Arrampicare quando sei mamma, in particolare se hai un bambino con l’ADHD

A maggio ho iniziato a fare arrampicata in palestra. Non c’è stata premeditazione: una mia collega ha detto “Sai che c’è un corso principianti nei giorni dispari?” e io ho risposto: “Dai! Andiamo!” Tre giorni dopo eravamo lì per la lezione di prova. Non ho più mollato: due volte a settimana, costi quel che costi, io vado.

Era da un po’ che volevo ritagliarmi del tempo per lo sport, ma non trovavo nulla che mi interessasse. In fondo, se dovevo fare uno sforzo organizzativo così grande per poi ritrovarmi in sala pesi, tanto valeva continuare a fare esercizi nel mio salotto.

Invece arrampicata sì. Perché sì? Mi ero ripromessa di non farlo: non fare elucubrazioni su ogni tua mossa, Laura, non farlo! Ma tanto sapevo che ci sarei cascata, l’ho saputo appena ho messo la prima volta il piede in quella palestra. Il fatto è che per me, prima ancora che una scelta su come passare il tempo libero (che in realtà non ho), è stata una scelta su come forzare la mia routine strapiena per inserire finalmente, dopo 7 anni, qualcosa di mio.

E che questo “qualcosa” sia uno sport e non un’attività intellettuale, creativa o lavorativa è, dal mio punto di vista, un enorme successo. Sì, perché lo sanno anche i muri che il cervello tende a monopolizzare un po’ tutto, nella mia vita. Eppure l’istinto, qui lo dico e qui lo nego, si sta ritagliando il suo piccolo spazio e forse non è più nemmeno tanto vero che sono tutta razionalità e controllo. Anzi.

Ma torniamo all’arrampicata. Perché?

Primo: è un’attività muscolare che richiede molta preparazione atletica, ma è anche un’attività che impone al corpo di misurare le sue energie e dosarle per arrivare alla meta. Questo allenamento, per me, è molto utile, perché mi aiuta a capire quando andare e quando invece fermarmi a riposare.

Ancora: è un’attività con picchi esplosivi seguiti da lunghe pause. Questo ritmo ciondolante mi calma e mi consola.

Altro motivo: mentre sali, o smetti di pensare ai tuoi problemi e ti concentri sul tuo prossimo passo, oppure cadi e ti fai male. I problemi, perciò, li devi lasciare fuori per forza.

E poi: lassù fa paura, io soffro di vertigini. A volte riesco a salire lo stesso, altre volte la paura mi blocca. Sto cercando di non arrabbiarmi con me stessa per le volte che non mi sblocco. Ma gioisco per ogni volta che sono in alto e non provo il terrore del vuoto.

Infine: da lassù si cade spesso, ma se ti lasci andare impari a cadere in modo morbido e non ti fai più male. Perdere il controllo e abbandonarsi quando ormai la caduta è inevitabile mi sembra faccia rima con “accettazione”. Chi mi legge sa quanto io abbia lavorato sull’accettazione. Forse arrampicare è il completamento di questo lungo percorso, la tappa finale.

E poi per me arrampicare significa anche un’altra cosa: forzare la mano, piegare tutti gli ingranaggi delle mie giornate a incastro e uscire dalla cornice, andare lì dove non ho nessun altro problema se non quelli che riguardano me, soltanto me, le mie paure, le mie insicurezze, i miei muscoli che a volte non funzionano. Qualunque persona si merita il suo tempo, ma io mi sento come se mi fossi regalata una villa a Bervely Hills, talmente alto è il valore che do a questo tempo che mi dedico. Penso che, se sono riuscita a rinunciare a una piccola porzione del tempo in famiglia, significa anche che la famiglia, oggi, funziona un po’ meglio rispetto a qualche mese fa.

Significa che riesco a lasciar andare qualcosa. Così come riesco a cadere da quelle pareti, riesco a soffrire un po’ di meno se torno a casa e trovo mio figlio con l’ADHD che è come una scheggia impazzita perché magari è stanco. So che non posso fare molto di più in quel momento se non accompagnarlo con pazienza verso il sonno. So che, se avessi trascorso lì anche le due ore precedenti, non avrei di certo avuto un risultato diverso. So che il giorno successivo potrò recuperare in qualche modo quel tempo, so che in mia assenza Federico avrà fatto tutto ciò che avrei fatto anche io, forse molto meglio di come lo avrei fatto io.

E non mi sento più in colpa.

Un po’ mi ci sono sentita, un paio di settimane fa, quando ho chiesto a mia madre di tenere i bambini mentre Federico faceva una notte e io volevo andare in palestra. Ma mi sono sforzata di passare oltre quel senso di colpa e sono andata lo stesso. Federico mi ha scritto un bel messaggio: Non sentirti così. Dobbiamo insegnare ai nostri figli ad avere cura di se stessi, ma dobbiamo dare l’esempio noi per primi, altrimenti da chi impareranno?

E così io arrampico. Non sono brava, sono la peggiore della classe. La mia insegnante mi rimprovera spesso perché davanti ad alcuni ostacoli e ad alcune fatiche io mi fermo. Lei non sa che gli ostacoli io in quel momento li sto affrontando lo stesso, solo che non si vedono, li vedo solo io. Per me va bene così, io so la fatica che mi sento nelle gambe, nelle braccia e nel cuore quando sono lì. Io so quanto mi renda felice il fatto stesso di sentirmi felice lì, senza uno scopo, mentre cado all’indietro sul materasso quando una presa mi scivola da queste mani imbranate. Come faccio a spiegarle che io sono una blatta e so camminare sui muri, ma a volte cado e resta a pancia all’aria e va bene così?

Poi esco da lì, entro in macchina, metto la musica e mi sento come se avessi circumnavigato l’Africa, esplorato la Malesia, dormito in tenda al polo nord. L’adrenalina mi batte nel petto e sono felice. A casa, i miei figli mi aspettano entusiasti ed elettrici, sfibranti, meravigliosi. A volte Alessandro ha una piccola crisi dovuta al sonno, ma non fa niente. Metto via la sacca della palestra, sono di nuovo la loro mamma.

Sibling: essere il fratello di un ADHD (e Dop, e autistico, ma vabbè…)

Flavio ha 4 anni, è biondo, ha gli occhi azzurri, un buon carattere, è forzuto ed ha una bella tempra. Flavio si può definire in molti modi, ma una delle sue definizioni è che è un sibling.

I sibling sono i fratelli di disabili.

La disabilità di un membro della famiglia definisce anche gli altri membri della famiglia stessa?

Dispiace dire che è così. Sembra una prospettiva disabile-centrica, ma cavolo se è vero. Perché se vivi con una persona che ha un problema, vivi il suo problema. Se vivi con una persona che ha delle peculiarità, quelle peculiarità influenzano la tua vita, nel bene e nel male.

Mi costa fatica definire Flavio usando ancora una volta Alessandro, mi sembra di sottovalutarlo, ma non è affatto così e del resto non posso fare altrimenti. Poi, intendiamoci bene, Flavio è miliardi di altre cose (4 anni, biondo, occhi azzurri, forte etc.) ma il fatto di crescere e confrontarsi con un fratello come il suo è uno degli elementi con cui fa i conti dalla nascita, quindi rientra nei criteri di definizione.

