Si fa presto a dire #iorestoacasa

Oggi ho letto in un gruppo social di genitori di bambini ADHD che la Regione Veneto ha concesso alle persone con alcuni tipi di diagnosi psichiatriche di allontanarsi da casa entro il raggio dei 200 metri. Non ho ancora verificato la fonte e non conosco i dettagli, ma non mi sembra affatto una cosa priva di senso. La cattività tra le mura domestiche non fa bene a nessuno, ma è ancora più dannosa per chi è instabile, incline alla paranoia o alla depressione, così come per gli iperattivi. E per le loro famiglie, aggiungo io.

Infatti nel gruppo molti genitori ne parlavano come di una benedizione, perché in caso di crisi dei figli avevano la possibilità di farli uscire e di farli camminare per qualche metro, ristabilendo un equilibrio che altrimenti sarebbe stato assai difficile da ritrovare.

Come tutti, anche noi siamo in casa da tre settimane e mezzo. In queste lunghe giornate non mi sono annoiata, non ho dovuto cercare ispirazione guardando le dirette social dei vip, non ho potuto rinfrescare tutte le stanze. Chi sta lavorando da casa come me, oppure chi non sta lavorando ma si ritrova in casa con dei bambini lo sa benissimo: la noia è un lusso ormai dimenticato. Io però temevo moltissimo questa reclusione, avevo paura che rompesse il sottile guscio in cui mio figlio Alessandro aveva finalmente trovato un embrione di equilibrio.

Da un giorno all’altro, niente più scuola con la nuova insegnante di sostegno che aveva appena iniziato ad allacciare i fili di un legame di reciproca fiducia, niente più terapia due volte a settimana con una dottoressa che ormai è un punto di riferimento per lui e per noi, niente più nonna, una figura centrale per Alessandro, il suo rifugio sicuro.

Retorica familista

Forse adesso siamo già troppo stufi, ma all’inizio era tutto un fiorire di “approfittatene per stare con i vostri bambini” e “quanto è bello avere finalmente tempo per i figli”. Io non mi sono unita al trenino della retorica familista, perché per quanto ovviamente anche io fossi contenta di passare delle ore con i bimbi, la verità è che penso che la famiglia non basti.

Non basta a nessun bambino, e soprattutto non basta a un bambino che ha bisogno di aiuti speciali proprio per imparare a vivere fuori della sua famiglia. Senza rete non si sopravvive. Se la rete la devi costruire a fatica, e ti si strappa di continuo, e tu ogni volta la ricuci pungendoti le dita, la paura di restare ancora una volta senza ti può davvero far sentire come se ti stessi scontrando contro un muro.

Ma oltre a questo ho fatto un altro pensiero: perché dovrei essere finalmente felice di godermi i figli? Non me li sarei goduti fino a oggi? E dov’ero, allora?

No, mi dispiace, ma non ci casco. Sono quello che sono, e le scelte che ho fatto e che faccio non hanno sottratto niente ai miei cari, perché se è vero che sono per molte ore al giorno lontana da loro, penso di dare tutto ciò che posso, con una presenza emotiva che non si misura in giri di lancette. Io, oggi, penso davvero di non poter dare più di quel che do, per tutti i pensieri che ho fatto, per tutte le parole che ho detto, per tutti i bocconi amari che ho mandato giù e tutte le piccole vette che ho conquistato. E se anche ci fosse qualcosa in più da dare, non sarebbe alla mia portata, perciò è come se non esistesse.

Nota:

Potrei estendere il discorso a tutti gli altri filoni che ho visto diffondersi in questi giorni: “ho avuto finalmente il tempo di pensare”, “ho avuto finalmente il tempo di leggere”, “ho avuto finalmente il tempo di scoprire chi sono”. E quindi? Quando questo tempo non lo avrai più, cosa farai? Ti perderai di nuovo? No, essere presenti a se stessi è un dovere che non può essere legato alla quantità di tempo che hai a disposizione.

Se ti sei perso di vista, forse devi chiederti perché prima di gioire del fatto che qualcuno ti abbia finalmente incatenato di fronte a uno specchio.

E chiudo qui, altrimenti vado fuori tema e sembro pure cattiva.

Tante piccole vittorie

Il pensiero della quarantena in casa con mio figlio iperattivo e con il fratellino più piccolo mi atterriva, è vero, ma sta andando meglio di quanto credessi.

Abbiamo trovato un nostro modus vivendi e andiamo avanti nonostante le ripicche tra fratelli (di routine in tutte le famiglie) e alcuni episodi critici (di routine nella nostra famiglia). Ma le crisi sono sempre circoscritte, non durano più intere giornate come accadeva fino a tre o quattro mesi fa.

Un po’ siamo noi ad aver imparato a ignorare, a dare meno peso, a gestire, a levare di torno in meno di un minuto tutto ciò che potrebbe venir lanciato, a dire la frase giusta al momento giusto, a prevedere l’arrivo del ciclone e a sviare prima che sia tardi, a non chiedere mai troppo, a non volere troppo. E la sera, quando alla fine siamo solo io e il papà sul divano a contare i cocci della giornata, quante pacche sulle spalle ci diamo, per dirci che siamo stati bravi, per consolarci, per assolverci a vicenda di tutte le volte che invece abbiamo perso le staffe. Anche questo riuscirsi a ritrovare ogni sera lo abbiamo dovuto imparare, vincendo quell’impulso distruttivo che ti farebbe venir voglia di dare fuoco a tutto il mazzo di carte ogni volta che il castello crolla.

Ma il merito più grande va a lui, Alessandro, che sta lavorando tantissimo e che lo dimostra ogni giorno con tante piccole vittorie prima impensabili.

Una settimana fa, ad esempio, stava saltando sul letto in preda all’euforia, e sempre in preda all’euforia mi ha mollato un cazzotto dritto su una delle lenti dei miei occhiali. Sono passati 6 giorni e mi fa ancora male il naso, questo solo per dire quanto il colpo fosse forte e ben assestato. Colpa mia: so benissimo che lui, quando prova un’emozione troppo forte, si sfoga fisicamente e picchia, perciò avrei dovuto contenere l’euforia in qualche modo, oppure allontanare la mia faccia. In quel momento, però, mi sono arrabbiata tantissimo, scatenando di conseguenza la sua ira, che di solito aumenta in maniera esponenziale quando si sente in colpa e quando capisce di aver fatto qualcosa di inaccettabile, per giunta contro la sua stessa volontà.

Ma proprio quel giorno è accaduto qualcosa di bello. Io, passati i primi minuti, ho deciso di dirgli che andava tutto bene e che non ero arrabbiata perché avevo capito che non l’aveva fatto apposta (quanto mi è costato farlo, dirglielo e soprattutto convincermene!). Lui non ha dato in escandescenze, ha solo manifestato in modo forte la sua rabbia per una decina di minuti per poi – qui sta il miracolo – tornare su emozioni più contenute e gestibili.

E alla fine, ciliegina sulla torta, ha aperto con me l’argomento (ed è una cosa che non fa mai, di solito torna sul tema dopo qualche mese per spiegare finalmente la sua versione dei fatti): “Mamma, sono uno stupido, perché ti ho dato un cazzotto.” E lì giù a dirgli che non è uno stupido, ma che ha solo fatto una cosa che non si doveva fare. Pianti, qualche timido abbraccio, qualche resistente bacetto prima di tornare a dare pugni, questa volta ad un punching ball strategicamente fatto apparire in giardino.

Forse è una banalità, forse è il minimo che un genitore vorrebbe sentirsi dire dopo aver ricevuto un pugno in faccia, ma per me quelle parole sono state tutto ciò di cui avevo bisogno.

Sta iniziando a regolare il suo comportamento. Non sa ancora fermare quel pugno, forse imparerà, forse proprio non ci riuscirà mai. Ma riesce a fermare quello che viene dopo. Sono così fiera di lui.

Quindi come va a casa?

Ecco, chiarito che a me di stare a casa a fare torte di mele interessa meno di zero e che per me l’interesse primario è che Alessandro riceva le terapie che lo stanno aiutando a crescere, a casa si sta meno peggio di quanto credessi.

Ma questo non cambia di una virgola il mio pensiero: per quanto sia bello stare con mamma e papà, nessuno può fare a meno del contesto sociale, della sua rete. E non basta la didattica a distanza, non bastano i lavoretti, non basta il sorriso di chi ti ha messo al mondo, perché questi bimbi il mondo lo devono vivere e calpestare, ne hanno il diritto.

