La coppia e l’ADHD

Un giorno parlavo con un’infermiera della ASL. Stava compilando una qualche cartella medica di mio figlio, quando all’improvviso si fermò e mi trafisse. Ricordo le palpebre un po’ invecchiate ma ben truccate su quegli occhi cerulei inquisitori. Ma soprattutto ricordo la domanda che mi fece, inaspettata e in quel momento del tutto incomprensibile: “Come vanno le cose tra lei e il papà del bambino?”. Suonò alle mie orecchie come una frase aliena, come se un passante mi avesse chiesto se conoscevo la differenza tra un pangolino e un armadillo. Risposi di sì all’infermiera e allora lei mi spiegò che ciò era un bene, perché molte volte le famiglie come la nostra vanno in crisi e i genitori iniziano a litigare. Finsi di capire, invece non avevo capito niente come al solito. Dico “come al solito” perché in quel periodo ero nel grande calderone della raccolta di informazioni, della ricerca delle diagnosi e delle risposte, e molto di ciò che credevo di sapere della vita, delle cose o di me stava per rivelarsi una facciata. Ho scritto facciata, ma forse ci stava ancora meglio il termine cazzata.

Infatti solo un paio d’anni dopo compresi il monito dell’infermiera. Fu possibile dopo aver sperimentato per un periodo sufficientemente lungo cosa significa vivere con un bambino ADHD e DOP, e solo dopo aver conosciuto tante altre coppie e famiglie nella stessa situazione.

L’infermiera aveva ragione: le coppie si sfasciavano sotto quel “peso”. Continuavo a incontrare mamme o papà di bambini ADHD che dichiaravano di essersi separati, di non avere il minimo aiuto dal partner o di non riuscire a trovare un punto d’incontro nelle modalità di gestione del disturbo del proprio figlio. Nei racconti che ascoltavo, i problemi dipendevano quasi sempre dal fatto che c’era un genitore che riconosceva il problema e un genitore che diceva che il figlio non aveva nessun problema. Il genitore che negava l’esistenza del problema era di solito anche quello che si arrabbiava di più quando il figlio si metteva a “fare il matto”.

Come dice una mia amica molto saggia (questa mia amica si chiama Giulia: ciao Giulia!), ogni coppia ha il suo equilibrio misterioso, perciò lungi da me provare a capire dall’esterno quali sentimenti muovessero realmente quelle persone. Vedevo però delle dinamiche tutte molto simili, che più o meno si potevano riassumere con questa immagine: la coppia era come una barca i cui rematori avessero preso a pagaiare in versi opposti, stancandosi moltissimo senza arrivare da nessuna parte.

Nella mia coppia non c’è mai stata una crisi, anche se – ci mancherebbe -ci sono stati come in tutte le coppie dissapori, piccole delusioni e momenti di stanchezza. Per quanto riguarda la gestione dei figli, siamo sempre riusciti a remare nella stessa direzione, trovando punti d’incontro o compromessi. Abbiamo avuto il merito di guardare subito in faccia il problema e di raccontarcelo per quello che era, senza rinnegarlo. Forse è perché Federico è uno che nella vita ne ha già viste tante, forse è perché io non dormo bene se non mi racconto la verità, ma quando qualcuno ci ha detto “vostro figlio ha questo problema” noi abbiamo solo risposto “ok, ci dica cosa dobbiamo fare per andare avanti al meglio”.

E questo è stato il nostro grandissimo vantaggio sulla vita che ci stava mettendo alla prova.

Ma tolto questo innegabile punto di forza (a volte la disillusione, il cinismo e la grettezza sono davvero dei punti di forza), quanto è stato difficile.