I rapporti tra fratelli sono sempre molto complicati. Il fratello è il pari con cui ti raffronti in famiglia, qualche volta è un alleato, altre volte un nemico. Comunque, resta uno specchio in cui vedi un percorso simile al tuo, con cui condividi le regole e la guida dei genitori. Ma è proprio quel “pari” che, nelle famiglie con un bambino disabile, secondo me viene a mancare. Perché, per quanto tu genitore cerchi di dosare le energie per entrambi e di far arrivare il tuo amore nella stessa misura, il bambino che ha bisogni più impellenti non è mai il sibling. Ci sarà sempre una terapia a cui portare l’altro, una riunione con la scuola, un appuntamento alla Asl, una pratica dell’INPS che sottrarrà tempo al figlio senza disabilità. E al figlio senza disabilità si chiederà sempre di fare quel piccolo sforzo in più per capire e tollerare il fratello.

Quindi, di quale parità parliamo? La situazione è al contrario impari, a me a tratti sembra addirittura ingiusta (ma forse qui è il senso di colpa a parlare al posto mio) e quindi penso che il rapporto tra un sibling e suo fratello sia meno alla pari rispetto al classico rapporto tra fratelli. Tuttavia, dicono che per il sibling crescere con un fratello “diverso” sia anche una grande risorsa, che se il sibling viene coinvolto in modo positivo nella gestione familiare, ne può uscire più maturo, sensibile e consapevole.

Flavio ha solo 4 anni e ancora non so che piega prenderà la sua personalità nei prossimi anni. Non so se ne uscirà responsabilizzato e sereno oppure solo ribelle e arrabbiato. Cercherò di dargli tutti gli strumenti di cui avrà bisogno, così come oggi cerco di non fargli mancare affetto e attenzioni, ma mi rendo conto che per lui non deve essere semplice convivere con un fratello che sì, è divertente, brillante e simpatico, ma che al tempo stesso quando è arrabbiato (e ci sono periodi in cui lo è spesso) urla, offende e lancia le sedie. Penserà che quel comportamento sia normale? Questo è il motivo per cui, dopo una crisi di Alessandro, solitamente anche Flavio si mette a urlare, sebbene a lui passi subito?

Dicono anche che, per un sibling, non esiste la percezione di anormalità nel rapporto con il fratello disabile, perché lo ha visto nascere o è nato dopo di lui, per cui considera normale avere un fratello con quelle caratteristiche. Certo, non lo metto in dubbio, ma non so quanto sia piacevole.

Purtroppo il rapporto tra loro due non è dei migliori. Non giocano mai, se non in rarissime circostanze e situazioni particolari, si stuzzicano di continuo e ogni scambio verbale si trasforma immediatamente in scontro. “Ma questo è normale tra fratelli”, direte voi. Può darsi, ma non credo che sia normale che avvenga il 100% delle volte e del tempo che passano insieme. Il fatto è che, in presenza di un disturbo del comportamento, la qualità delle relazioni si abbassa moltissimo. Non è certo colpa di chi ha il disturbo, ma non posso biasimare chi non ha nessun disturbo e si trova alle prese con la persona che invece ce l’ha, e che magari risulta aggressiva, scortese, fastidiosa.

Mettiamoci anche che Flavio ha sempre e solo 4 anni, per cui può capire fino a un certo punto. Per lui, stuzzicare il fratello per avere la sua attenzione, fosse anche un bel calcio nel didietro, è del tutto normale, oltre che appropriato alla sua età. Ma dall’altra parte c’è Alessandro che non tollera i bambini più piccoli di lui, e che in aggiunta nutre verso il fratello una grandissima gelosia. Non posso biasimare neanche lui, che per quanto cresca circondato di attenzioni e facilitazioni, dovrà pur provare un pizzico d’invidia per quel bel fratello biondo-occhi azzurri dietro cui tutti si sciolgono e a cui le relazioni amicali vengono così facili, al contrario di se stesso che invece fa un’enorme fatica a gestire emozioni, affetti e tutto.

Insomma, questo mix fratello normodotato/fratello atipico/immaturità dei 4 anni/ maturità ancora parziale dei 7 anni/carattere forte di Alessandro/carattere altrettanto forte di Flavio diventa spesso esplosivo. Molto spesso. Così spesso che anche la psicologa di Alessandro, dopo averli avuti qualche volta insieme nell’ora di terapia, mi ha detto che vuole lavorare proprio sul loro rapporto.

E io lì ho tirato un sospiro di sollievo, perché sono 4 anni che penso di non potercela fare da sola, che nel loro legame così avviluppato e poco funzionale io non riesco a metterci le mani, non so da dove cominciare. Allora va bene chiedere aiuto, forse qualcuno dall’esterno potrà guidare questi due fratelli verso la loro dimensione.

Perché poi si vogliono bene, di questo esistono tante piccole prove, ma sono come quelle coppie che non fanno che litigare e che alla fine, se non vogliono divorziare, devono affidarsi al terapista.

Flavio ha solo 4 anni, è biondo, ha gli occhi azzurri. Ha una stazza importante, inoltre ha una personalità accesa. Orgoglioso, fumantino, ma anche socievole e collaborativo, preciso e acuto. Inoltre Flavio è un sibling, vive con un fratello che non sa regolare le emozioni e che non sa ancora interagire al meglio con il mondo.

Quando Alessandro ha una crisi, a volte Flavio ha paura. Altre volte si isola e gioca da solo. Qualche volta mi guarda e si limita ad alzare le spalle. Cerco di spiegargli sempre che non deve avere paura, perché Alessandro abbaia ma non morde. Poi, magari tra qualche anno, spero che voglia ascoltare tutta la storia e che capisca che di suo fratello c’è da essere anche fieri, per tutto l’impegno che ci ha messo. E spero che mi crederà quando gli dirò che anche di lui c’è da esser fieri, perché ha vissuto con noi una grande avventura, una corsa sfrenata nella vita senza possibilità di riprendere fiato, mai. Spero che sappia capire il valore della diversità, lui che una diversità ce l’ha avuta sotto gli occhi da quando è venuto al mondo.

Spero che questo piccolo “peso” che l’universo gli ha assegnato si faccia in lui risorsa, quando sarà in grado di capire quanto riesce a sostenere. Spero più di ogni altra cosa che lui e il fratello riescano a trovare il modo di comunicare e stare bene insieme, almeno ogni tanto, anzi sempre più spesso. Il mio desiderio è questo.

Flavio ha solo 4 anni, ma ha già tanto da raccontare, e questo lo deve anche al suo essere nato sibling.

ADHD e farmaci. La scelta più difficile

Ci ho messo quattro mesi a pubblicare questo post. Avrei voluto scriverlo fin da novembre, ma non ci sono riuscita. Forse ora finalmente sono pronta.

Il fatto è che questo è il post più difficile, come la scelta di iniziare la terapia farmacologica per Alessandro è stata la scelta più difficile presa finora.