Non parliamo poi dei bambini che a casa non hanno proprio nessun sorriso, perché magari vivono in contesti violenti o chissà di che altro tipo. Ma a loro qualcuno avrà pensato?

E per quanto riguarda i bambini con bisogni speciali, la quarantena non può che essere una breve parentesi, perché le famiglie sono indispensabili, questo è vero, ma hanno bisogno di supporto, altrimenti il danno può diventare immenso. Io stessa mi chiedo: alla fine di questa fase, avremo fatto passi indietro rispetto al terreno così faticosamente conquistato? Dovremo ricominciare da zero?

Le preoccupazioni sono tante, perciò se qualcuno, in Veneto o altrove, si è posto il problema e ha deciso almeno di concedere 200 metri di libertà, non riesco a non vederlo come un gesto di grande sensibilità verso una realtà che spesso passa sotto traccia, invisibile e difficilissima da spiegare. 

Cronometro, mon amour

Tempo. La variabile tempo è sempre stata la più importante e difficile da gestire nel rapporto con mio figlio. Fin dalla nascita, quando voleva uscire prima, e poi infatti ci è riuscito. O come quando, ancora neonato, sbagliavo l’ora della pappa, e allora erano guai. Ma non guai normali, bensì guai che ci facevano fermare nel bel mezzo di una strada di montagna (true story), solo le mucche a farci compagnia, per preparare in fretta e furia qualcosa.

In fretta e furia. Ecco, se fosse per Alessandro, tutto sarebbe sempre in fretta e furia. Normale: è iperattivo.

Ma non sempre va bene. Tralasciamo i problemi in fila al supermercato (a proposito, ho scoperto che quando avrò la diagnosi della ASL avrò diritto alla fila prioritaria), o la difficoltà in quei tre minuti con il cappotto davanti alla porta aspettando di poter uscire (la nostra maniglia si è rotta in una di queste occasioni), o gli oggetti lanciati in macchina quando c’è traffico (stamattina sono stata colpita da una pallina).

Non va bene perché è indice di un ritmo che non funziona correttamente, un ritmo che, indipendentemente da quello che accade, o dall’umore, o dal contesto sociale in cui ci si trova, è sempre accelerato. Come avere una macchina senza freni. Ok, corri e arrivi prima, ma ti schianti o vai nel pallone.

Comunque ho capito che dettare il ritmo è uno dei miei compiti con Ale. Dare il ritmo, segnare il battito, tum tum tum, un due tre. È un grandissimo aiuto per lui. In questo compito, mi viene in soccorso il cronometro, che è diventato ormai una mia appendice.

Senza sapere bene perché lo facessi, lo utilizzavo anche quando aveva un anno e mezzo per aiutarlo a mettere a posto i giochi senza che si perdesse in altre attività. Gli davo un countdown e lui si attivava bene.

Oggi, grazie alla neuropsicomotricista, so che il metodo del cronometro con lui è molto efficace perché lo aiuta a concentrarsi sull’obiettivo senza andare in confusione. Ti dico cosa fare, ma ti dico anche in quanto tempo lo devi fare. E tu lo fai, rassicurato da un confine temporale che è stato contrattato, è chiaro, non può riservarti sorprese.

In più, ti dico anche a che ritmo farlo, quindi ti aiuto a rallentare se vedo che corri troppo, o ti riporto sull’attività se vedo che te ne vai per i fatti tuoi.

Perché è importante? La neuropsicomotricista mi ha spiegato che più si allena a concentrarsi e a tenere un tempo, più il suo cervello impara ad attivarsi nella maniera corretta (quindi senza crisi e senza lasciarsi iperstimolare da altro) sulle sue “consegne”. Oggi sono giochi. Domani saranno le lezioni a scuola, il lavoro, le responsabilità della vita di un adulto.

Perché tutto questo funzioni, è necessario che le sue “consegne” siano brevi, durino al massimo cinque minuti. Anche il rinforzo positivo, cioè in soldoni il premio, può essere scandito dal tempo, in modo che il bambino non si perda nella sua ricompensa, che di solito nel nostro caso è un cartone animato, e non entri in crisi quando è il momento di ricominciare a “lavorare”.

Da qualche mese a casa nostra è tutto un “Se dico ROSSO ti vai a lavare le mani, se dico BLU ti fermi, poi dico ROSSO e ricominci. Alla fine, vedi i cartoni per due minuti. Alexa, imposta un timer di due minuti…”

Nessuno ti verrà a salvare

Poco prima di Natale, un’altra piccola delusione dalla scuola. L’insegnante di sostegno privata di Alessandro, da un giorno all’altro e senza preavviso, ha lasciato il lavoro. Avrà avuto le sue motivazioni personali, ma ci sono mestieri che hanno a che fare con il benessere di altre persone e, ecco, in quei casi non è che si possa sparire senza nemmeno un saluto, senza preparare il bambino, senza trovare un’alternativa.

Al momento, a un mese e mezzo di distanza, non abbiamo ancora nessun sostituto e le maestre della scuola si stanno alternando per supplire al disservizio. Per fortuna, le vacanze di Natale ci hanno messo una toppa, ma cosa succederà da qui a giugno è ancora un mistero.

La cosa bella è che non mi importa. Davvero, non mi importa. Qualunque cosa succeda, la affronteremo come abbiamo fatto finora. Imprevisti, cose brutte, ma anche belle sorprese: vediamo che accadrà, ci penseremo a tempo debito. Tra neuropsicomotricità, parent training e mille sfide da affrontare ogni giorno, credo che stiamo già facendo tutto il possibile, il resto dovrà fare il suo corso.

Soltanto tre settimane fa, invece, avevo il morale sotto le scarpe. La maestra di sostegno aveva appena abbandonato la nave, le maestre ordinarie erano completamente nel pallone e mi chiamavano ogni giorno per raccontarmi cosa accadeva a scuola, a casa la situazione stava di nuovo peggiorando.

Finché, una sera, Daniele mi ha detto qualcosa di semplice e disarmante che ha cambiato totalmente il mio modo di vivere la situazione.

Daniele è un mio amico. L’ho conosciuto a 16 anni, ci siamo persi e ritrovati diverse volte senza mai smarrire l’affetto reciproco. Adesso lui vive in Germania con la sua famiglia e, viva Whatsapp, lo sento molto più spesso di quando viveva a Roma.

Dopo aver ascoltato uno dei miei interminabili messaggi vocali con gli ultimi svolgimenti della storia, anche lui mi ha mandato un messaggio audio piuttosto lungo, in cui mi diceva di voler ribaltare il mio punto di vista.

“Lo sai, La’, tutta ‘sta situazione è assurda, ma io te la voglio far vedere così: è assurda? Va bene, te ne fai carico, ma la prendi per quella che è, perché tanto è così. Sì, ci sei rimasta male di quella del sostegno andata via, e ti dispiace che nessuno si assuma la responsabilità di questa situazione, ma tanto è così.

Nessuno ti verrà a salvare.

Non possiamo aspettare che arrivi qualcuno, ci faccia una carezza sulla guancia e ci dica che risolverà la situazione, perché ‘sto mondo non ha spazio per i deboli, non ha spazio per bambini e anziani normali, figuriamoci per quelli con necessità speciali.”

(E vabbè, Daniele, per poter essere mio amico, non poteva che essere profondamente polemico e anti-sistema. Ora però riprendo il racconto).

“Adesso ci siete tu, Federico e i bambini; voi dovete affrontare la situazione, così come state già facendo e senza aspettarvi niente da nessuno. Poi mi dici che non vedi soluzione, ma la soluzione non la devi nemmeno cercare, la soluzione arriverà da sola, un giorno, semplicemente seguendo la vostra strada, che a me sembra giusta e che magari correggerete quando ce ne sarà bisogno. Come la maratona, La’…”

(Sì, sempre Daniele, per poter essere mio amico, non poteva che essere sportivo e/o competitivo. Un attimo di pazienza che concludo).

“La maratona è quella cosa che a un certo punto ti fa pensare ‘Ma chi me l’ha fatto fare?’, ma è solo perché sei a metà e sei stanco, allora ti devi concentrare sui tuoi passi, sulla strada, non pensare più all’arrivo, finché al traguardo non ci arrivi davvero. La maratona è la strada, non è mica il traguardo, che ti credi. Che poi è pure giusto, perché se pensi solo all’arrivo che fai? Ci arrivi, ok, e poi? Come la settimana, che uno arranca arranca arranca, arriva la domenica, poi però è subito di nuovo lunedì. No, bisogna guardarsi i piedi mentre si va avanti e quella è già la vita, non ciò che verrà dopo come ricompensa.”

