ADHD e farmaci. La scelta più difficile

Ci ho messo quattro mesi a pubblicare questo post. Avrei voluto scriverlo fin da novembre, ma non ci sono riuscita. Forse ora finalmente sono pronta.

Il fatto è che questo è il post più difficile, come la scelta di iniziare la terapia farmacologica per Alessandro è stata la scelta più difficile presa finora.

A fine 2020 la neuropsichiatra che lo segue da quando ha tre anni, la prima che gli ha diagnosticato l’ADHD, mi ha suggerito di iniziare anche un percorso ospedaliero per avere documentazione in più da presentare all’INPS; per avere una diagnosi ancora più accurata di quella fatta nel centro privato e in ASL. E poi, anche, per valutare la somministrazione del farmaco.

Resto di stucco, quello non l’ho davvero messo in conto. Un farmaco, anzi, chiamiamolo con il suo nome: uno psicofarmaco. A un bambino, a mio figlio. Davvero? Ma allora tutti quegli anni di terapia comportamentale, parent training… Ma allora tutti quei miglioramenti… Tutta una menzogna? E gli psicofarmaci non si danno solo nei casi più gravi? Ecco, allora lui è un caso grave?

“Un attimo, non corriamo”. La dottoressa interrompe la catena dei pensieri: “Facciamo valutare all’equipe dell’ospedale, nel frattempo passeranno mesi, lui inizierà le elementari e forse a quel punto il farmaco potrà diventare il nostro asso nella manica, giochiamocela sul momento”.

Quando ti prospettano l’ennesimo cambiamento in una routine che – seppur nelle sue storture – ormai senti come tua, fai sempre tanta fatica ad accettare, almeno questo capita a me. Così per i primi mesi ho continuato a pensare che non sarebbe servito, che probabilmente i medici dell’ospedale mi avrebbero detto che non era assolutamente consigliabile prescrivere uno psicofarmaco a un bambino come lui. Io, però, l’appuntamento l’ho preso, e nel frattempo è passato tutto l’inverno. Era l’ultimo anno di asilo.

In primavera siamo andati alla prima visita, durante la quale la dottoressa ha detto che l’ADHD di Alessandro era conclamato, cioè proprio nemmeno in discussione, ed era di grado severo. In estate inoltrata ci hanno chiamato per i day hospital e per altre valutazioni. Siamo entrati con la diagnosi di ADHD severo, e siamo usciti con diagnosi confermata di ADHD severo, a cui si aggiungevano il DOP (disturbo oppositivo provocatorio), una possibile forma lieve di autismo e una probabile sindrome di Tourette. Ma a parte tutte queste nuove etichette, la cosa più importante, secondo loro, era agire sull’ADHD aggiungendo uno psicofarmaco alla psicoterapia. Ci hanno dato appuntamento dopo altri 3 mesi per eseguire le somministrazioni di prova e trovare il dosaggio giusto per lui.

Ancora una volta, ho usato il tempo che mi era stato dato come un tempo cuscinetto per abituarmi all’idea, passando dal rifiuto iniziale a una posizione più morbida, fatta di “forse”, “vedremo” e “magari smettiamo se notiamo cose strane”.

Iniziano le elementari, le maestre sono brave ma i problemi ci sono lo stesso. Crisi a scuola, noia con attività troppo basilari ma stanchezza con attività troppo lunghe.

I nostri “forse” e “vedremo” diventano “proviamo” e “valutiamo”.

E infine è novembre, il primo day hospital per iniziare la terapia farmacologica. Arriviamo lì che non sappiamo neanche noi cosa aspettarci, forse che una specie di pozione magica trasfiguri nostro figlio. Invece il farmaco è una pillola anonima che lui prende e che apparentemente non genera nessun effetto. Poi passa un po’ di tempo e accade che Alessandro inizi a giocare al tablet senza sdraiarsi a terra o contorcersi sulla sedia. Per tre ore è così, fermo e concentrato sulle sue cose: il tablet, un libro, il suo pranzo. Va tutto bene, può iniziare la terapia anche a casa.

Il dosaggio ottimale non lo si è trovato subito. Non so nemmeno se al momento lo abbiamo trovato. Ma puoi cosa vuol dire “ottimale”. Di sicuro non vuol dire “perfetto”. Di perfetto non c’è nulla, bisogna continuare a vigilare su lui e i suoi stati d’animo, adattare il contesto e le situazioni ai suoi disagi. Di sicuro, però, lui si stanca meno. Quindi, non sempre magari ma comunque spesso, si innervosisce meno. Quindi anche noi siamo nervosi per meno giorni a settimana e tutto gira un pochino meglio. Non dico al top, ma meglio.