A fine 2020 la neuropsichiatra che lo segue da quando ha tre anni, la prima che gli ha diagnosticato l’ADHD, mi ha suggerito di iniziare anche un percorso ospedaliero per avere documentazione in più da presentare all’INPS; per avere una diagnosi ancora più accurata di quella fatta nel centro privato e in ASL. E poi, anche, per valutare la somministrazione del farmaco.

Resto di stucco, quello non l’ho davvero messo in conto. Un farmaco, anzi, chiamiamolo con il suo nome: uno psicofarmaco. A un bambino, a mio figlio. Davvero? Ma allora tutti quegli anni di terapia comportamentale, parent training… Ma allora tutti quei miglioramenti… Tutta una menzogna? E gli psicofarmaci non si danno solo nei casi più gravi? Ecco, allora lui è un caso grave?

“Un attimo, non corriamo”. La dottoressa interrompe la catena dei pensieri: “Facciamo valutare all’equipe dell’ospedale, nel frattempo passeranno mesi, lui inizierà le elementari e forse a quel punto il farmaco potrà diventare il nostro asso nella manica, giochiamocela sul momento”.

Quando ti prospettano l’ennesimo cambiamento in una routine che – seppur nelle sue storture – ormai senti come tua, fai sempre tanta fatica ad accettare, almeno questo capita a me. Così per i primi mesi ho continuato a pensare che non sarebbe servito, che probabilmente i medici dell’ospedale mi avrebbero detto che non era assolutamente consigliabile prescrivere uno psicofarmaco a un bambino come lui. Io, però, l’appuntamento l’ho preso, e nel frattempo è passato tutto l’inverno. Era l’ultimo anno di asilo.

In primavera siamo andati alla prima visita, durante la quale la dottoressa ha detto che l’ADHD di Alessandro era conclamato, cioè proprio nemmeno in discussione, ed era di grado severo. In estate inoltrata ci hanno chiamato per i day hospital e per altre valutazioni. Siamo entrati con la diagnosi di ADHD severo, e siamo usciti con diagnosi confermata di ADHD severo, a cui si aggiungevano il DOP (disturbo oppositivo provocatorio), una possibile forma lieve di autismo e una probabile sindrome di Tourette. Ma a parte tutte queste nuove etichette, la cosa più importante, secondo loro, era agire sull’ADHD aggiungendo uno psicofarmaco alla psicoterapia. Ci hanno dato appuntamento dopo altri 3 mesi per eseguire le somministrazioni di prova e trovare il dosaggio giusto per lui.

Ancora una volta, ho usato il tempo che mi era stato dato come un tempo cuscinetto per abituarmi all’idea, passando dal rifiuto iniziale a una posizione più morbida, fatta di “forse”, “vedremo” e “magari smettiamo se notiamo cose strane”.

Iniziano le elementari, le maestre sono brave ma i problemi ci sono lo stesso. Crisi a scuola, noia con attività troppo basilari ma stanchezza con attività troppo lunghe.

I nostri “forse” e “vedremo” diventano “proviamo” e “valutiamo”.

E infine è novembre, il primo day hospital per iniziare la terapia farmacologica. Arriviamo lì che non sappiamo neanche noi cosa aspettarci, forse che una specie di pozione magica trasfiguri nostro figlio. Invece il farmaco è una pillola anonima che lui prende e che apparentemente non genera nessun effetto. Poi passa un po’ di tempo e accade che Alessandro inizi a giocare al tablet senza sdraiarsi a terra o contorcersi sulla sedia. Per tre ore è così, fermo e concentrato sulle sue cose: il tablet, un libro, il suo pranzo. Va tutto bene, può iniziare la terapia anche a casa.

Il dosaggio ottimale non lo si è trovato subito. Non so nemmeno se al momento lo abbiamo trovato. Ma puoi cosa vuol dire “ottimale”. Di sicuro non vuol dire “perfetto”. Di perfetto non c’è nulla, bisogna continuare a vigilare su lui e i suoi stati d’animo, adattare il contesto e le situazioni ai suoi disagi. Di sicuro, però, lui si stanca meno. Quindi, non sempre magari ma comunque spesso, si innervosisce meno. Quindi anche noi siamo nervosi per meno giorni a settimana e tutto gira un pochino meglio. Non dico al top, ma meglio.

Lui non è più calmo, è solo più bravo a incanalare le energie, che sono tantissime proprio come prima. Solo che riesce a utilizzarle in modo un po’ meno dispersivo. Per l’adhd infatti non si somministrano calmanti, ma al contrario stimolanti. Si danno farmaci che stimolano quelle parti del cervello che in un adhd funzionano in modo meno efficace: tutte quelle parti che dovrebbero regolare gli impulsi e che nelle persone con adhd sono meno sviluppate. Questi stimolanti hanno l’effetto di tranquillizzare, e non perché sottraggano energie, ma perché aiutano ad aumentare l’efficienza energetica. È un po’ come passare da una dispendiosa stufa elettrica a un impianto a pavimento: stesso risultato a un costo decisamente inferiore.

Ma torniamo alla vita con il farmaco. Non è andata sempre liscia. Il momento più spaventoso è stato quando ha preso per la prima volta un dosaggio alto e ha iniziato a parlare in modo velocissimo di argomenti che lo ossessionavano. Era andato nel cosiddetto hyperfocus, poi ha avuto una crisi orribile.

Ci sono poi stati tanti piccoli fastidiosi effetti collaterali: le bolle, la nausea, il mal di testa, l’inappetenza, i pensieri ossessivi.

Ogni effetto si è manifestato per qualche settimana e poi è passato.

Ci sono stati i giudizi delle persone intorno a noi, giudizi sempre dettati dalla volontà di fare del bene ad Ale, ma che ci ferivano perché riuscivano a toccare in modo chirurgico le nostre insicurezze.

E poi c’è stato per tutto il tempo quel rumore di fondo fatto di commenti o post sui social o nei gruppi whatsapp, commenti che andrebbero ignorati perché in fondo ognuno ha la sua vita e si racconta la sua verità. Frasi come “Io non darei mai psicofarmaci a un bambino” o “Finché riesci a evitare i farmaci, è meglio”, o anche “Io non ho mai dato il farmaco ma alla fine con tanta terapia le cose sono andate meglio”.

Nessuno, credo, vorrebbe dare uno psicofarmaco al proprio figlio, ma ci sono situazioni in cui ti pieghi a farlo per il bene del bambino. Non perché sia più facile per te genitore, ma perché potrebbe diventare più facile per lui, e anche perché forse nemmeno tu genitore riesci a capire fino in fondo cosa voglia dire vivere con un turbina nel cervello che sta tutto il tempo su di giri, e magari se fossi tu quel bambino e qualcuno ti regalasse un motore più efficiente per gestire i tuoi pensieri saresti felice.

Non è facile decidere che va bene, che darai uno psicofarmaco a tuo figlio. Sembra sempre che con lo psicofarmaco tu ne voglia manipolare l’animo, in un certo senso.