Oh, davvero, non so perché. Non che prima queste cose non le sapessi o non le pensassi già, però non riuscivo a farle mie. Invece, dopo le sue parole, mi sono fatta un ultimo piccolo pianto e poi ho smesso. Ho ripreso qualche giorno dopo, certo, non sono mica un robot, ma ora è diverso, mi sento più forte. Pronta ad affondare il tallone nel cemento, centimetro dopo centimetro e, davanti agli occhi, un obiettivo “micro” per zoomare tutto al massimo e non perdermi nemmeno un dettaglio del meraviglioso fango in cui avanzo.

Una giornata difficile

Questa giornata inizia con una piccola crisi nel solito marasma mattutino. Al momento di attaccare la “programmazione” sulla porta di casa (dei disegni stilizzati di tutto ciò che Alessandro farà durante il giorno; è un’abitudine che lo rassicura molto), dimentico di attaccare la figura della nonna prima di quella della psicomotricista.

“Mamma”, inizia a urlare. “Ti sei dimenticata nonna prima di Raffaella. Perché?”. La voce è strozzata dalla rabbia. “Perché? Prima di Raffaella c’è nonna, è lei che mi porta da Raffaella! Voglio strappare quello stupido disegno sbagliato!”.

Io tampono, ma ormai la crisi è partita. “Ecco, Ale, ecco nonna, la metto qui, prima di Raffaela!”. Lui si butta a terra, io lo ignoro. Fingo di mostrare al fratellino qualcosa; Ale si incuriosisce, si distrae, si ferma. In qualche modo, riusciamo ad uscire di casa.

Alle 10 sono in ufficio già da un’ora. Mi arriva una chiamata dalla scuola. Sono abbastanza tranquilla perché in quel momento Alessandro non è a scuola, è a psicomotricità. Sarà qualcosa di burocratico. Richiamo e la responsabile della scuola mi dice che il giorno prima è successo di tutto. Lui non vuole più dormire di pomeriggio perché ormai ha 4 anni e mezzo, è fisiologico. Ma la maestra di sostegno va via alle 13 e le ore del pomeriggio non possono essere affrontate se lui non va a dormire. Ne va della sua serenità, ne va della serenità della classe. La responsabile mi chiede di valutare di farlo uscire prima un paio di volte a settimana. Io rispondo di sì, penso che mia madre mi potrà aiutare anche questa volta. Mi sento in colpa, è vero, ma che scelta ho? Un giorno la ripagherò di tutti questi sacrifici, mi dico. Anche se un figlio non potrà mai ripagare del tutto un genitore, adesso lo so.

Sono le 10 e sono stanca come se fossero già le 23. Alle 11 arriva il messaggio della responsabile della scuola: “Ciao mamma, la nonna non riesce a far entrare Alessandro. Sono tutti e due qui fuori e lui continua a scappare. Non so se sia il caso di farlo stare a scuola oggi…”

Chiamo mia madre e mi dice che in effetti se l’è riportato a casa. Non è riuscita a convincerlo, non c’è stato verso. Tutto è nato da una sua arrabbiatura nello studio della psicomotricista, dopo la quale non si è più calmato. “Va bene”, le dico, “esco prima e ti raggiungo, così puoi andare a fare quella tua visita.”

Lo trovo seduto su una poltrona con due occhiaie profonde, un po’ frastornato. Lo porto a casa (altre piccole crisi, subito sedate), penso di andare magari a fare una passeggiata ma piove, lo vedo stanchissimo, io stessa mi sento svuotata, vorrei che fosse già notte, ma sono solo le 15. Trascorriamo il tempo facendo un ciambellone, in qualche modo la sera arriva.

Decide di mandare un messaggio vocale al papà. Incredibili le sue parole, tanto che non ho ancora deciso se sono di reale pentimento o solo estremamente furbe.

“Papà io oggi non sono andato a scuola, sono rimasto con nonna. Non sono andato perché ero ancora arrabbiato con Raffaella e avevo paura di fare cose cattive a scuola se entravo…”

Dopo cena, cronaca di una tragedia annunciata, la bolla esplode. Arriva la crisi, il pretesto è un pretesto qualsiasi. Inizia il lancio dei giochi e degli oggetti, un libro della biblioteca comunale viene strappato (sto ancora pensando a cosa dirò quando andrò a restituirlo), partono cazzotti, calci. Guardo Federico dritto negli occhi e gli dico: “Ignoriamolo. Non raccogliamo assolutamente nemmeno mezza provocazione”. Lavo i piatti e scende la lacrima che stava appesa lì dalla mattina, ma non è ancora il momento di piangere, la crisi è in atto.

Fingendo di non provare dispiacere davanti alle sue sfide a viso aperto, vediamo che poco a poco l’intensità della sua rabbia si affievolisce. Poi torna a montare, un’aranciata viene rovesciata, vola qualche altra cosa. Cala nuovamente, lui se ne va in cameretta e si nasconde dietro al letto. Dopo 10 minuti di strano silenzio, sentiamo dei singhiozzi.

Federico si chiude in camera con lui. I singhiozzi diventano pianto inconsolabile.

“Sono solo uno stupido imbecille maleducato che fa cose brutte. Sono inutile. Sono inutile. Sono un bambino inutile”.

E poi, poco dopo: “Perché siamo nati? Perché si è formata la Terra? Vorrei che il mondo non esistesse, così non esisterebbero i bambini e non esisterei nemmeno io”.

Adesso che la rabbia è passata, anche lui vede con chiarezza quanto si è comportato male. Piange ancora per un’ora, continuando a dire di quanto sia inutile, stupido, imbecille, maleducato. Dice che gli manca la nonna perché lui è un suo fan (questi giovani che parlano già dalla nascita come se fossero in un talent show). Si porta nel letto la foto di mia madre. I singhiozzi diventano respiri, sempre più lenti e profondi, finché finalmente si addormenta, come sempre con la fronte corrucciata e le gambe avvinghiate alle coperte.

Anche oggi la sua lotta si è conclusa. Finalmente quella mia lacrima può scendere.

Dalla psicomotricista

Oggi ho portato Alessandro dalla psicomotricista. Finora ce lo aveva sempre portato mia madre, perciò per me era la prima volta. Lui era così emozionato per il fatto di avermi lì (e per il costume di Halloween che indossava) che ha voluto che entrassi in stanza. Così ho assistito a tutta la terapia.

La dottoressa (un altro dei tanti incontri fortunati della nostra vita) gli ha proposto una serie di giochi incentrati sul meccanismo: input-controllo dell’impulso-ricompensa.

Esempio: lei era in piedi su una sedia e lui in piedi in un cerchio appoggiato sul pavimento. Lei faceva cadere un piccolo ritaglio di fazzoletto e lui, durante la lieve e lenta caduta del pezzo di carta, doveva restare immobile. Appena il fazzoletto toccava terra, lui poteva uscire dal cerchio e scatenarsi in mosse ninja. Tutto ripetuto per dieci volte. Alla fine dell’esercizio, lei gli ha detto di sedersi per mangiare le patatine e gli ha messo davanti una patatina alla volta, con molta calma, fino ad arrivare a 10, chiedendogli di non toccare nulla finché lei non avesse finito. Lui, fremendo con tutto il corpo (e limitandosi ogni tanto solo a leccare una patatina per poi rimetterla giù), ha saputo aspettare prima di iniziare finalmente a mangiare.

Lo stile della seduta è stato questo.

Io ho osservato tutto dalla mia sedia. Lui, di tanto in tanto, si girava con una sguardo d’intesa, visibilmente felice della mia presenza.

È stato molto bello percepire il suo impegno, i suoi sforzi. Sta facendo un percorso bellissimo, sta davvero sfidando se stesso con tutte le sue energie. Vedere il suo piccolo corpo faticare nell’immensa missione di cambiare alcune sfumature della sua anima mi ha colpito. Ho pensato a quanto sia difficile, anche per un adulto, cambiare strada e prendere una direzione che va contro la sua natura, persino quando la sua natura lo fa stare male.

Lui lo sta facendo, sotto forma di gioco, vero, ma lo sta facendo.

Il mondo fuori da quella stanza era un mondo di bambini all’asilo, o a casa con le loro famiglie. Lui invece era lì, a lottare.