Lui non è più calmo, è solo più bravo a incanalare le energie, che sono tantissime proprio come prima. Solo che riesce a utilizzarle in modo un po’ meno dispersivo. Per l’adhd infatti non si somministrano calmanti, ma al contrario stimolanti. Si danno farmaci che stimolano quelle parti del cervello che in un adhd funzionano in modo meno efficace: tutte quelle parti che dovrebbero regolare gli impulsi e che nelle persone con adhd sono meno sviluppate. Questi stimolanti hanno l’effetto di tranquillizzare, e non perché sottraggano energie, ma perché aiutano ad aumentare l’efficienza energetica. È un po’ come passare da una dispendiosa stufa elettrica a un impianto a pavimento: stesso risultato a un costo decisamente inferiore.

Ma torniamo alla vita con il farmaco. Non è andata sempre liscia. Il momento più spaventoso è stato quando ha preso per la prima volta un dosaggio alto e ha iniziato a parlare in modo velocissimo di argomenti che lo ossessionavano. Era andato nel cosiddetto hyperfocus, poi ha avuto una crisi orribile.

Ci sono poi stati tanti piccoli fastidiosi effetti collaterali: le bolle, la nausea, il mal di testa, l’inappetenza, i pensieri ossessivi.

Ogni effetto si è manifestato per qualche settimana e poi è passato.

Ci sono stati i giudizi delle persone intorno a noi, giudizi sempre dettati dalla volontà di fare del bene ad Ale, ma che ci ferivano perché riuscivano a toccare in modo chirurgico le nostre insicurezze.

E poi c’è stato per tutto il tempo quel rumore di fondo fatto di commenti o post sui social o nei gruppi whatsapp, commenti che andrebbero ignorati perché in fondo ognuno ha la sua vita e si racconta la sua verità. Frasi come “Io non darei mai psicofarmaci a un bambino” o “Finché riesci a evitare i farmaci, è meglio”, o anche “Io non ho mai dato il farmaco ma alla fine con tanta terapia le cose sono andate meglio”.

Nessuno, credo, vorrebbe dare uno psicofarmaco al proprio figlio, ma ci sono situazioni in cui ti pieghi a farlo per il bene del bambino. Non perché sia più facile per te genitore, ma perché potrebbe diventare più facile per lui, e anche perché forse nemmeno tu genitore riesci a capire fino in fondo cosa voglia dire vivere con un turbina nel cervello che sta tutto il tempo su di giri, e magari se fossi tu quel bambino e qualcuno ti regalasse un motore più efficiente per gestire i tuoi pensieri saresti felice.

Non è facile decidere che va bene, che darai uno psicofarmaco a tuo figlio. Sembra sempre che con lo psicofarmaco tu ne voglia manipolare l’animo, in un certo senso.

Eppure lo sai benissimo che lo psicofarmaco non manipola niente, e lo sai che in psichiatria a volte i farmaci sono dei salvavita. Lo vedi che, per quanta terapia tu gli faccia fare, c’è sempre quel nucleo che non riesci a scalfire, e lo sai che è lì, in quel nocciolo duro, che si sono aggrovigliati tutti i nodi irrisolti di tuo figlio. Ma al contempo ti chiedi se quel “nucleo” non abbia diritto di esistere proprio come i suoi occhi color nocciola o la fossetta sulla sua guancia, ti chiedi se la sua unicità non stia in fondo proprio lì, in quel lampo di follia che gli vedi balenare negli occhi. E quindi tu che fai, lo vuoi cambiare? E se poi non torna mai più come prima? Se lo guasti?

Il confine è davvero sottile, il cervello è il terreno di incontro tra la nostra biologia, la nostra chimica e la nostra anima. Chi può davvero decidere che lo schizofrenico non vada bene con la sua schizofrenia, che l’ossessivo compulsivo non vada bene con le sue ossessioni e l’adhd non vada bene con il suo motore che gira a vuoto? Alla fine la risposta che mi sono data è questa: se la diversità mentale genera sofferenza in chi è atipico, allora l’atipico ha diritto alla sua pasticca.

Tuttavia, per quante belle cose io mi sia raccontata, il primo giorno in cui siamo stati noi, a casa, a dare la pasticca ad Alessandro, non ho potuto non piangere. Era come se in quella medicina fosse condensata tutta la mia incapacità di risolvere le cose diversamente.