Eppure lo sai benissimo che lo psicofarmaco non manipola niente, e lo sai che in psichiatria a volte i farmaci sono dei salvavita. Lo vedi che, per quanta terapia tu gli faccia fare, c’è sempre quel nucleo che non riesci a scalfire, e lo sai che è lì, in quel nocciolo duro, che si sono aggrovigliati tutti i nodi irrisolti di tuo figlio. Ma al contempo ti chiedi se quel “nucleo” non abbia diritto di esistere proprio come i suoi occhi color nocciola o la fossetta sulla sua guancia, ti chiedi se la sua unicità non stia in fondo proprio lì, in quel lampo di follia che gli vedi balenare negli occhi. E quindi tu che fai, lo vuoi cambiare? E se poi non torna mai più come prima? Se lo guasti?

Il confine è davvero sottile, il cervello è il terreno di incontro tra la nostra biologia, la nostra chimica e la nostra anima. Chi può davvero decidere che lo schizofrenico non vada bene con la sua schizofrenia, che l’ossessivo compulsivo non vada bene con le sue ossessioni e l’adhd non vada bene con il suo motore che gira a vuoto? Alla fine la risposta che mi sono data è questa: se la diversità mentale genera sofferenza in chi è atipico, allora l’atipico ha diritto alla sua pasticca.

Tuttavia, per quante belle cose io mi sia raccontata, il primo giorno in cui siamo stati noi, a casa, a dare la pasticca ad Alessandro, non ho potuto non piangere. Era come se in quella medicina fosse condensata tutta la mia incapacità di risolvere le cose diversamente.

Gli stai dando questo composto chimico perché non sai dargli altro. Perché non basti. Ecco, lo so che è egocentrismo puro, ma mi sentivo insufficiente e incapace. Poi è passata anche questa, come tante altre considerazioni negative che faccio. (“Sei sempre negativa”, mi rinfaccia Federico, che invece soffoca le sue paure con il pragmatismo piuttosto che con il vittimismo come faccio io).

Quei pensieri lì sono passati e la pasticca è diventata routine. Chi ha tempo per crearsi più problemi di quanti non ce ne siano già?

E poi, finalmente, abbiamo iniziato a contare anche gli effetti benefici. Quelle volte che a scuola è riuscito a lavorare più a lungo, o che a casa ha letto un libro per più di un’ora, o che è stato paziente in fila alle Poste.

Ma ci sono state occasioni terribili in cui la maggiore capacità di concentrazione lo ha portato ad annoiarsi ancora più facilmente e a reclamare continui stimoli.

Le sue crisi, più che in passato, dipendono ora dalla noia.

“Mi avete aiutato a concentrarmi, ma ora su cosa mi concentro?”.

Non dimentichiamo, infatti, che è anche un bambino plusdotato. Non si accontenta di una palla e di una bici. Con il farmaco più che mai, va in cerca di esperienze gratificanti e grandiose che lo assorbano, di avventure esaltanti di cui lui sia il protagonista. E non è semplice, per noi, offrirgli una vita che sia al tempo stesso soddisfacente ma tranquilla, routinaria ma emozionante, accogliente ma ogni giorno diversa. Non è semplice e nemmeno lo vogliamo sempre, perché vorremmo anche che lui imparasse a stare nella sua noia. Ma lì arriva la crisi, che ci sottrae tempo, energie, che rompe, che travolge, che influenza il fratellino il quale, il giorno dopo, inizia a imitare il fratello maggiore.

Un gran casino.

Io oggi non lo so se il farmaco è la nostra strada. Sto ancora setacciando i miei pensieri per separare il pregiudizio dalla valutazione oggettiva, il senso di colpa dal senso di responsabilità.

Ma intanto stasera ho finito di scrivere questo post e tra poco lo pubblicherò, sebbene mi faccia paura sapere che dirò a tutti che mio figlio prende uno psicofarmaco. Ci sono casi però in cui la paura esige di essere presa a schiaffi affinché non si incancrenisca.

Quando avrò cliccato su “Pubblica”, sarà come in quei sogni in cui sei nudo davanti al pubblico, ma sarà anche come svegliarsi dopo quei sogni e scoprire con sollievo che la vergogna la provavi tu da solo. Non c’è nessun pubblico, e anche se ci fosse un pubblico, dopo resteresti sempre e comunque tu con i tuoi problemi, insomma al pubblico sai che gliene frega di te. Ma ti ritroveresti anche più vera e forse più leggera per esserti cancellata dalla fronte il marchio che, tu da sola, ti eri impressa.

Paura, fallimento, impotenza, speranza

Alessandro ha paura delle punture e stamattina aveva le analisi del sangue. Abbiamo cercato di prepararlo al meglio nelle ultime settimane ma non è servito, Alessandro oggi non è riuscito ad affrontare la sua paura. Lui stesso si era preparato una “strategia” (così la chiamava) per la missione analisi, diceva che avrebbe guardato il tablet e offerto il braccio ai dottori e sarebbe riuscito ad affrontare la sua paura, ma non è andata così.

È andata che è rimasto tranquillo fino all’ingresso nella stanza dei prelievi, dove alla fine si è bloccato per iniziare a piangere, poi a urlare, poi a scappare, poi a parlare troppo, poi a sudare, e tutte queste cose tante volte in tanti ordini differenti.

Siamo andati a fare una lunga passeggiata e abbiamo fatto un salto al mercato lì vicino, dove al banco di fiducia ci ha salutati e incoraggiati l’affezionato Gabriele. Ma non è servito a nulla. Siamo quindi andati dal fioraio, a cui Alessandro ha raccontato di non essere lì perché ama o fiori, ma per calmarsi e poter fare il prelievo. Ma non è servito a nulla. Abbiamo persino comprato i cornetti ai dottori per stemperare la tensione e fare amicizia, ma nulla.

Una volta tornati nella sala prelievi, è ricominciato tutto da capo.

Non esagero, una ventina di persone ha provato con metodi differenti a convincerlo o rassicurarlo. Una vecchietta l’ha chiamato “bello di nonna” afferrandolo prima che lui si catapultasse in fuga per le scale. Una signora si è inginocchiata e l’ha guardato negli occhi dicendogli che anche lei aveva paura ma che sarebbero entrati insieme tenendosi per mano, se lui avesse voluto. Più donne gli hanno offerto la compagnia dei propri figli in sala prelievi, i bambini erano tutti d’accordo. Molte vecchiette e vecchietti l’hanno incoraggiato con “non è niente”, “ma tu sei coraggioso” e tante altre frasi che potete certamente immaginare.

Dopo due ore alla ASL, ho giocato la carta nonna e ho chiesto a mamma di raggiungerci. Si è catapultata: in quindici minuti, col fiatone, era da noi, la guardia giurata dietro di lei per vedere chi fosse quel ragazzino le cui urla si sentivano fino alla guardiola al piano terra.