Le mamme fuori da quella stanza pensano al colore dei quaderni, al regalo di Natale per la maestra, a quella signora che accompagna il figlio in minigonna e che attira gli sguardi dei papà. Invece io ero lì a guardare lui lottare, e ne ero fiera. Ho anche mandato giù un fiotto di pianto, lo ammetto, perché mi fa tenerezza vedere il suo sforzo, perché percepisco che sta giocando ad un gioco molto più grande di lui.

L’altro ieri si è svegliato e mi ha detto di aver fatto un sogno.

“Mamma, sono stanco, ho dormito male. Stanotte ho sognato di lottare contro me stesso.”

Ha ragione, il suo inconscio glielo ha detto con chiarezza. Ma io sono con lui, ce la posso fare.

Quella volta che

Quella volta che hai dato un calcio al collo dell’utero e hai rotto le acque.

Quella volta che hai aperto la finestra e hai lanciato una bottiglia di vetro in giardino.

Quella volta che hai divelto dal muro un battiscopa di legno perché avevi perso una partita.

Quella volta che hai preso un mestolo dal cassetto e l’hai sbattuto sulla porta a vetri di nonna, creando una lunga crepa. Avevi appena un anno.

Quella volta che hai lanciato a terra una tazza di latte, e poi io ho pulito, ti ho versato altro latte perché per me era importante che tu imparassi a fare colazione, e tu l’hai lanciato di nuovo.

Quella volta che ti ho portato al cinema e all’uscita la stanchezza ha preso il sopravvento, sei come impazzito e mi hai urlato contro “stronza” (l’unica parolaccia che hai imparato all’asilo) dall’uscita fino alla macchina.

Tutte le volte che mi hai urlato “ti odio” “stupida” “scema” “ti ammazzo” “ti prendo a pugni” “ti spacco gli occhiali” “ti taglio i vestiti” “ti incendio”. A me, pacifica e pacifista, che nella vita non ho neanche mai tirato i capelli a mia sorella.

Tutte le volte che hai rovesciato sul tavolo bottiglie d’acqua, bicchieri di succo, vasetti di yogurt, di omogeneizzato, piatti di minestra, di carne, di pesce.

Tutte le volte che hai fulminato i faretti dell’ingresso per l’atto compulsivo di accendere e spegnere la luce.

La volta che hai preso le mie matite del trucco e hai scritto sul muro.

Tutte le volte che ti sei chiuso in bagno a svuotare flaconi di bagnoschiuma.

Quella volta che, a casa di amici, ti sei chiuso in bagno a spruzzare il deodorante e alla fine quasi ti veniva un enfisema.

Quella volta che, a casa di amici, hai rotto una libreria.

Quella volta che, a casa nostra, hai colpito e rotto lo schermo della televisione.

Quella volta che hai rotto il computer di nonno con una botta secca sulla tastiera. Il tecnico dell’assistenza non riuscì più a ripararlo.

La volta che sei scappato di casa e ti abbiamo ritrovato al quarto piano. È da allora che chiudiamo sempre a chiave la porta blindata.

Tutte le volte che abbiamo cucinato insieme e ho dimenticato di darti un solo ingrediente alla volta e hai rovesciato la farina, oppure lo zucchero, oppure le uova, oppure la granella per i biscotti, oppure l’acqua, oppure l’olio.

Tutte le volte che mi chiedi “cosa è questo” e che ne rovesci il contenuto prima che io abbia il tempo di risponderti.

Quella volta che ti sei aggrappato alla mia catenina e me l’hai strappata dal collo. Avevi 7 mesi.

Ma anche

Quella volta che mi hai visto dopo il parrucchiere e hai finto di svenire perché hai detto che ero troppo bella.

Quella volta che hai aperto il tuo astuccio e hai dato un pastello a ogni compagno di classe che non ne aveva.

Quella volta che abbiamo letto insieme un libro sulle parolacce e hai nascosto la testa sotto il cuscino e hai iniziato a piangere, dicendo che non avevi il coraggio di continuare a leggere.

Tutte le volte che prendi la foto di nonna e le dici che ti manca, poi la chiami e le chiedi se ha sentito la tua voce a distanza.

Quella volta che hai bussato al finestrino di una macchina in doppia fila e hai detto ad una signora sconosciuta che non si parla al telefono mentre si guida. Io poi ti ho fatto notare che in realtà era ferma, perciò sei tornato indietro e le hai detto: “Scusi se l’ho interrotta”.

Tutte le volte che ringrazi quando qualcuno ti cede il passo.

Quella volta che sei entrato in ospedale per conoscere tuo fratello appena nato e gli hai detto con l’emozione che ti portava via la voce “Ciao fratellino, vedrai che con me ti divertirai tantissimo”.

Tutte le volte che ti alzi dal letto, vieni nel nostro letto e mi stringi perché hai paura, e dopo due minuti hai caldo, e poi torni e mi abbracci ancora.

Quella volta che hai dato un calcio al collo dell’utero e hai rotto le acque, perché non vedevi l’ora di venire al mondo.

In giro con un bambino iperattivo

Avere un bambino iperattivo in famiglia può essere molto divertente. Tendo a dimenticarlo troppo spesso, per fortuna altrettanto spesso mio figlio me lo ricorda. Uscire con lui è un vero piacere, è come passeggiare con un amico simpatico che ti intrattiene incessantemente con i suoi racconti e le battute di spirito. Non sai mai cosa ti potrà accadere di lì a cinque minuti, anche lo spostamento più breve e lineare può trasformarsi in un’avventura. Basta indossare le stesse lenti con cui lui osserva il mondo, e poi che lo spettacolo abbia inizio.

Al supermercato

Uno dei posti in cui ne sono successe di più è al supermercato. Noi, poveri ingenui, pensavamo che bastasse infilarlo nel seggiolino del carrello per farlo stare fermo, ma di lì a poco avremmo cambiato idea.

Un giorno, infatti, lo lascio nel carrello accanto al banco delle carni e mi distraggo per scegliere le uova, sicura che lui – per una volta – davvero non possa fare nulla, se non afferrare e lanciare dietro di sé qualche prodotto, come infatti è appena accaduto nel reparto frutta. Passa un minuto, mi volto verso di lui e il carrello non c’è più. Afferrandosi agli scaffali e trascinando il carrello con la forza delle braccia, riesce ad andarsene in giro. Lo ritrovo cinque metri più in là, al banco del pesce, che chiacchiera con la commessa.

Il periodo dell’acquiescenza al carrello è durato poco. Ben presto ha smesso di volerci entrare, preferisce gironzolare a piedi e scegliere con me cosa comprare. Poiché tocca qualunque cosa, capita che faccia cadere dei prodotti. Io cerco di prevenire le sue mosse, ma a volte arriva prima di me. Siamo in un piccolo supermarket di provincia, siamo in vacanza. Il negozio espone diverse bottiglie souvenir di limoncello con il nome della località turistica. Sono colorate, alcune hanno all’interno un veliero di vetro soffiato, attraggono Alessandro come calamite, e lui le tocca ogni volta che siamo in quel supermercato. Un pomeriggio gli do le spalle per venti secondi, tempo di afferrare una confezione di petto di pollo e sobbalzo per un rumore di vetro fracassato. Mi volto e lui è accanto alla bottiglia rotta, limoncello e vetri ovunque, tutti ci guardano, anche lui mi guarda ed esclama “Ops!”.

La bottiglia rotta di limoncello l’ho pagata 10 euro e 66. Qualche giorno prima aveva rovesciato uno scaffale di solari Bilboa e scheggiato una calamita souvenir, ma la cassiera mi aveva strizzato l’occhio e abbonato la marachella.

Comunque sono abituata a pagare per i suoi piccoli danni. Ovetti kinder scartati prima del tempo, lattine di coca cola lanciate e ammaccate, e una volta un formaggio al rum addentato con tutta la pellicola di plastica in un momento di nervosismo durante l’attesa al banco dei salumi.

Al supermercato vicino casa, ormai, ci conoscono bene. Lui chiama tutti “amico” o “amica” e tutti lo chiamano “amico Ale”. Gli regalano in continuazione assaggi di biscotti, cioccolatini, gomme da masticare. Gli mettono da parte il pesce migliore, conoscono i suoi gusti e le sue abitudini. Quando sono sola e lui non riesce ad aspettare che io finisca di imbustare e di pagare, uno dei ragazzi gli fa la guardia accompagnandolo oltre la porta scorrevole. Dal vetro mi rassicura con lo sguardo e mi fa cenno di finire senza fretta, ché a mio figlio ci pensa lui. Una volta mi ha chiesto se avessi solo un bambino, solo quel bambino. Gli ho detto di no, che ne ho anche un un altro e mi ha guardato incredulo, un po’ compassionevole, un po’ ammirato, lo devo ammettere.