Gli stai dando questo composto chimico perché non sai dargli altro. Perché non basti. Ecco, lo so che è egocentrismo puro, ma mi sentivo insufficiente e incapace. Poi è passata anche questa, come tante altre considerazioni negative che faccio. (“Sei sempre negativa”, mi rinfaccia Federico, che invece soffoca le sue paure con il pragmatismo piuttosto che con il vittimismo come faccio io).

Quei pensieri lì sono passati e la pasticca è diventata routine. Chi ha tempo per crearsi più problemi di quanti non ce ne siano già?

E poi, finalmente, abbiamo iniziato a contare anche gli effetti benefici. Quelle volte che a scuola è riuscito a lavorare più a lungo, o che a casa ha letto un libro per più di un’ora, o che è stato paziente in fila alle Poste.

Ma ci sono state occasioni terribili in cui la maggiore capacità di concentrazione lo ha portato ad annoiarsi ancora più facilmente e a reclamare continui stimoli.

Le sue crisi, più che in passato, dipendono ora dalla noia.

“Mi avete aiutato a concentrarmi, ma ora su cosa mi concentro?”.

Non dimentichiamo, infatti, che è anche un bambino plusdotato. Non si accontenta di una palla e di una bici. Con il farmaco più che mai, va in cerca di esperienze gratificanti e grandiose che lo assorbano, di avventure esaltanti di cui lui sia il protagonista. E non è semplice, per noi, offrirgli una vita che sia al tempo stesso soddisfacente ma tranquilla, routinaria ma emozionante, accogliente ma ogni giorno diversa. Non è semplice e nemmeno lo vogliamo sempre, perché vorremmo anche che lui imparasse a stare nella sua noia. Ma lì arriva la crisi, che ci sottrae tempo, energie, che rompe, che travolge, che influenza il fratellino il quale, il giorno dopo, inizia a imitare il fratello maggiore.

Un gran casino.

Io oggi non lo so se il farmaco è la nostra strada. Sto ancora setacciando i miei pensieri per separare il pregiudizio dalla valutazione oggettiva, il senso di colpa dal senso di responsabilità.

Ma intanto stasera ho finito di scrivere questo post e tra poco lo pubblicherò, sebbene mi faccia paura sapere che dirò a tutti che mio figlio prende uno psicofarmaco. Ci sono casi però in cui la paura esige di essere presa a schiaffi affinché non si incancrenisca.

Quando avrò cliccato su “Pubblica”, sarà come in quei sogni in cui sei nudo davanti al pubblico, ma sarà anche come svegliarsi dopo quei sogni e scoprire con sollievo che la vergogna la provavi tu da solo. Non c’è nessun pubblico, e anche se ci fosse un pubblico, dopo resteresti sempre e comunque tu con i tuoi problemi, insomma al pubblico sai che gliene frega di te. Ma ti ritroveresti anche più vera e forse più leggera per esserti cancellata dalla fronte il marchio che, tu da sola, ti eri impressa.

Dalla psicomotricista

Oggi ho portato Alessandro dalla psicomotricista. Finora ce lo aveva sempre portato mia madre, perciò per me era la prima volta. Lui era così emozionato per il fatto di avermi lì (e per il costume di Halloween che indossava) che ha voluto che entrassi in stanza. Così ho assistito a tutta la terapia.

La dottoressa (un altro dei tanti incontri fortunati della nostra vita) gli ha proposto una serie di giochi incentrati sul meccanismo: input-controllo dell’impulso-ricompensa.

Esempio: lei era in piedi su una sedia e lui in piedi in un cerchio appoggiato sul pavimento. Lei faceva cadere un piccolo ritaglio di fazzoletto e lui, durante la lieve e lenta caduta del pezzo di carta, doveva restare immobile. Appena il fazzoletto toccava terra, lui poteva uscire dal cerchio e scatenarsi in mosse ninja. Tutto ripetuto per dieci volte. Alla fine dell’esercizio, lei gli ha detto di sedersi per mangiare le patatine e gli ha messo davanti una patatina alla volta, con molta calma, fino ad arrivare a 10, chiedendogli di non toccare nulla finché lei non avesse finito. Lui, fremendo con tutto il corpo (e limitandosi ogni tanto solo a leccare una patatina per poi rimetterla giù), ha saputo aspettare prima di iniziare finalmente a mangiare.