I dottori e gli infermieri sono passati dall’insofferenza iniziale ad una sollecitudine maggiore. Poi si sono di nuovo stancati di noi e mi hanno detto che avrei dovuto portare il bambino in un ospedale pediatrico. Poi hanno iniziato di nuovo a provarci anche loro, con tutti i metodi possibili, ma non c’è stato verso. Quando mi sono arresa e ho rimesso la giacca ad Alessandro, anche per questi medici era finito il turno e si sono fermati a parlare con me. Mi hanno detto che avrei potuto provare al Bambino Gesù, ma lì – ho replicato io – non c’è possibilità di prenotare e per Alessandro le attese sono, in alcuni casi, impossibili da sostenere. In che senso, mi hanno chiesto. Allora ho spiegato dell’ADHD e del resto, e loro forse a quel punto hanno capito davvero che cosa stessimo vivendo io e Ale. Penso che fino a quel momento non ci avessero davvero “visti”. Si sono fermati tutti a ragionare e mi hanno proposto di organizzare un prelievo in un’altra stanza, magari con la presenza della neuropsichiatra a supporto di tutta l’operazione. Non so se faremo così, in settimana tenterò prima la strada del Bambino Gesù, poi vedremo.

Nel frattempo, cerco di dare un senso a questa giornata.

Il primo sentimento che penso di aver provato è un fortissimo senso di impotenza, che mi ha ricordato i tempi in cui “subivo” le crisi di Alessandro senza riuscire a guidarle, né a prevenirle. L’unica differenza è che questa volta non provavo nessuna vergogna, sebbene gli occhi di tutti fossero puntati su di me. La mancanza di vergogna mi ha aiutato a mantenere i nervi saldi per due ore e mezzo e forse ha aiutato Alessandro a contenere la sua paura, evitando che trascendesse in vera crisi di rabbia.

Ma a fargli fare il prelievo non ci sono riuscita comunque, perciò ora provo un forte senso di fallimento. Ero davvero convinta che saremmo riusciti a portare a casa il risultato. Soprattutto lo speravo, perché Alessandro ha passato tutta la settimana ricadendo in comportamenti bizzarri, in particolare a scuola. Martedì scorso ha trascorso la mattinata sdraiato a terra tra i banchi, per dirne una. E oggi, dopo questa esperienza, è ricomparso il tic che aveva fatto la sua prima apparizione proprio in un’occasione simile e che ultimamente sembrava essere quasi andato via.

Non essendo riuscita a offrire a mio figlio delle strategie funzionali, mi è venuto da ripensare alle parole della sua psicologa: “I comportamenti di Alessandro cambieranno nel tempo e vi porranno davanti sempre nuove sfide, anche quando avrete la sensazione di poter ormai fronteggiare tutto.”

E così è stato, è arrivato il comportamento imprevisto a cui non ho saputo dare una risposta.

Ma.

Per fortuna c’è anche un “ma” in questa storia.

Sebbene Ale si sia paralizzato davanti alla sua fobia, non ha avuto una vera e propria crisi di rabbia, di quelle con schiuma alla bocca e parolacce urlate ai quattro venti. Anzi, devo dire che la sua paura l’ha manifestata in modo molto forte ma anche molto preciso, senza farsi inquinare da altri sentimenti e soprattutto senza mai perdere la lucidità. A parte brevi momenti in cui non riusciva più a guardare negli occhi nessuno, è rimasto sempre presente a se stesso. Quindi, tutto sommato, lo considero un passo avanti rispetto a quelle crisi disumane, sfibranti, che solitamente lo percuotono come bastonate lasciandolo intontito anche per giorni.

Allora mi dico che forse l’ultimo sentimento che provo oggi è la speranza, perché vedo un suo percorso e anche un mio percorso. Non è affatto facile, si compone di tanti insuccessi e dubbi e a volte sembra davvero di camminare nella melma di un pantano, ma qualche passo ecco che lo abbiamo fatto anche noi.

E stasera avevo voglia di fissarlo qui, perché penso che questa giornata orrenda si meriti di finire così, con una vomitata sulla tastiera che mi lasci libera stanotte di sognare giorni più semplici.

La lunga strada dell’accettazione

Erano più di 30 anni che mi raccontavo una grande bugia: che fossi forte.

Ci credevo davvero: avevo vissuto una serie mediamente lunga di difficoltà, alcune delle quali anche importanti. Inoltre avevo accettato e superato sfide ambiziose, sia lavorative che personali. E questo mi faceva illudere che fossi forte, perché ogni volta – nonostante la paura – mi ero sempre lanciata e, contando solo sulla forza delle mie gambe, alla fine ce l’avevo fatta.

Ecco, cazzate.

Ce l’ho fatta finché era qualcosa che potevo risolvere con le mie risorse, oppure qualcosa di ineluttabile che però prima o poi portava a una conclusione, fosse anche un funerale catartico quando moriva qualcuno.

Adesso, invece, è completamente diverso, e ho scoperto una vulnerabilità che neanche lontanamente sospettavo di avere. Ho capito che una cosa è stare su un percorso a tutta velocità, provando l’ebrezza di schivare o distruggere gli ostacoli, con vento, sole e pioggia in faccia. Molto diverso, invece, viaggiare su una macchina scassata che a volte parte, altre no, e che non hai modo di aggiustare perché è solo così, è rotta.

È rotta e tu la devi usare lo stesso.

Non puoi mettere da parte i soldi per comprarne una nuova. Non puoi iniziare a studiare meccanica per migliorarne le performance. Non puoi nemmeno imparare a guidare meglio, perché non sei tu che non sai guidare, anzi, tu sei un pilota brillante. Ma lei è rotta, e tu sei incatenato al sedile a tempo indeterminato.

Questa prova di resistenza, che nemmeno è una prova proprio perché il traguardo non è previsto, è la prova che non riesco a superare. Proprio la sfida che non è una sfida, quella che non richiede impegno, non richiede capacità, non richiede nulla se non alzarsi la mattina e arrivare vivi a sera, io la sto perdendo. Ci riuscirebbe anche una pianta, e io invece la sto perdendo con me stessa.

Il motivo è solo uno: io non l’ho ancora accettata.

Pensavo di essere forte, ma è la mia forza che questa volta mi rende fragile. Abituata a sollevare il mondo sulle spalle, sono qui che lo sollevo anche se non serve. Fatica inutile, frustrazione immensa, perché continuo a schiacciare l’acceleratore su un motore singhiozzante, quando invece sapete cosa dovrei fare? Lasciarmi portare e accettare.

Già, accettare. Accettare che ci siano giornate, come questa di oggi, in cui le cose iniziano male e finiscono peggio. E ciò nonostante, sentirmi fortunata.

Accettare che ce ne siano altre in cui tutto si incastra bene e si vede qualche spiraglio. E ciò nonostante, non aspettarmi niente il giorno dopo.

Accettare che il giorno seguente quello spiraglio si chiuda di nuovo e continuare lo stesso a fare come se nulla fosse (cioè a vivere), azzerando le aspettative.

Aspettative. Sono quelle che ti proiettano in un futuro immaginato e che ti aiutano a costruirlo. Sempre che le cose possano dipendere in qualche modo da te, altrimenti è meglio che te le levi dalla testa. Ma si può vivere senza progettualità? Evidentemente sì, solo che io non lo so ancora fare.