Non dare confidenza agli sconosciuti. Anzi sì.

Forse è perché parla con tutti, forse è perché fa cose buffe, o magari è solo molto simpatico, ma riceve regali da sconosciuti ovunque andiamo. Un giorno, sempre al famoso supermercato vicino casa, ha attaccato bottone con una coppia di ragazzi. Dopo due minuti, gli stavano comprando il primo pacchetto di Big Babol della sua vita.

Un mese fa, ultimi scorci d’estate, ci siamo fermati a prendere un ghiacciolo. Un signore anziano è entrato nel bar e ne è uscito con delle caramelle. Si è presentato come il signor Enzo e ha regalato le caramelle ad Alessandro, “perché i bambini dovrebbero essere tutti come te”.

L’anno scorso, in un piccolo forno, Alessandro ha avuto una violenta crisi di pianto. Non riuscivo a calmarlo in nessun modo, ero lì ferma da mezz’ora, tutta sudata, tentandole tutte. Si è avvicinato un signore, si è chinato e gli ha fatto un paio di domande strategiche. Io mi sono fatta da parte perché sapevo che, se fossi intervenuta, avrei fatto precipitare di nuovo la situazione. Questo anonimo signore è riuscita tranquillizzarlo, fungendo da diversivo che ha distolto l’attenzione dal motivo del pianto, e la crisi è passata. Dopo mi ha guardato e mi ha detto: “Posso comprargli un pacchetto di patatine? Mi ha ricordato mio figlio quando era piccolo, che aveva queste stesse crisi e ogni volta mi faceva spaventare.”

Regali a parte, non esiste passeggiata senza che lui si fermi a chiacchierare con qualcuno. Significa anche che, se siamo al ristorante (sì, perché adesso noi riusciamo anche a cenare al ristorante, purché il servizio sia veloce più del vento), attaccherà bottone con le altre persone sedute nel locale. Perciò anche noi faremo amicizia, noi che di solito siamo schivi e amiamo starcene tranquilli per conto nostro, soprattutto in vacanza. Ma i figli ti obbligano a sfidare i tuoi limiti, questo l’ho già scritto.

Energie infinite e camminate chilometriche

Assai raramente, durante una passeggiata, mio figlio mi ha chiesto di potersi riposare o di essere preso in braccio. Se è capitato, doveva essere davvero allo stremo delle forza, perché di solito cammina per ore, con il caldo o il freddo, sotto la pioggia o sotto il sole. E mentre cammina parla, chiacchiera con chi gli capita a tiro, osserva e commenta quello che vede, salta da un muretto all’altro, tira fuori vecchi aneddoti e chiede il perché delle cose. Ricorda molto bene le strade e riconosce i tragitti che ha già percorso altre volte.

Quando siamo a casa, a volte, sembra un leone in gabbia, è un mulinello che gira senza uno scopo, un vulcano traboccante, una mosca che continua a sbattere contro il vetro. Quando me ne accorgo, se posso, gli metto le scarpe e lo porto in giro, senza avere in testa una meta precisa, promettendogli magari un gelato o un piccolo regalo. Si calma all’istante, dirotta tutta la sua attenzione verso ciò che lo circonda e mette nei piedi tutte le sue energie. Sulla strada non può andare in crisi, sa che è partito da un punto preciso e sa che dovrà raggiungerne un altro. Nessuna distrazione potrà comunque distoglierlo dal compito del camminare, perché – e qui sta la magia – può distrarsi continuando a camminare. Io la vedo quell’energia, la percepisco nel suo flusso che parte dalla testa, gli attraversa il torace e va a scaricarsi nelle gambe fino ad abbattersi sul terreno, dove finalmente si disperde.

La bellezza è nei dettagli

Un’altra cosa che non mi stanca mai del tempo passato con Alessandro è osservare il mondo con i suoi occhi. Un albero di limoni non è mai soltanto un albero di limoni, è una pianta che forse assomiglia ad un altro albero visto chissà dove, e chissà se i suoi frutti usciranno fuori di colori strani o se invece saranno davvero limoni.

“Chi può dirlo, Alessandro, a me pare proprio un albero di limoni, ma chissà…”

“Mamma, ti ricordi di ripassare qui tra un mese così controlliamo cosa nasce?”

“Va bene.”

Così un muro non è mai solo un muro, ma è una costruzione di una specifica tipologia di mattoni su cui dobbiamo controllare accuratamente che non ci sia muffa, e se anche ci fosse muffa, passeremmo senz’altro ad esaminare quest’ultima nei minimi dettagli. Una casa non è mai solo una casa, ma è il posto in cui forse abita qualcuno di interessante, e chissà cosa starà facendo in questo momento, sbirciamo nella finestra, vediamo se ha un cane in giardino, controlliamo se un ladro sta entrando dalla porta proprio in questo momento, scopriamo se quella lampadina è un antifurto o solo un citofono.

Sono solo le fantasticherie di un bambino, e forse io sono più allenata all’ascolto perché spesso ho dovuto fare conversazione con questo bambino per prevenirne le crisi di rabbia. Ma la verità è che io amo queste fantasticherie perché, pur così bizzarre e divertenti, finiscono per riportarmi con i piedi per terra, mi costringono a prendere coscienza dei luoghi che attraverso, a dare un nome e ad immaginare una storia per tutti gli oggetti che ne fanno parte. Posso relegare me stessa e i miei pensieri in un angolo, mentre lo scenario emerge dal fondo e si fa protagonista. In quel momento preciso, colgo la bellezza di tutto ciò che mi circonda e che prima non notavo. Ce lo insegnano i bambini, a me lo sta insegnando mio figlio iperattivo: la bellezza della vita è nei dettagli, nei piccoli capolavori che compongono l’imperfezione complessiva, così come nei momenti di magico equilibrio che si possono verificare sempre, anche nella giornata meno felice.

Superare il senso di inadeguatezza

Tutto nasce dal mio peggior difetto: la permalosità. Ci provo da sempre a limare questa odiosa caratteristica, ma non è semplice. Di contro, ho molta forza di volontà e mi impegno per fare bene le cose, anche per non sentirmi dire da qualcuno che ho sbagliato qualcosa. Quando perciò mio figlio ha iniziato a mostrare comportamenti ribelli o comunque non corrispondenti al modello del “bravo bambino”, io mi sono subito sentita giudicata come genitore e, al contempo, ho messo in dubbio la mia capacità di educare.

Si tratta di un meccanismo perverso, che non fa che generare ansia da prestazione in mio figlio. Io mi sto impegnando davvero tanto per superarlo, anche se significa demolire alcune parti di me che io definirei strutturali. Perché se è vero che il mio essere permalosa mi rende spesso arcigna e perfezionista, è altrettanto vero che sono una persona leale, che tiene fede agli impegni costi quel che costi, che è sempre puntuale, e così via. Possibile che i miei pregi siano un problema per mio figlio? Sì, possibile.

In questi anni ho imparato una cosa: i figli ti obbligano a crescere e a superare i tuoi limiti. Il mio limite è sempre stato la paura del giudizio altrui ed eccolo là, voilà, un bambino con dei comportamenti al di fuori della norma, al di fuori dello standard, nel bene e nel male. Un bambino che porta le maestre a lamentarsi, che nei suoi momenti peggiori si attira addosso gli sguardi di riprovazione delle altre persone . Un bambino di cui il gruppo whatsapp dei genitori parla male nonostante sappia che tra i partecipanti ci sono anche io, sua madre.

Un bambino eccezionale, è vero, che nei suoi momenti di buonumore non puoi fare a meno di notare. Un bambino a cui chiunque, per strada, fa regali semplicemente perché attratto dal suo carattere o divertito dalle sue battute di spirito. Ma anche un bambino eccezionalmente nervoso, scattoso, irascibile, iracondo, così difficile da avvicinare quando non è proprio in vena.

E invece io ho sempre voglia di piacere a tutti. Io, la signora sorriso stampato in faccia, che detesto fare polemica, odio litigare a meno che non si tratti di litigare con le persone con cui ho un legame stretto, quelle con cui posso ricucire subito dopo. Può sembrare contraddittorio, ma ho sempre odiato questo tratto così diplomatico del mio temperamento, mi è sempre sembrato un limite più che una risorsa. Non sarà un caso se il mio compagno e le mie migliori amiche sono fieri combattenti sempre pronti a dare battaglia per le cause a cui tengono. Confesso che, a volte, ho fatto combattere loro al posto mio. Non ne vado fiera, ma l’ho fatto. Loro, del resto, sanno che se c’è bisogno di razionalizzare e trovare soluzioni realistiche ad un problema, oppure se c’è da intavolare una trattativa, io sono la persona adatta.