Cosa? Eh, per esempio riuscire a non incollare sull’altra persona tutto quel risentimento appiccicoso che in realtà è verso la vita, un rancore che in certi momenti sembra pece che scontorna ogni cosa, gli sottrae ogni senso e fa sembrare tutto nero. Sentire in maniera acuta la propria rabbia e decidere di non consegnarla all’altra persona, di non usarla come una frusta tanto per ferire l’altro come siamo feriti noi. Riuscire a trasformarla invece in una richiesta di aiuto, soffocando l’orgoglio, che poi orgoglio di cosa? Come se quel male riguardasse solo noi e non anche l’altra persona. Qualcuno mi spieghi perché è così difficile ammettere di avere lo stesso problema delle persone a cui vogliamo più bene: è perché abbiamo paura di crollare insieme? Forse è perché ci fa orrore l’idea di rispecchiarci nel dolore di chi abbiamo di fronte?

A volte poi si litiga per non restare soli. Magari proprio per varcare quella soglia, per cercare quel collegamento tra noi e gli altri in un momento in cui ogni forma di scambio più pacifica sembra impossibile. Ma se si prende l’abitudine al litigio, in poco tempo diventa un modus vivendi che non ci scrolliamo più di dosso.

Altre volte, invece, si sceglie di restare soli perché si ha bisogno di raccogliere i pensieri, di analizzare, o perché si vuole evitare di aggredire e allora meglio ritirarsi nella tana e aspettare che l’istinto di fare una sfuriata passi. Può esserci molta saggezza in questa scelta, una scelta che vuole evitare di ferire l’altro. Ma la solitudine sa diventare anche un’abitudine comoda, da cui tornare indietro può essere tanto faticoso.

Perché per due genitori è così difficile crescere un bambino che ha l’ADHD o il DOP? Forse perché significa affrontare una serie di problemi pratici (dal costo delle terapie alle discussioni con la scuola, dalle pratiche burocratiche ai continui controlli medici) avendo a che fare con un bambino che – più o meno ogni giorno – ti urla che fai schifo, che ti odia, che vorrebbe ucciderti e che vorrebbe suicidarsi. E quel bambino ha solo 6 anni.

Se ti lasci trascinare da questo vortice di provocazioni, le provocazioni stesse salgono di livello, con lanci di oggetti di ogni tipo, inclusi coltelli o bottiglie (tratto da una storia vera), con mobili sfasciati (già…), fughe da casa (sempre tratto da una storia vera), cinture del seggiolino slacciate con la macchina in piena corsa in autostrada (ancora storia vera).

E anche se diventi molto bravo a gestire quelle situazioni, le provocazioni ci sono lo stesso, solo che diminuiscono perché tu sei zen, o magari non sei affatto zen ma la psicologa ti spiega cosa fare per disinnescare, così tu impari a farlo e la tensione in casa si stempera. Ti spiegano che non devi mai vedere solo il negativo ma anche concentrarti sul positivo, e di cose positive tuo figlio ne ha fatte tantissime, considerando il suo disturbo. Oggi, ad esempio, ha lanciato la forchetta perché non gli piaceva la carne, ma un anno fa avrebbe lanciato il piatto con la carne dentro.

Sì, sono ironica, ma non del tutto. I progressi rincuorano, noi stessi li vediamo e non facciamo che raccontarli a noi e agli altri. Ma certe volte sei stanco, hai combattuto tutto il giorno per quel bambino e lo vorresti solo… Come? Più riconoscente? Sì, dai, forse. Ma soprattutto felice, e invece proprio quel giorno anche lui è molto stanco (perché – ricordalo sempre – se tu hai lottato 100 significa che lui ha dovuto lottare 1.000) e il disturbo si palesa in tutta la sua magnificenza. Anzi, proprio perché sei stanco e tuo figlio ha una sensibilità pazzesca e istintiva, quasi primordiale, il disturbo si amplifica a causa della tua stanchezza e la crisi diventa grandissima, lunghissima, dura anche ore e ti travolge come un’onda.

Dopo l’onda io e Federico, come due naufraghi, restiamo sulla spiaggia.

Dentro abbiamo ancora tutta la rabbia per le cose che ci ha urlato, la delusione per un altro episodio difficile che forse si sarebbe potuto evitare se solo… (avessimo spento prima la tv? Avessimo avvisato che al posto del pesce c’era la frittata?), il dispiacere per un figlio così sofferente che alla fine della sfuriata quasi sicuramente ci avrà detto “mi dispiace, mamma, preferirei non essere mai nato”.