Mentre sono qui che mi arrabbio perché il mio motore 800 cavalli non mi serve a nulla proprio ora che dovrebbe aiutare la persona che amo di più (mio figlio), e mentre sono qui che mi sento in colpa perché chi ha davvero un problema non sono io (infatti è sempre mio figlio), si inabissano tutte le altre qualità che avevo. Tipo: il senso di gratitudine, l’entusiasmo, l’ottimismo. E divento acida, cinica, pessimista.

Fragile nella sostanza, coriacea nella forma. Sono diventata una vera merda di persona.

La 104 è un marchio?

Sui vari gruppi social che frequento mi imbatto spesso in genitori che si chiedono “sarà giusto far riconoscere la 104 a mio figlio?”. La Legge 104, ricordiamolo, è la legge italiana che riconosce giuridicamente un handicap.

Li capisco questi dubbi: nessuno vorrebbe che il proprio figlio fosse etichettato come “diverso”. Eppure, nella mia personale esperienza, più che un’etichetta, la 104 è stata una grandissima ancora di salvezza.

Non so se questo dipenda dalla gravità della situazione. Può darsi che davanti a un’ADHD più lieve, e magari avendo avuto la fortuna di trovare degli insegnanti pronti a farsi carico di quel bambino un po’ speciale, si possa andare avanti anche senza una tutela legale.

Nel nostro caso, il riconoscimento di uno status giuridico ci ha sollevati da una situazione di discriminazione ed esclusione. Parlo ovviamente della scuola, ma non mi limito a questa.

Anche rispetto alle altre famiglie con figli della nostra età, sapere che il comportamento spesso sregolato di nostro figlio sia provocato da un disturbo e (quasi mai) dalla maleducazione, ha permesso una maggiore integrazione, comprensione ed empatia. Una solidarietà che ogni volta mi commuove, perché ancora devo abituarmi all’idea di meritarla.

Ciò che invece sento di meritare al 100% è la tutela dello Stato. Lo so, è un discorso un po’ da nostalgica di uno Stato di cui ti potevi fidare, ma è così. In questa realtà frammentata, spesso razzista, individualista, confusa, ho imparato – o forse dovrei dire “sto imparando” – a far valere i miei diritti. Perché a parte quelli, c’è molto poco: non ci sono terapie in strutture pubbliche, il sostegno scolastico funziona con una burocrazia farraginosa e lenta, la scuola pubblica è costretta ad accoglierti ma spesso ti respinge, la scuola privata ti respinge e basta, gli ospedali e le asl hanno liste d’attesa di mesi, se non anni, l’assegno di invalidità non copre tutte le spese a cui sei costretto, e così via.

E allora sapete che c’è? Che io mi appello a quella legge come se fosse una delle tavole di Mosé, perché anche se il sistema non funziona per niente, su alcune cose non si può passare sopra, non ci passa sopra nemmeno il funzionario statale più svogliato, che alla fine è costretto a darti retta.

Brutto dirlo, ma è così.

E non è un capriccio, è un diritto, badate bene.

Quando la psichiatra della Asl prospettò per la prima volta che in futuro potessimo avere diritto alla 104, sottolineò con enfasi che non sarebbe stata per sempre, e che da adulto nostro figlio avrebbe potuto rinunciarvi senza nessun marchio indelebile.

Oggi mi rendo conto che ce lo disse per farci superare la paura del marchio, perché lei, con la sua esperienza, aveva già visto e capito tutto, e sapeva che presto avremmo avuto bisogno di quel riconoscimento da parte delle istituzioni.

Ricevuta la diagnosi ufficiale di ADHD, ho aspettato per più di un mese di iniziare le pratiche per la richiesta di 104. Un po’ perché ero sotto shock e stavo metabolizzando la cosa, un po’ perché non avevo idea di come fare, ma un po’ anche perché non volevo che accadesse davvero.

Non volevo che mio figlio fosse handicappato.

Ma il fatto è che lo è, che io lo voglia o no.

Il mio compagno Federico sottolinea spesso che handicappato è solo una parola che bisogna dare a chi è diverso per poterlo tutelare. Ma per lui questi bambini speciali sono l’avanguardia dell’umanità.

Il mio amico Daniele mi ha detto più volte che quel termine, “handicappato”, sta scritto sui documenti ma sappiamo che la verità è un’altra, e non ha l’accezione negativa che ha la parola in sé.

Io penso che in Italia, il paese in cui le leggi non si rispettano e quindi se ne creano a profusione, la legge serva a mettere una toppa all’incapacità delle istituzioni/della società/delle persone di occuparsi in maniera spontanea di chi è fragile. Poiché non riusciamo a fare le rivoluzioni culturali, facciamo quelle legislative.

E a me sta bene, perché grazie all’ansia del legislatore abbiamo una delle leggi più inclusive al mondo. Che in alcuni casi non venga rispettata è un altro discorso.

Comunque alla fine io l’ho accolta questa legge, e l’ho salutata come una benedizione, perché nel frattempo, mentre tutto l’iter burocratico per ottenerla si svolgeva tra infinite difficoltà, mi accorgevo che eravamo sempre più ai margini. E io volevo tornare al centro, e volevo dire “Ehi, guardate che esistiamo anche noi. Siamo strani, e diversi, e disturbanti, ma ci siamo cazzo”.

Questo a me non sembra un marchio, a me sembra la scialuppa di salvataggio. Se poi mio figlio, da adolescente, non avrà voglia di usare questa stessa strategia di sopravvivenza, sarà libero di farlo, io gli darò facoltà di scelta. Ma siamo ancora lontani da quello scenario e chissà quante altre cose accadranno nel frattempo.

Era fine agosto 2020, faceva caldissimo. Avevo trascorso le vacanze piena di pensieri, incapace di rilassarmi, di sentirmi felice. Ero sola in casa, come non accadeva più da mesi (lockdown, scuole chiuse, smart working eccetera) e Federico aveva portato i bambini da qualche parte per consentirmi di rilassarmi pulendo. Le pulizie sono state in quei mesi il mio break settimanale, per il solo fatto di poter stare sola per qualche ora alle prese con un’attività manuale scacciapensieri.

All’improvviso ho iniziato a piangere, con lo scopettone in mano, una scena ridicola. Ho pianto tanto, ma non di tristezza. Non era nemmeno un pianto di gioia, non era niente, era solo svuotare una specie di contenitore in cui avevo accumulato tante, tantissime scorie, per tanto tempo.