Lo stile della seduta è stato questo.

Io ho osservato tutto dalla mia sedia. Lui, di tanto in tanto, si girava con una sguardo d’intesa, visibilmente felice della mia presenza.

È stato molto bello percepire il suo impegno, i suoi sforzi. Sta facendo un percorso bellissimo, sta davvero sfidando se stesso con tutte le sue energie. Vedere il suo piccolo corpo faticare nell’immensa missione di cambiare alcune sfumature della sua anima mi ha colpito. Ho pensato a quanto sia difficile, anche per un adulto, cambiare strada e prendere una direzione che va contro la sua natura, persino quando la sua natura lo fa stare male.

Lui lo sta facendo, sotto forma di gioco, vero, ma lo sta facendo.

Il mondo fuori da quella stanza era un mondo di bambini all’asilo, o a casa con le loro famiglie. Lui invece era lì, a lottare.

Le mamme fuori da quella stanza pensano al colore dei quaderni, al regalo di Natale per la maestra, a quella signora che accompagna il figlio in minigonna e che attira gli sguardi dei papà. Invece io ero lì a guardare lui lottare, e ne ero fiera. Ho anche mandato giù un fiotto di pianto, lo ammetto, perché mi fa tenerezza vedere il suo sforzo, perché percepisco che sta giocando ad un gioco molto più grande di lui.

L’altro ieri si è svegliato e mi ha detto di aver fatto un sogno.

“Mamma, sono stanco, ho dormito male. Stanotte ho sognato di lottare contro me stesso.”

Ha ragione, il suo inconscio glielo ha detto con chiarezza. Ma io sono con lui, ce la posso fare.

Quando abbiamo deciso di andare dalla psicologa

Dopo ben due anni di colloqui con Letizia, la nostra psicologa di famiglia, ho scoperto che il percorso intrapreso si chiama parent training. Un nome interessante e sicuramente più alla moda per dire “supporto alla genitorialità”. A me piace dire semplicemente che andiamo dalla nostra psicologa, ma io sono all’antica.

In questi 4 anni alle prese con un bambino impegnativo (e anche, perché non dirlo, con la nostra inesperienza), abbiamo fatto tantissimi incontri fortunati. Persone che ci hanno dato un punto di vista autorevole sulla nostra situazione, persone che hanno mostrato empatia nei nostri confronti, che hanno cercato di non farci sentire soli. Letizia è stata uno di questi incontri fortunati.

Ecco come è andata.

Attorno ai 2 anni e qualche mese di mio figlio, ho iniziato ad avere il sospetto che i suoi capricci non fossero esattamente nella norma. Ok i “terribili due”, ma vederlo urlare, lanciare oggetti e picchiare la sua mamma anche per tre ore di fila, prima di crollare tramortito, forse denotava qualcosa di più di “un bel caratterino”.

Dopo qualche mese di inutili ricerche sui forum, di inutili letture di libri di pedagogia e di inutili richieste di consigli a chiunque sembrasse interessato a darmene (penso di aver chiesto lumi anche alla gente in fila al supermercato, in quel periodo), ho deciso che ne avevo abbastanza. Mi sentivo frustrata, sola, una mamma fallita. Ho persino dato la responsabilità al mio lavoro, decidendo di prendere qualche giorno di congedo parentale per passare più tempo con lui e sentirmi meno in colpa. Ma niente sembrava portare alla svolta che desideravo. Alessandro manifestava un disagio che non riuscivo bene a capire e ad accogliere. Spesso i suoi atti di insubordinazione – perché più di qualche volta erano solo questo: sfide alla nostra autorità – finivano con la domanda ansiosa: “mamma, sei felice?”. Ci leggevo tanta sofferenza per un comportamento che tuttavia gli risultava davvero inevitabile. Lo vedevo agitarsi per qualcosa che aveva dentro e non riusciva a tirare fuori.

Stop, mi sono detta. Parliamone con qualcuno. Ho richiesto un colloquio al nido e l’educatrice ha gettato alcuni fasci di luce su mio figlio. Ha accolto me e Federico, ci ha fatto sedere su due sedioline basse e ci ha raccontato chi fosse Ale al nido. Un bambino eccezionalmente sveglio, davvero avanti, con qualche piccola difficoltà a capire i ruoli. “Crede di essere un adulto, anzi lo dice proprio: io sono l’adulto e decido le regole”. Ci disse anche che faceva fatica ad entrare in relazione con i coetanei e che era infastidito quando qualche bambino invadeva il suo spazio. Ci consigliò di migliorare nella nostra capacità di contenerlo e ci diede un numero di telefono. Era il numero di Letizia.

