili che vanno affrontati senza darsi voti o tantomeno giudizi. Perché, come mi ha insegnato l’autrice, non ci sono buone o cattive madri, ma solo madri che fanno per i loro figli tutto ciò che è nelle loro possibilità o potenzialità. Se ci si perdona, si cambia punto di vista, si passa dal dire “avrò questo problema per sempre” a “oggi ho questo problema ma non durerà per sempre”, dal dire “non sono in grado” a “in questo momento non sono abbastanza forte per gestire tutto ciò”, si stempera la frustrazione e si impara a stare anche nelle situazioni più pesanti:
La «capacità negativa», il riuscire ad attraversare questi momenti di disorientamento e confusione standoci dentro con tutte le emozioni faticose che inevitabilmente si provano, ma senza scapparne, e senza aggredire né se stessi né gli altri, è forse uno dei doni più preziosi che possiamo ricevere e dare. (capitolo 3)
Non ho avuto risposta alle mie domande, non ho capito in quel libro perché Alessandro era così o faceva questo o quello. Ma in una fase della mia vita in cui camminavo su un ponte tibetano assai instabile e pericoloso, ho trovato una voce che è riuscita a dirmi che, in qualche modo, ce l’avrei fatta e che non dovevo sentirmi persa.
L’ho attraversato quel ponte? Sì, per poi trovarne tanti altri davanti a me, insieme a macigni, strade diroccate, dighe crollate e fossati, ma anche – ogni tanto – un pascolo rigoglioso o un torrente placido. Oggi per me la sfida non è più saltare l’ostacolo senza paura, ma riuscire a godere dei rari momenti di bellezza che capitano ogni tanto sulla via. Goderne pur sapendo che, poco dopo, troverò altre caverne perigliose, e nonostante questo assaporarli e sentirmi fortunata per un breve momento di felicità, seppur privo di prospettive o attese. Ma se devo essere onesta, io su questo ci sto ancora lavorando.
Ci sono almeno due pregiudizi in Italia sul metodo di Maria Montessori, e per assurdo sono l’uno l’opposto dell’altro. Il primo è che il metodo Montessori lasci il bambino libero di fare ciò che gli pare. Il secondo è che invece lo imbrigli in una serie infinita di regole e comportamenti schematici.
La verità, ovviamente, non sta in nessuna di queste due versioni e mi dispiace che proprio nel paese che ha dato i natali alla dottoressa Montessori ci sia stato questo enorme fraintendimento su un metodo rivoluzionario come il suo. Ma nemmeno io, del resto, ne sapevo nulla prima di avere a che fare con la vivacità, l’esuberanza e il carattere ribelle e peperino di mio figlio Alessandro.
Premessa numero 1: il metodo Montessori lascia il bambino libero di agire fino a quando non arreca danno a se stesso o agli altri. Il bambino perciò potrà scegliere liberamente la sua attività, ma non potrà ad esempio lanciare i giocattoli addosso agli altri bambini. In quel caso, un adulto dovrà intervenire ristabilendo la disciplina.
Premessa numero 2: il compito dell’adulto non è quello di suggerire al bambino cosa fare, ma di osservare il bambino e predisporre l’ambiente per far sì che egli abbia il materiale di cui ha bisogno in quel particolare momento della sua vita. Se ad esempio un bambino attraversa un periodo in cui è particolarmente affascinato dal movimento, sarà compito dell’adulto mettere nei punti in cui il bambino può arrivare dei sostegni per sollevarsi, per muovere i primi passi o per arrampicarsi in sicurezza.
Il metodo Montessori nasce per essere applicato nelle scuole (le cosiddette “case dei bambini” montessoriane), anche se – ahimè! – le scuole italiane non lo fanno quasi mai. Nulla vieta comunque di applicare il metodo anche a casa, compatibilmente con gli equilibri e le esigenze della famiglia.
Il metodo Montessori ha contribuito a cambiare in meglio la nostra quotidianità. Ma partiamo dal principio.
Alessandro aveva 3 anni e, come tutti i bambini, la sua cameretta iniziava ad essere sommersa di giocattoli, nonostante qualche tentativo – devo ammettere poco energico – di limitarne l’acquisto. Fin qui, tutto regolare. Il problema è che Alessandro non utilizzava minimamente i suoi giochi, se non per lanciarli durante le sue sfuriate o i capricci. Ad un certo punto, un po’ per ripicca e un po’ per necessità, ho iniziato a far sparire tutto ciò che lanciava. In pochi giorni, la nostra casa si è svuotata ed è tornato l’ordine. Il primo passo è stato perciò quasi frutto del caso.
Nel frattempo, ho iniziato a notare che Alessandro utilizzava per giocare la sua fantasia e alcuni oggetti della vita quotidiana (cucchiai, occhiali da sole, ma anche sassi e bastoncini presi in giardino), oppure oggetti legati al travestimento (il casco da pompiere, la torcia da operaio, lo zaino da esploratore). Non sembrava minimamente dispiaciuto per la scomparsa degli altri giocattoli, anzi lo spazio a disposizione pareva stimolare maggiormente la sua immaginazione. Ma, per il momento, le mie erano solo piccole intuizioni, mentre nel frattempo la vita scorreva e non c’era tempo per pensare a cosa stesse accadendo.
Dopo qualche mese, dalla scuola materna sono arrivati i primi richiami sul comportamento di Alessandro e la maestra ha richiesto una verifica sulla capacità di attenzione e di concentrazione di mio figlio, lamentando il fatto che a scuola si rifiutasse sistematicamente di svolgere le schede didattiche. La nostra psicologa ci ha consigliato di stimolare maggiormente la sua concentrazione con delle piccole attività semplici e rilassanti, come ad esempio la pasta di sale o il didò.