Insomma, non sono un fuoco che arde, lo riconosco. E allora cosa fa il destino? Mi consegna questo bambino che è solo fuoco. Tutto completamente rosso.

Piccola parentesi: il valore delle prove

Penso che le prove arrivino a chi è in grado di sostenerle. Eppure, in questi giorni di grande sconforto, fatico a trovare le risorse per sostenere il mio compito. Sento il peso della responsabilità, sento le mie gambe in una specie di palude che prova a portarmi giù, e a volte sarebbe così semplice andare giù, senza pensare più a niente. Sarebbe semplice perché mi pare di non vedere la fine di questo acquitrino. Non mi spaventano le sfide, nonostante il mio carattere diplomatico, io amo le sfide e a modo mio sono molto forte. Ma devo avere davanti il mio obiettivo, altrimenti mi scoraggio e perdo la motivazione. Ecco, in questi giorni di grande sconforto, ho perso di vista l’obiettivo. Qual è? Imparare a gestire la situazione a casa? Aiutare mio figlio a crescere più forte? Aiutare la scuola a trovare la chiave per gestire i suoi momenti negativi? Affrontare la psicomotricità nelle piccole conquiste e nei piccoli inciampi quotidiani? Sì, forse questi sono i micro-obiettivi, ma mi manca una visione d’insieme, il grande traguardo finale. Vorrei il lieto fine, sì, l’ho detto. Ma questa è la vita, e il lieto fine non c’è, è solo questione di vivere al meglio ogni giorno. Lo so, sto cercando di accettarlo, ma adesso mi pare di non averne la forza. Sono nella palude, e questa prova mi pare ingiusta. Mi sto facendo la più classica delle domande vittimiste: perché a me? La mia fede nel valore delle prove sta vacillando, non mi sento poi così certa che le prove capitino a coloro che le possono sostenere. Forse capitano a caso, estratte dal bussolotto della sfiga. Sì, forse sì, e accettarlo sarebbe come raggiungere la saggezza massima, quella delle persone anziane che hanno vissuto tutte le guerre di una vita prima di arrivare alla conclusione che, tutto sommato, la cosa importante è essere riusciti a non morire prima degli altri.

Ma, se lo accettassi, dovrei rivoluzionare il mio modo di vedere le cose, di affrontare i problemi, di sopportare il dolore. Forse lo farò e alla fine mi rassegnerò all’ineluttabile verità, ovvero che le cose possono capitare a chiunque e in qualunque momento, senza possibilità di controllare o prevedere nulla. Ma prima di arrivarci, voglio credere ancora un po’ che le difficoltà siano commisurate alla forza d’animo di chi le incontra. Perché se smetto di farlo, non so proprio come potrò uscire da questo mio momento “no”.

Ma veniamo al punto

Torniamo al problema sollevato all’inizio, ovvero quanto sia difficile superare il senso di inadeguatezza quando i comportamenti di tuo figlio sembrerebbero indicare una tua insufficienza nel compito di educarlo. In realtà, quando alla fine arrivi alla diagnosi di ADHD o iperattività, le nubi per un istante sembrano diradarsi. Per anni hai creduto di essere una pessima madre e all’improvviso ti rendi conto che non sei stata né migliore né peggiore di qualunque altra madre, sei stata sufficientemente brava come tutte le madri, hai fatto come ogni madre ciò che era nelle tue possibilità e non hai peccato in nulla. Arriva la diagnosi e quel peso che avevi sul cuore cade improvvisamente. Ne arriva un altro, ancora più grande, perché realizzi che il “problema”, anche se il termine problema davvero non mi piace, ce l’ha tuo figlio, ma questo è un altro capitolo.

So che è orribile anche solo pensarlo, ma io con al nostra diagnosi a metà (che dovrà essere confermata o smentita tra un anno) mi sono sentita ricompensata per tutte le volte che qualcuno mi ha detto che non sapevo dare regole, che non volevo dare regole, oppure che davo troppe regole, che ero anaffettiva, oppure che ero troppo affettuosa, che l’avevo mandato troppo tardi a scuola, oppure che ce l’avevo mandato troppo presto, che lavoravo troppo, oppure che lavoravo troppo poco, che avevo dato troppe poche sberle o che ne avevo date troppe, e potrei continuare per ore.

Sono una donna meschina, ma per me è stata quasi una rivincita. Una disperata rivincita senza nessun vero vincitore. Una rivincita non solo inutile, ma anche umiliante, perché sentirmi appagata per la possibilità di smentire tutte le voci petulanti ascoltate non ha fatto che confermare il mio eccessivo attaccamento a quelle voci petulanti, le stesse che mi hanno fatto tanto male.

Il giudizio non esiste se chi è giudicato non avverte il potere giudicante delle parole di chi giudica. O no?

Ma io lo sento, l’ho sempre sentito. A scuola, in famiglia, sul lavoro: io voglio essere quella brava ragazza che svolge il compito alla perfezione. Per me, fare i conti con una quotidianità familiare turbolenta, turbata da un piccolo quattrenne che mi urla contro cose orribili, che ho paura anche a ripetere, non è solo un’umiliazione, è una sconfitta.

Ma, e qui voglio tornare al punto iniziale, io voglio credere che le cose capitino sempre per qualche motivo, e allora credo che Alessandro sia la mia occasione per uscire dagli steccati in cui vivo, per superare me stessa e scoprire il mio lato nascosto. Mentre lo scrivo, mi accorgo che sto facendo ancora un altro errore: sto proiettando addosso a mio figlio le mie aspettative, lo sto caricando di un compito che non dovrebbe spettare a nessun figlio, quello di salvare il proprio genitore.

Mi accorgo che dovrei smettere anche solo di pensarci su. Dovrei sedermi ad aspettare il nulla, dovrei sedere e fare come gli anziani che hanno fatto la guerra, accettare e punto. Ma stasera fatemi credere che ci sia qualcosa anche per me in questa situazione. Fatemelo credere, siate clementi.

Signora, non è pronto per la scuola

No, non ce la faccio ad aspettare. Mi ero ripromessa di non scrivere neanche una parola su questo primo anno di scuola dell’infanzia finché non fosse iniziato il secondo presso il nuovo istituto, ma sono successe cose troppo importanti per non partire con il racconto.

Prima però vorrei spiegare, soprattutto a me stessa, il vero motivo per cui ho rotto solo oggi il silenzio stampa. Il fatto è che ho paura, una paura molto grande, quasi paralizzante, che qualcosa vada storto, di nuovo. Ho paura che non ci sia posto per Alessandro e i suoi comportamenti poco socievoli (per usare un eufemismo) nemmeno nella classe che lo accoglierà a settembre. Ho paura di sentire di nuovo l’ombra di quel giudizio addosso, quello che ci hanno proiettato addosso da settembre a giugno, e che non ha affatto aiutato nella nostra situazione, ma anzi ha peggiorato tutto. Il timore di non riuscire, l’ansia del fallimento (nostro, come genitori, e di Alessandro, come bambino) mi avevano indotto a rimandare a settembre, magari anche a ottobre, il momento del racconto dell’anno scolastico appena concluso. Volevo prima accertarmi che tutto filasse liscio, che il nuovo capitolo iniziasse senza intoppi. Poi però è arrivato il 24 giugno, due giorni alla fine della scuola, e ho capito che avevo bisogno di iniziare a sbrogliare la matassa. E inizierò proprio da lì, dalla fine, dal 24 giugno. Quando ho portato Alessandro in una scuola già quasi vuota, già molto calda, dove la sua maestra mi ha chiesto di fare una breve chiacchierata.

24 giugno

In tutti questi mesi, portare o prendere Alessandro a scuola ha rappresentato un problema. Sono entrata di solito con la testa bassa, per paura di essere riconosciuta dal genitore di qualche bambino morso dal mio (sì, perché Alessandro morde. Lui, che è capace di dire cose come “mamma sento il rombo di un motore in lontananza” o “non si intravede neppure l’ombra di un mostro all’orizzonte”, quando si arrabbia morde come il più primitivo degli uomini, con la bava alla bocca come un cane). Oppure per il timore del rimprovero delle maestre per qualche comportamento inappropriato di mio figlio, che in 9 mesi – mi è stato riferito con cura di particolari – ha lanciato, strappato, tirato, sporcato qualunque cosa. Da un po’ ha anche iniziato a non trattenere più i bisogni. Sì, sempre quel bambino che usa le metafore e che sa quasi leggere a 3 anni, se l’è fatta addosso ogni giorno per quasi 4 mesi. Non è stato cambiato dalle insegnanti o dalle bidelle neppure una volta, in 4 mesi. Non lo prevede il loro contratto, mi è stato spiegato.