Il colloquio con l’educatrice del nido è stato importante per due ragioni. Ci ha permesso di entrare in contatto con Letizia, questa la prima ragione. La seconda è che in quell’occasione Federico ha finalmente preso coscienza del “problema”. Problema è un termine forse esagerato, diciamo che ha capito che i capricci di Alessandro erano di un’intensità un po’ superiore alla media e che dovevamo imparare a gestirli meglio per consentire a nostro figlio di crescere in maniera armoniosa.

Ma Letizia resta la ragione più importante, perché è stata lei a darci gli strumenti per uscire dal vortice che si era creato intorno a noi (capriccio-punizione-frustrazione-altro capriccio).

Dopo il primo colloquio, ha inquadrato subito la situazione: ci trovavamo di fronte ad un bambino molto dotato e per questo impegnativo. Un bambino con una grandissima energia che andava incanalata e contenuta, evitando che diventasse distruttiva. Un bambino con delle antennine sempre in ricezione, che a volte andava in confusione per questo eccesso di stimoli e informazioni. Il nostro compito era di fare meglio e senza tentennamenti quello che in fondo avevamo cercato di fare fin dalla sua nascita: adattarci a lui cercando al contempo di dargli alcune regole granitiche. Poche ma buone. Sempre le stesse e molto semplici. Alla fine, i comandamenti davvero importanti erano solo tre:

  1. Noi siamo gli adulti, tu sei il bambino
  2. Non si picchia: è inaccettabile
  3. Non si lanciano gli oggetti: è inaccettabile

Tutte le altre regole minori della nostra casa sarebbero rimaste: lavarsi le mani, lavarsi i denti, mettere a posto, mangiare a tavola, ma ci si poteva arrivare per vie traverse, ad esempio attraverso i complimenti al bambino. Diciamo pure che la buona educazione non costituiva un problema. Alessandro è sempre stato molto attaccato alla routine, per cui muoversi all’interno di un piano di regole prestabilite di quel genere non ha mai rappresentato un problema. Il punto di rottura veniva raggiunto invece quando perdeva il controllo e la calma (per un motivo qualsiasi, dal salmone non di suo gradimento all’assenza del suo cartone preferito) e diventava aggressivo e provocatorio nei confronti di chiunque gli capitasse a tiro, in particolare noi genitori. Significava che, in una fase di stanchezza, poteva picchiare un bambino senza motivo, oppure lanciarmi i suoi giocattoli. E se veniva sgridato per il suo gesto, poteva continuare a farlo ancora e ancora, senza nessun limite, senza provare nessun tipo di dispiacere o timore di fronte al rimprovero o alla punizione. Ma rimproverarlo e punirlo era l’unica strada che conoscevamo. Non funzionava, ma non avevamo altra scelta. Se nostro figlio sbagliava dovevamo intervenire come avevamo visto fare centinaia di volte ai nostri genitori o ai genitori di tutti gli altri bambini, sgridando e punendo. Solo che non funzionava, dannazione.

Letizia ha spezzato questa catena. Ci ha spiegato che il nostro atteggiamento sereno poteva trasformarsi in un argine all’energia vulcanica del nostro bambino, per cui la cosa più immediata da fare, di fronte alle esplosioni di lava e lapilli, era di ritrovare la calma, di “sentirsi calmi”, nel profondo.

Altra cosa da fare: avremmo dovuto tendere le mani avanti, impedendo al bambino di colpirci e spiegando che le botte sono inaccettabili. Non serviva a nulla fuggire di fronte alle sue botte (come avevo fatto io, chiudendomi in bagno solo per essere inseguita da un incontenibile bamboccio forzuto di 2 anni), né stringerlo forte per aiutarlo a ritrovare il suo limite (come aveva fatto Federico dopo averlo letto in un libro). Non serviva fingere che non esistesse, né minacciarlo di buttargli i giocattoli (quante finte buste della spazzatura ho preparato, in quei mesi…). Bisognava restare calmi, schermarsi con le braccia in avanti e provare a restituirgli un’immagine delle sue emozioni, in modo che riuscisse ad elaborarle: “Lo vedo che sei arrabbiato, è successo qualcosa?”.