Non ricordo come, ma ad un certo punto cercando su internet ho scoperto i giochi sensoriali (sensory play), ovvero giochi basati esclusivamente sulla manipolazione di materiali poco sofisticati, spesso di origine naturale, come la farina, l’acqua, la schiuma, il riso colorato e la stessa pasta di sale. In quei mesi ero a casa in maternità per la nascita del secondo figlio, perciò ogni giorno riuscivo a preparare un materiale che Alessandro trovava sul suo tavolino al ritorno dall’asilo. L’ambiente, privo ormai di giocattoli, non offriva distrazioni e io cercavo di accompagnare Alessandro alla sua attività e poi di dileguarmi per abituarlo a giocare da solo. Ricordando quello che anni prima mi aveva detto una mia amica educatrice, ho iniziato a circoscrivere ogni attività all’interno di un vassoio o di un contenitore, ad esempio una bacinella, in modo che Alessandro fosse in qualche modo costretto a restare nel confine che gli stavo proponendo. Però non c’era alcun tipo di costrizione, non ero mai io a dire ad Alessandro cosa fare, mi limitavo a fargli trovare il vassoio dove lui poteva vederlo.
Un po’ alla volta, ho inserito anche vassoi con attività di altro tipo, ad esempio carta da tagliare, adesivi da attaccare e così via, non perché mio figlio dovesse imparare qualcosa (anzi, come recita il titolo di questo blog è sempre stato fin “troppo sveglio”), ma piuttosto perché scoprisse il piacere di lavorare soffermandosi sui suoi gesti.
Vassoio del ritaglio
Incredibilmente, la cosa ha iniziato a funzionare. Oltre a gradire moltissimo la manipolazione e la scoperta di questi materiali e ad usarli con creatività, ha iniziato a passare qualche minuto da solo, senza distogliere l’attenzione dal gioco.
Presa dall’entusiasmo di questa scoperta, ho continuato a leggere e a informarmi su internet, venendo poco dopo a a sapere che il mondo dei giochi sensoriali e dei cosiddetti “open ended play” (giochi senza uno scopo preciso, condotti in tutto e per tutto dai bambini e dalla loro fantasia) si intersecava con il mondo Montessori. Non perché li avesse inventati lei, ma perché facevano parte di uno stesso universo, basato sull’osservazione e sul rispetto del bambino piuttosto che sull’imposizione da parte dell’adulto.
Da lì a scoprire e approfondire cosa fosse il metodo Montessori, il passo è stato breve. Ho anche svolto un corso online per genitori, tanto per essere davvero sicura di aver imboccato la strada giusta.
Ma era la strada giusta, più passava il tempo e più me ne convincevo.
Per prima cosa, la cura maniacale dell’ambiente spingeva noi tutti ad essere più ordinati, e l’ambiente meno caotico favoriva non soltanto la concentrazione, ma anche la calma.
Inoltre, avere poca scelta nelle attività da fare induceva Alessandro ad usare maggiormente il materiale che aveva a disposizione, invece di ignorarlo sistematicamente come faceva quando la sua stanza era piena di giocattoli.
Proponendo poche attività o pochi giochi alla volta, e facendoli ruotare spesso, abbiamo iniziato a capire cosa gli piacesse e cosa no, rinunciando ad esempio a fargli fare i puzzle, che, oh sì! ci erano sempre sembrati così intelligenti, ma che proprio non facevano per lui.
Suddividendo le attività per tema (lo scaffale della matematica, lo scaffale dell’astronomia, lo scaffale dei materiali sensoriali e così via), anche Alessandro ha iniziato a classificare i suoi oggetti e ben presto ad essere molto più ordinato, a sistemare i suoi oggetti con cura come non gli avevo mai visto fare. Era come se l’ordine esteriore avesse iniziato a proiettarsi nella sua interiorità, aiutandolo ad organizzare le sue cose anziché lanciarle tutte alla rinfusa.
Scaffale della matematica
Ma il metodo Montessori a casa non investiva solo la sfera del gioco. Gradualmente, abbiamo cambiato i nostri punti di vista e modificato il nostro comportamento, imparando a rispettare i tempi dei bambini.
Nel metodo Montessori, l’obiettivo non è quello di lasciare il bambino libero di fare come gli pare, ma di aiutarlo a sviluppare la sua autonomia. Questo ha significato adottare alcuni piccoli accorgimenti in casa, come ad esempio mettere un piccolo appendiabiti accanto alla porta, far usare ad Alessandro (ed oggi anche al suo fratellino di un anno) uno dei due bidet come un piccolo lavandino alla sua altezza in cui lavarsi il viso e i denti, spronarlo a scegliere da solo i suoi vestiti mettendoli nel cassetto più basso. E anche per strada: aspettare che termini di osservare ogni piccolo dettaglio come piace a lui piuttosto che spronarlo a fare in fretta come piace a noi adulti, e così via.
Bidet usato esclusivamente come lavandino in miniatura
Sono già molti mesi che la nostra casa si è trasformata per accogliere alcuni degli insegnamenti Montessori. Ogni tanto il caos torna a regnare, magari non sempre abbiamo il tempo di predisporre l’ambiente in maniera ortodossa, ma il cambiamento di prospettiva si continua a sentire e continua a dare i suoi frutti, per cui indietro, ormai, non si torna più!