Solo 4 giorni prima, il 20 giugno, la maestra mi ha contattato per raccomandarsi di lavorare sul “problema” nei mesi estivi. Ne ho approfittato per riferire che l’incidente – salvo rarissime eccezioni – si verifica solo a scuola, ed ha iniziato a presentarsi in particolare dopo che:

  1. Alessandro ha cominciato a passare la mattinata in una classe diversa dalla sua (un espediente usato per alleggerire la sua classe d’appartenenza e al tempo stesso per stimolare il bambino grazie al clima più sereno della classe ospitante)
  2. le bidelle si sono lamentate con lui di aver fatto uno schifo in bagno. Testuali parole (io ero presente): “Alessà, hai fatto davvero uno schifo”. Che per un bambino è come dire “la tua cacca fa schifo”, ovvero “tu fai schifo”.

La maestra mi ha ascoltata, ha anche mostrato imbarazzo davanti a queste mie osservazioni, ma la questione è finita lì, con me che prometto di lavorare sul “problema” a casa, d’estate.

Arriva il 24 giugno. Mancano due giorni alla fine della scuola. Negli ultimi 4 mesi le maestre non hanno mai avuto tempo di cambiare le mutande a mio figlio, ma una di loro ha trovato il tempo di scrivere una relazione alla dirigenza scolastica, un documento al quale io non avrò accesso se non – forse – dietro rilascio di una speciale autorizzazione da parte del preside. La maestra mi spiega che nel documento ha sottolineato i miglioramenti di Alessandro nel corso dell’anno scolastico. Gli episodi di aggressività sono diminuiti in maniera drastica, anche se occasionalmente si ripresentano. La capacità di concentrarsi sulle schede didattiche è aumentata e si dimostra più collaborativo. Al tempo stesso il bambino da segnali di insofferenza verso il tempo pieno, per cui si consiglia il tempo ridotto. Bene, sono sottolineature che reputo superflue a fine anno, ma mi importa poco. Quei concetti li ho sentiti e risentiti tutto l’anno, non so che senso abbia ribadirli a giugno, forse solo convincerci finalmente a metterlo in una classe a tempo ridotto, ma sono ormai vaccinata a quel genere di pressing psicologico. Ed invece è a questo punto che arriva la doccia fredda. La maestra prosegue: “E poi sa, signora, ho dovuto scrivere nella relazione che Alessandro non ha il controllo sfinterico.”

Non ci credo, sta usando quella scusa, proprio quella.

Provo a controbattere: “Maestra, deve essere qualcosa che è successo a scuola, forse una protesta, perché accade solo qui e poi da quando le bidelle…”

“Signora, non è mica detto che dipenda dalla scuola. Voglio dire che ne ho viste tante di storie simili che non dipendono dalla scuola, magari hanno origine in qualcosa che è successo prima, e poi Alessandro ha sempre avuto questo problema, no?”

Si sta riferendo ad una storia che le ho raccontato io, al fatto che togliergli il pannolino sia stato più difficile del previsto. Ma quando aveva due anni.

“Comunque, signora, senza controllo sfinterico – glielo devo dire per correttezza – in teoria non si potrebbe frequentare la scuola…”

Ho capito dove vuole andare a parare.

“Quindi, maestra, a settembre non verrà ammesso?”

“No, questo non lo so, però in teoria… Comunque voi lavorate sul ‘problema’ tutta l’estate e poi si vedrà. Signora, sono tutti segnali che ci dicono una cosa sola: Alessandro non è pronto per la scuola. Io questo glielo dico sempre per il bene del bambino, non mi fraintenda”.

Vado via, lasciandolo lì. Forse davvero non è pronto per la scuola, ma io lo lascio lì.

Forse invece la scuola non è pronta per lui, ma io lo lascio lì.

Forse in quella scuola vedono un bambino diverso da quello che esiste realmente. Ma io lo lascio lì.

Perché non ho altra scelta.

11 luglio

Inizia finalmente il centro estivo, organizzato dalla scuola dove Alessandro andrà a settembre. Non è ancora la nuova vita che attendiamo con ansia, ma almeno lui ha la preziosa occasione di familiarizzare con quella che diventerà la sua seconda casa.

I primi 3 giorni sono perfetti, ma non avevo nessun dubbio: lui adora e si lascia distrarre dalle novità. Il problema è la routine, accettare le regole, la socialità condivisa. So già che tutto questo, in un contesto di libertà poco strutturato come quello di un centro estivo, sarà difficile da gestire per lui.

Il quarto giorno, la maestra mi riferisce che ha morso dei bambini. Il settimo mi chiede un piccolo colloquio.

Mi reco a scuola con la coda tra le gambe. Vivo di nuovo tutto il campionario delle emozioni negative, dalla vergogna alla frustrazione, fino alla rabbia verso mio figlio e la sua incapacità di sottostare a delle regole, di rispettare gli altri bambini. Fuori scuola, vedo dei genitori e sento i loro occhi addosso a me, come se già sapessero che sono la madre del bambino che fa casino, che crea problemi, che morde i loro figli.

Ma poi arriva la maestra, che sorride, mi dice con delicatezza che è successo qualcosa di spiacevole ma al tempo stesso mi parla di empatia, di condivisione, mi fa vedere mio figlio per quello che è. Più serena e finalmente messa su un piano di parità , le spiego che lui ha una forte insicurezza che lo porta ad aggredire quando si sente aggredito, anche se magari l’aggressione è solo nella sua testa. Mi ascolta con interesse, mi dice allora che proverà ad encomiarlo per le cose che fa bene piuttosto che demonizzarlo per quelle che sbaglia.

A me risuonano nella testa soprattutto queste parole: “da settembre lo indirizzeremo…”. Pronunciate con il sorriso, con la serenità di chi ha la situazione sotto controllo. C’è una strada. Mio figlio è aggressivo con tutti, ma c’è una strada.

Mio figlio morde, è vero, ma c’è una strada.

Mio figlio reagisce in maniera brutale quando non è perfettamente a suo agio. Ma c’è una strada.

Questa strada porta da casa a scuola, e poi da scuola a casa. Non è vero (almeno spero, ma lo scrivo soprattutto per scaramanzia) che non è pronto per la scuola.

Esiste una scuola che saprà adattarsi alle sue necessità e che al tempo stesso gli insegnerà ad adattarsi al mondo, perché è questo che fa la scuola, è soprattutto una scuola di vita.

Con tutti questi bei pensieri nella testa, me ne vado al lavoro. La sera forse scoprirò che Alessandro ha dato altri morsi, o trasgredito ad altre regole, ma questo non mi farà sentire perduta come madre o arrabbiata con lui. Mi farà solo vedere la situazione per quella che è realmente: noi tutti, noi genitori e lui bambino, siamo nel mezzo di un percorso che ci porterà, presto o tardi, a trasformare la sua aggressività in energia positiva.

Come è andata a finire la storia dell’incontinenza

Che ci crediate o no, Alessandro ha smesso di avere i suoi incidenti a scuola esattamente il 20 giugno, il giorno in cui la maestra mi ha contattato. Forse le ha voluto dimostrare che si sbagliava.

Che ci crediate o no, al centro estivo non ha avuto nessun problema con il bagno, nonostante ci passi ancora più ore che alla scuola dell’infanzia.

Forse è finita la sua protesta viscerale, quella con cui ha voluto dimostrare non tanto di non essere pronto per la scuola, ma di non voler avere più niente a che fare con quella scuola. Proprio quella, solo con quella spero (e continuo a scriverlo per scaramanzia, perché in fondo mancano ancora due mesi a settembre).

Montessori a casa… di un bambino vivace

Ci sono almeno due pregiudizi in Italia sul metodo di Maria Montessori, e per assurdo sono l’uno l’opposto dell’altro. Il primo è che il metodo Montessori lasci il bambino libero di fare ciò che gli pare. Il secondo è che invece lo imbrigli in una serie infinita di regole e comportamenti schematici.