A quel punto, beccarsi come due pappagalli isterici potrebbe essere uno sfogo naturale. A volte lo abbiamo fatto, non lo nego. Di solito ci succede dopo il parent training e ciò è paradossale, perché dopo aver ricevuto tanti buoni consigli dalla psicologa su come gestire nostro figlio, iniziamo a gestire malissimo il nostro rapporto. Me lo spiego solo così: è uno dei pochi momenti in cui siamo soli, ma anche uno di quelli in cui siamo più stanchi, quindi va sempre a finire con una lite, ma poi passa.

Quello che proviamo a non fare mai è rinfacciare all’altro la gestione sbagliata del figlio, o dei figli. Su quel terreno cerchiamo di non scivolare nemmeno per sbaglio, perché sappiamo che se cadi lì non ti rialzi così facilmente. L’istinto ci ha sempre suggerito di agire – rispetto alla gestione figli, e in particolare alla gestione Alessandro- come una testuggine romana, sempre insieme, stessa direzione, stesso obiettivo.

Ecco, l’obiettivo. Forse l’unico modo per sopravvivere a queste tempeste è non perdere di vista l’obiettivo comune. Se l’obiettivo sta lì, ed è lo stesso per entrambi, si può riuscire a perdonare l’altro – o noi stessi – per le sviste, gli errori, le distrazioni più fatali e anche le piccole angherie reciproche.

Ma questo, ormai vi sarà chiaro, significa sentirsi sempre in battaglia. Si sceglie di identificare un nemico all’esterno della coppia anziché all’interno, ma l’atmosfera è marziale. Non c’è riposo, si vive per adempiere a un dovere, non si trasgredisce mai.

In certi momenti, se devi affrontare un grande problema, questa rigidità è inevitabile. In alcune fasi, quelle più dure, lo stoicismo è stato la nostra salvezza. Prendersi per mano ogni sera e raccontarsi delle battaglie vinte, farsi forza per affrontarne di nuove il giorno successivo, partire per il fronte e rivedersi solo dopo molto tempo, trovandosi cambiati e cercandosi ogni volta da capo con gran fatica.

Tutto questo è stato inevitabile ed è stato strategico per la sopravvivenza.

Ma il colore, direte voi, dove se ne va.

Il sogno, la risata, l’illusione, la speranza, l’aspettativa, il progetto, la leggerezza. Dove se ne vanno.

Per fortuna arrivano i momenti sereni, e se sei stato un bravo soldato e sei sopravvissuto insieme al tuo compagno di squadra, ti puoi levare la corazza e puoi ricordare che hai un corpo con una forma sottile, che hai dei capelli che profumano, che i denti quando ridi si scoprono e sono molto bianchi. E così fa il tuo compagno di squadra. Ma i vostri corpi sono anche segnati da infinite cicatrici, da nudi si vedono bene, guarda come luccicano al sole i lembi di pelle ancora lucida. Avremo il coraggio di guardarle tutte? Avremo il coraggio di mostrarle tutte? Io ne ho alcune che tengo per me, e so che anche lui ne ha. Certo, fingiamo che non sia vero, ma sappiamo che è così. Nascondiamo alcune ferite anche per rispetto, perché nessuno può arrogarsi il diritto di essere quello che soffre di più. Le nascondiamo perché nessuno dei due può permettersi di crollare e perché sa che – se crollasse – l’altro resterebbe solo. Questa continua oscillazione tra l’importanza di dirsi le cose e la necessità o il bisogno di nascondersele è frutto di un’alchimia che al momento funziona.

Qualcuno lo chiama equilibrio di coppia, qualcun altro affinità. Io continuo a vedere due persone che si sono scrutate a fondo, lì dove c’è la melma, e si sono accettate senza troppi giri di parole. Una cosa che mi dico spesso è che non lascerei affacciare nessun altro su certi miei abissi vergognosi. Il segreto del mio amore, se ci penso, non è nelle cose belle. No, il segreto del mio amore è nell’accettazione della melma.

Perché io sono una blatta, questo ormai lo avrete capito.

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