Piangendo, pensavo che finalmente con la 104, a settembre, si sarebbe aperto un nuovo capitolo, in cui più nessuno mi avrebbe calpestato. Questo pensiero mi faceva piangere. Così come mi faceva piangere pensare a quella donna, cioè io, che 3 anni prima aveva notato delle cose strane nel figlio e lo aveva portato da alcuni dottori nonostante il parere contrario della sua famiglia e di molti amici, e che poi aveva ricevuto una diagnosi ben precisa e aveva dovuto scegliere se intraprendere un iter burocratico che avrebbe cambiato alcune cose in modo profondo. E mi faceva piangere anche, forse stupidamente, ripensare a tutta la fatica dello stare dietro per mesi a quella enorme e idiosincratica macchina burocratica, con e-mail scritte di notte e telefonate ricevute a ogni ora del giorno e tanti giri, infiniti giri da fare, come un videogame sadico il cui unico scopo sia quello di scoraggiarti ad andare avanti. Ho pianto per quella donna, perché la sentivo già così lontana da me, la nuova me con lo scopettone in mano e il mollettone tra i capelli, decisa a lavare via tutta quella lordura e ricominciare con la cazzimma che in quegli anni avevo perso chissà dove.

E sentivo invece di averla ritrovata, la cazzimma. Stava tornando fuori insieme a quel pianto da telenovela di serie B: ero Grecia Colmenares ma mi stavo anche trasformando nella paladina di non so cosa, forse semplicemente di me stessa. Non esagero, credo di aver pianto un’ora, in maniera rumorosa, con singhiozzi violenti, intenzionata a far uscire tutto tutto tutto.

E nel frattempo strofinavo il pavimento come se dovessi scartavetrare il parquet.

Alla fine la mia anima era davvero pulita, e ho capito che non stavo solo piangendo e passando lo straccio, era qualcosa di più profondo.

Stavo vivendo una vera metafora. Stavo inondando una vecchia cantina polverosa, permettendo all’alluvione di portarsi via tutto, tutta l’inutile sporcizia, per ripartire da lì, da quel nuovo status giuridico – la 104 di mio figlio – e ricominciare dallo spazio vuoto, lo spazio bianco in cui ognuno può riscrivere come vuole la propria storia.

Arrivare secondi

Io non ho un solo figlio, e sebbene spesso le mie energie siano completamente risucchiate dall’ADHD di Alessandro, devo ricordare che oltre ad Alessandro esiste anche Flavio. Non sempre è facile, un po’ perché Flavio cresce e viene su da solo, un po’ perché le energie sono limitate, e prima o poi dove non arrivi devi mettere un punto.

Ma Flavio esiste e reclama le attenzioni che gli spettano, dà fastidio come ogni fratello minore, ruba giocattoli, urla e si arrabbia, fa i capricci, rompe le cose del maggiore, picchia e spinge. Eppure, avere a che fare con lui è facile, almeno in questa fase della sua vita.

Ha un carattere molto forte, ma è anche malleabile e ragionevole. Ottiene le cose con la furbizia più che con l’aggressività. Ha momenti di autonomia, che ti danno respiro, ma cerca sempre anche il contatto fisico, in un modo piacevole e tenero. É molto attivo, ma sa dosare le sue energie, per cui riesce a fermarsi quando è il momento di ricaricare le pile. Forse le sue sono doti, forse questa è semplicemente la normalità e io la conosco adesso per la prima volta.

Difficile non procedere per paragoni quando hai più di un figlio. Ogni caratteristica dell’uno prende forma e si staglia sullo sfondo delle differenze con l’altro. Non che prima tu non conoscessi ogni sfaccettatura del tuo primo figlio, solo che tutto era mischiato nel gran calderone del tuo formarti come genitore, sicché era difficile dare un nome preciso alle cose. Per esempio: è davvero un bambino volitivo e un po’ prepotente o è così perché tu sei troppo permissivo? Quante volte te lo sei chiesto? Oppure: è realmente un bambino con un forte attaccamento materno o forse sei tu a non lasciargli spazio?

Nel mio caso le domande erano altre (sarà così aggressivo per colpa mia? Sarà così sveglio per merito di tutti gli stimoli che gli ho dato io? Sarà così indisciplinato per la mia incapacità di dare le regole? E così via…), ma molte di queste domande sono svanite quando è nato Flavio, che mi ha riportato sulla terra facendomi assaporare un altro modo di essere madre, con altre dinamiche, dettate da una creatura con un’altra personalità, completamente diversa. Perché ho capito una cosa, e non l’ho capita finché non ho avuto due figli: possiamo credere quanto vogliamo di essere noi a plasmare i nostri bambini, ma la verità è che sono individui con la propria personalità, con pregi e difetti che esistono e possiedono a prescindere da noi. Abbiamo un ruolo cruciale nella loro crescita e formazione come individui, questo è chiaro, ma il loro percorso nella vita non dipende solo ed esclusivamente da noi. Veder crescere due fratelli, riconoscere le loro differenze intrinseche così come le similitudini, aiuta a comprendere meglio dove finiscano meriti o colpe della famiglia e dove inizi la loro personalità.

Io riconosco, in maniera egoista e anche un po’ meschina, che avere avuto Flavio mi ha salvato. Mi ha salvato dalla paura di avere una parte di colpa nei comportamenti disturbati di Alessandro. Tutto questo è andato di pari passo con la diagnosi dell’ADHD, ma prima dell’ufficialità, durante i momenti più duri, quelli in cui davvero ho rischiato di sentirmi finita e di perdere la lucidità, poter osservare un altro bambino – ugualmente cresciuto da me ma non problematico – mi ha dato la forza di capire che tutto ciò che Alessandro viveva non dipendeva da me. E se questo è stato orribile (fosse dipeso da me, ci sarebbe stata una soluzione), è stato anche liberatorio. Ho avuto sentimenti egoisti, l’ho già detto, ma aggiungo che l’unico modo per aiutare mio figlio poteva passare solo attraverso l’accettazione della natura del “problema”, e quindi ben venga l’egoismo.

Tuttavia, come ogni altro rapporto tra madre e figli, anche il mio è pieno di ombre e contraddizioni. Da un lato, vedere Flavio sereno mi dà la possibilità di concentrare le energie sul figlio più difficile. Dall’altro mi chiedo se tutto questo sottrarre, comparare e confrontare non stia creando un grande vuoto in Flavio. So che nella vita si fa di necessità virtù, e lui ha già imparato a ottenere le cose a modo suo, tuttavia non posso non chiedermi cosa significhi crescere in una famiglia in cui tuo fratello è l’elemento che più preoccupa i tuoi genitori, quello alle cui esigenze devi adattarti per forza di cose, sempre e comunque.

Tempo fa ho pubblicato questo blog su Facebook. Mi ha scritto una mia amica, una ragazza che non sentivo da anni, e mi ha confidato di essere cresciuta in una situazione simile, quella in cui lei era la sorella del bambino diverso. Ho avvertito il peso della sua condizione, il suo enorme senso di responsabilità ma anche lo strascico di una vita ad essere l’ombra di qualcun altro.

A volte, durante le crisi di Alessandro, negli occhi di Flavio ho visto uno smarrimento in cui mi sono persa anche io. Per me è stato difficile, in quei momenti, riacquisire il mio ruolo e tornare ad essere per lui un punto di riferimento, perché la verità è che la serenità dei suoi occhi a me serve per non andare giù. Ma lui ha diritto di smarrirsi, molto più di me, e io il dovere di afferrarlo prima che vada a fondo.