La verità, ovviamente, non sta in nessuna di queste due versioni e mi dispiace che proprio nel paese che ha dato i natali alla dottoressa Montessori ci sia stato questo enorme fraintendimento su un metodo rivoluzionario come il suo. Ma nemmeno io, del resto, ne sapevo nulla prima di avere a che fare con la vivacità, l’esuberanza e il carattere ribelle e peperino di mio figlio Alessandro.

Premessa numero 1: il metodo Montessori lascia il bambino libero di agire fino a quando non arreca danno a se stesso o agli altri. Il bambino perciò potrà scegliere liberamente la sua attività, ma non potrà ad esempio lanciare i giocattoli addosso agli altri bambini. In quel caso, un adulto dovrà intervenire ristabilendo la disciplina.

Premessa numero 2: il compito dell’adulto non è quello di suggerire al bambino cosa fare, ma di osservare il bambino e predisporre l’ambiente per far sì che egli abbia il materiale di cui ha bisogno in quel particolare momento della sua vita. Se ad esempio un bambino attraversa un periodo in cui è particolarmente affascinato dal movimento, sarà compito dell’adulto mettere nei punti in cui il bambino può arrivare dei sostegni per sollevarsi, per muovere i primi passi o per arrampicarsi in sicurezza.

Il metodo Montessori nasce per essere applicato nelle scuole (le cosiddette “case dei bambini” montessoriane), anche se – ahimè! – le scuole italiane non lo fanno quasi mai. Nulla vieta comunque di applicare il metodo anche a casa, compatibilmente con gli equilibri e le esigenze della famiglia.

Il metodo Montessori ha contribuito a cambiare in meglio la nostra quotidianità. Ma partiamo dal principio.

Alessandro aveva 3 anni e, come tutti i bambini, la sua cameretta iniziava ad essere sommersa di giocattoli, nonostante qualche tentativo – devo ammettere poco energico – di limitarne l’acquisto. Fin qui, tutto regolare. Il problema è che Alessandro non utilizzava minimamente i suoi giochi, se non per lanciarli durante le sue sfuriate o i capricci. Ad un certo punto, un po’ per ripicca e un po’ per necessità, ho iniziato a far sparire tutto ciò che lanciava. In pochi giorni, la nostra casa si è svuotata ed è tornato l’ordine. Il primo passo è stato perciò quasi frutto del caso.

Nel frattempo, ho iniziato a notare che Alessandro utilizzava per giocare la sua fantasia e alcuni oggetti della vita quotidiana (cucchiai, occhiali da sole, ma anche sassi e bastoncini presi in giardino), oppure oggetti legati al travestimento (il casco da pompiere, la torcia da operaio, lo zaino da esploratore). Non sembrava minimamente dispiaciuto per la scomparsa degli altri giocattoli, anzi lo spazio a disposizione pareva stimolare maggiormente la sua immaginazione. Ma, per il momento, le mie erano solo piccole intuizioni, mentre nel frattempo la vita scorreva e non c’era tempo per pensare a cosa stesse accadendo.

Dopo qualche mese, dalla scuola materna sono arrivati i primi richiami sul comportamento di Alessandro e la maestra ha richiesto una verifica sulla capacità di attenzione e di concentrazione di mio figlio, lamentando il fatto che a scuola si rifiutasse sistematicamente di svolgere le schede didattiche. La nostra psicologa ci ha consigliato di stimolare maggiormente la sua concentrazione con delle piccole attività semplici e rilassanti, come ad esempio la pasta di sale o il didò.

Non ricordo come, ma ad un certo punto cercando su internet ho scoperto i giochi sensoriali (sensory play), ovvero giochi basati esclusivamente sulla manipolazione di materiali poco sofisticati, spesso di origine naturale, come la farina, l’acqua, la schiuma, il riso colorato e la stessa pasta di sale. In quei mesi ero a casa in maternità per la nascita del secondo figlio, perciò ogni giorno riuscivo a preparare un materiale che Alessandro trovava sul suo tavolino al ritorno dall’asilo. L’ambiente, privo ormai di giocattoli, non offriva distrazioni e io cercavo di accompagnare Alessandro alla sua attività e poi di dileguarmi per abituarlo a giocare da solo. Ricordando quello che anni prima mi aveva detto una mia amica educatrice, ho iniziato a circoscrivere ogni attività all’interno di un vassoio o di un contenitore, ad esempio una bacinella, in modo che Alessandro fosse in qualche modo costretto a restare nel confine che gli stavo proponendo. Però non c’era alcun tipo di costrizione, non ero mai io a dire ad Alessandro cosa fare, mi limitavo a fargli trovare il vassoio dove lui poteva vederlo.

Un po’ alla volta, ho inserito anche vassoi con attività di altro tipo, ad esempio carta da tagliare, adesivi da attaccare e così via, non perché mio figlio dovesse imparare qualcosa (anzi, come recita il titolo di questo blog è sempre stato fin “troppo sveglio”), ma piuttosto perché scoprisse il piacere di lavorare soffermandosi sui suoi gesti.

Vassoio del ritaglio

Incredibilmente, la cosa ha iniziato a funzionare. Oltre a gradire moltissimo la manipolazione e la scoperta di questi materiali e ad usarli con creatività, ha iniziato a passare qualche minuto da solo, senza distogliere l’attenzione dal gioco.

Presa dall’entusiasmo di questa scoperta, ho continuato a leggere e a informarmi su internet, venendo poco dopo a a sapere che il mondo dei giochi sensoriali e dei cosiddetti “open ended play” (giochi senza uno scopo preciso, condotti in tutto e per tutto dai bambini e dalla loro fantasia) si intersecava con il mondo Montessori. Non perché li avesse inventati lei, ma perché facevano parte di uno stesso universo, basato sull’osservazione e sul rispetto del bambino piuttosto che sull’imposizione da parte dell’adulto.

Da lì a scoprire e approfondire cosa fosse il metodo Montessori, il passo è stato breve. Ho anche svolto un corso online per genitori, tanto per essere davvero sicura di aver imboccato la strada giusta.

Ma era la strada giusta, più passava il tempo e più me ne convincevo.

Per prima cosa, la cura maniacale dell’ambiente spingeva noi tutti ad essere più ordinati, e l’ambiente meno caotico favoriva non soltanto la concentrazione, ma anche la calma.

Inoltre, avere poca scelta nelle attività da fare induceva Alessandro ad usare maggiormente il materiale che aveva a disposizione, invece di ignorarlo sistematicamente come faceva quando la sua stanza era piena di giocattoli.

Proponendo poche attività o pochi giochi alla volta, e facendoli ruotare spesso, abbiamo iniziato a capire cosa gli piacesse e cosa no, rinunciando ad esempio a fargli fare i puzzle, che, oh sì! ci erano sempre sembrati così intelligenti, ma che proprio non facevano per lui.

Suddividendo le attività per tema (lo scaffale della matematica, lo scaffale dell’astronomia, lo scaffale dei materiali sensoriali e così via), anche Alessandro ha iniziato a classificare i suoi oggetti e ben presto ad essere molto più ordinato, a sistemare i suoi oggetti con cura come non gli avevo mai visto fare. Era come se l’ordine esteriore avesse iniziato a proiettarsi nella sua interiorità, aiutandolo ad organizzare le sue cose anziché lanciarle tutte alla rinfusa.

Scaffale della matematica

Ma il metodo Montessori a casa non investiva solo la sfera del gioco. Gradualmente, abbiamo cambiato i nostri punti di vista e modificato il nostro comportamento, imparando a rispettare i tempi dei bambini.

Nel metodo Montessori, l’obiettivo non è quello di lasciare il bambino libero di fare come gli pare, ma di aiutarlo a sviluppare la sua autonomia. Questo ha significato adottare alcuni piccoli accorgimenti in casa, come ad esempio mettere un piccolo appendiabiti accanto alla porta, far usare ad Alessandro (ed oggi anche al suo fratellino di un anno) uno dei due bidet come un piccolo lavandino alla sua altezza in cui lavarsi il viso e i denti, spronarlo a scegliere da solo i suoi vestiti mettendoli nel cassetto più basso. E anche per strada: aspettare che termini di osservare ogni piccolo dettaglio come piace a lui piuttosto che spronarlo a fare in fretta come piace a noi adulti, e così via.

Bidet usato esclusivamente come lavandino in miniatura

Sono già molti mesi che la nostra casa si è trasformata per accogliere alcuni degli insegnamenti Montessori. Ogni tanto il caos torna a regnare, magari non sempre abbiamo il tempo di predisporre l’ambiente in maniera ortodossa, ma il cambiamento di prospettiva si continua a sentire e continua a dare i suoi frutti, per cui indietro, ormai, non si torna più!

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