Il cambiamento è stato immediato, nel giro di un mese la situazione è migliorata tantissimo sia a casa che al nido. Probabilmente è bastato ritrovare la fiducia nel nostro ruolo per far sentire anche il bambino più al sicuro, meno esposto ai suoi accessi d’ira. Nel frattempo, Letizia ha continuato a darci delle strategie di sopravvivenza, senza mai dimenticare di sottolineare come fossimo fortunati e al tempo stesso messi alla prova dall’intelligenza e dall’indole ribelle di nostro figlio. Sapere che qualcuno riconosceva il carattere eccezionale, fuori misura dei nostri sforzi era per me immensamente liberatorio. Però la psicologa non dimenticava mai di sottolineare che un bambino pone sempre e comunque delle sfide ai genitori, perciò non eravamo da compatire, dovevamo solo imparare a gestire meglio il bambino che era capitato a noi.

“Io sono affascinata da Alessandro”. Quante volte le ho sentito dire questa frase. Nei momenti peggiori, quando mi sembrava di avere a che fare con una piccola belva, le sue parole mi riportavano sulla terra e mi facevano sentire una privilegiata, anziché una condannata a vita.

Più di una volta le ho chiesto se per lei noi avevamo sbagliato qualcosa nell’educazione. Più di una volta mi ha risposto che il carattere di nostro figlio andava accettato per quello che era. Al massimo avremmo dovuto imparare a fargli accettare le regole e i ruoli, ma non in maniera autoritaria, bensì con empatia e qualche trucchetto.

Un altro grande insegnamento è stato che i figli ti mettono nella condizione di mutare continuamente, con passi avanti sempre seguiti da passi indietro, dai quali non bisogna farsi scoraggiare. Per me, abituata a ragionare per liste di cose da depennare e obiettivi da raggiungere e poi definitivamente archiviare, accettare questo cambiamento di prospettiva non è stato semplice. Ma credo di esserci riuscita.

Sono ormai passati due anni, le strategie nel frattempo sono cambiate. Le braccia tese in avanti non funzionano più, Alessandro ha imparato a girarmi intorno e colpirmi alle spalle, ma riesce sempre più spesso a fermarsi prima ancora di picchiare. Gli oggetti non li lancia quasi più. A volte va in escandescenza e ci fa andare anche me, a volte riesce a trattenersi da solo e io vorrei piangere di gioia. A volte non riesce a fermarsi ma riesco a farlo fermare io, a volte non ci riesco e piango per la frustrazione. Non è un viaggio con un inizio e una fine, è un percorso che cambia di continuo e noi tre siamo i viaggiatori, anzi noi quattro ora che c’è il fratellino.

Letizia adesso la vediamo molto meno, ma sapere che il suo studio esiste e che possiamo andare da lei in qualsiasi momento, o anche solo chiamarla per aggiornarla sulle nostre cronache familiari, spesso basta a tranquillizzarmi.

Siamo nel guado della diagnosi di un disturbo del comportamento e dell’attenzione e passeranno ancora mesi prima che arrivi un risultato certo. Abbiamo avuto un orribile anno scolastico, durante il quale la scuola materna non solo non ha aiutato, ma anzi ha peggiorato la situazione facendo emergere alcuni tratti della personalità di Alessandro che credevamo ormai di aver archiviato. La nascita del fratellino ha fatto saltare tutti gli equilibri e ho passato momenti orribili, a casa con il neonato e un bambino di 3 anni in piena ebollizione.

Ma oggi la situazione in famiglia è serena. Alessandro è gestibile, sta maturando, non smette di sorprenderci con il suo acume e la sua sensibilità. Lui, che è estremamente competitivo, ieri ha pianto perché la mia pedina era stata retrocessa alla casella 1 durante una sfida al gioco dell’oca. La scuola è andata malissimo, ma lo stiamo spostando e sono fiduciosa. La gelosia per il fratellino è acqua passata. Non c’è perfezione, ma i giorni positivi sono tanti almeno quanto quelli negativi. Il merito è anche della nostra psicologa di famiglia, che ci tiene per mano e che rispetta i nostri tempi. Perché è stata lei ad insegnarci che a volte bisogna rispettare i tempi che la vita ti mette di fronte, aspettando che le cose evolvano. Ecco un altro suo dono prezioso: ci ha insegnato ad affrontare la vita abbandonando il tempo degli adulti, lineare e progressivo, ed accogliendo invece il tempo dell’infanzia, circolare e mai schematico, ma incredibilmente ricco.