Ecco, io vorrei un giorno potergli dire tutte queste cose, chiedergli scusa se molte volte ho fatto così poco, ma dirgli anche che lui per me è un vento fresco di primavera, una brezza marina che penetra nei polmoni e ristora, è la luce prima di partire per le vacanze, la strada durante un viaggio verso il paese dell’infanzia. Probabilmente tutto questo non gli basterà mai, forse nessuna mamma basterà mai ai propri figli, ma spero ugualmente che lui un giorno lo legga. E lo capisca. E un po’, magari, mi perdoni.

Sì, ma di preciso cos’è l’ADHD?

Negli ultimi mesi ci siamo trovati più volte a dover spiegare l’ADHD alle persone che si occupano di Alessandro. Ci è capitato con le nuove insegnanti a scuola, con il maestro di nuoto, con il maestro di judo e con quello di rugby (tre sport in due mesi, proprio così). Ci è capitato con gli altri genitori della nuova classe, con gli altri genitori del corso di judo e suppongo che a breve capiterà con gli altri genitori del corso di rugby. La piscina, per fortuna, è stata abbandonata, per cui dovremo dare una spiegazione in meno.

Mi sono accorta che definire in maniera chiara e semplice che cosa sia l’ADHD è davvero difficile. La definizione del disturbo, o per meglio dire della neuro-diversità, è “sindrome da deficit di attenzione e iperattività”. Chi ne è affetto ha difficoltà a mantenere l’attenzione ed è iperattivo, cioè non riesce a stare fermo. Tutto questo è riduttivo, perché in realtà le persone con ADHD possono concentrarsi e anche fermarsi, purché abbiano una valida ragione per farlo. Il problema è che la loro “ragione” non coincide con quella del resto della popolazione. Mentre noi senza ADHD, in diverse misure, sappiamo trarre “piacere” o “interesse” anche dal portare a termine compiti poco interessanti, riuscendo a comprendere che se faremo una certa cosa (anche noiosa) poi avremo un vantaggio, le persone con ADHD non sanno lavorare in maniera efficace per raggiungere un obiettivo che non abbia una gratificazione immediata.

Io non traggo piacere dal vestirmi ogni mattina e preferirei di gran lunga restare in pigiama tutto il giorno, tuttavia so che la vergogna di uscire in pigiama supererebbe il fastidio di vestirmi a casa, così riesco a pianificare le mie azioni in vista di uno scenario futuro che posso prevedere grazie ad un mix di esperienza, educazione e anche carattere (sono molto previdente). Una persona con ADHD non riesce a strutturare le sue azioni pensando a quello che ne conseguirà in futuro, per cui non vede il senso nel fare cose noiose o anche solo lente a realizzarsi.

Il presente sovrasta ogni altra dimensione temporale: quella del passato, ovvero l’esperienza, e quella del futuro, ovvero la capacità predittiva, che spesso è banale previdenza (prendo l’ombrello perché il cielo è nuvoloso).

Le funzioni esecutive sono quelle che consentono al cervello umano di organizzare pensieri e azioni per raggiungere un obiettivo. Nelle persone con ADHD non sono come dovrebbero.

C’è poi la questione dell’impulsività.

Quando ho davanti a me una faccia da schiaffi, avverto l’impulso di passare alle mani e di vendicarmi di quella persona che mi sta offendendo. Riesco tuttavia a bloccarmi, perché so che uno schiaffo mi farebbe stare peggio, so che potrei avere problemi con la legge, so che esistono modi più efficaci per ottenere qualcosa da qualcuno e ricordo che una volta da piccola venni rimproverata dai miei genitori per aver picchiato qualcuno. Riesco insomma a inibire un impulso perché so che soddisfare quell’impulso non mi farebbe stare così bene, anzi riaffiorano alla mia memoria le sensazioni negative provate quella volta che schiaffeggiai un altro bambino e venni rimproverata.

La persona con ADHD ha più difficoltà di me a frenare questo impulso, perché al contrario di me non riesce a mettere velocemente sul piatto della bilancia i suoi ricordi e le sue previsioni. Non potendo ricordare con tempismo le esperienze passate né prevedere in maniera razionale le conseguenze delle sue azioni, il prurito nelle sue mani è l’impulso che prevale, perché è l’unico che presumibilmente gli darà piacere. Sembra che per lui quella sia l’unica soluzione, perché il suo cervello non sa elaborare strategie alternative, e spesso quando ci riesce è ormai troppo tardi.

I medici spiegano questo comportamento come scarsa capacità di inibire e di autoregolare il comportamento. Per questo, le persone con ADHD sono estremamente impulsive e istintive, anche quando il loro istinto sembra davvero molto vicino ad un istinto animalesco.

Ma poi arriva il giorno in cui la persona con ADHD si imbatte in un argomento o in un’attività davvero troppo interessante. Probabilmente non sarà un’attività che richiederà lunghi tempi di preparazione o di analisi. Probabilmente sarà un’attività rapida, intuitiva, vulcanica, oppure si tratterà di un argomento d’impatto, esplosivo, dirompente, ricco di colpi di scena. In ogni caso, sarà qualcosa che catturerà la sua attenzione. E allora la persona con ADHD si chiuderà su quell’attività, forse anche per ore. Ma come? Non aveva difficoltà a concentrarsi? Non era incapace di soffermarsi su qualcosa?

Sì, ma in quel caso il suo deficit prenderà una strada diversa. Sarà perfettamente in grado di dedicarsi alla sua passione, ma dimenticherà di organizzare, pianificare ed eseguire tutto il resto. Se è uno studente, non farà i compiti. Se è un adulto, non si recherà al lavoro. Se è un bambino piccolo, non ascolterà nessun richiamo dei suoi genitori e magari dimenticherà di andare in bagno o di indossare le scarpe. Inoltre, spiegano i medici, le persone con ADHD non sanno effettuare il cosiddetto “shifting” da un argomento all’altro. O si concentrano su tutte le cose allo stesso modo e senza stabilire delle priorità, oppure si focalizzano su qualcosa e non ne sanno uscire senza uno sforzo immenso. Tutti noi sappiamo chiacchierare con un amico e ignorare in modo più o meno consapevole il rumore di fondo. Per la persona con ADHD, non esiste rumore di fondo, tutto ha la stessa priorità, per cui più che di deficit di attenzione si dovrebbe parlare di eccesso di attenzione. Ma non è un vantaggio, perché a vivere in questo modo c’è da impazzire: come faccio a restare sereno se il film che sto guardando ha la stessa importanza del clacson che mi arriva da una distanza di 50 metri? E se poi accade che riesco finalmente a concentrarmi su qualcosa e dimentico il resto, come reagisco nel momento in cui devo smettere perché qualcuno mi ha chiamato o magari perché si presenta un imprevisto?

Ecco, appunto, l’imprevisto, un altro grande tema.

La capacità di pianificare e organizzare riguarda anche quella di modificare un programma. Chi ha una visione strategica riesce ad adattarsi ai cambiamenti pur di raggiungere il suo obiettivo. Se invece l’obiettivo è sempre collocato nel presente, nel qui e ora, difficilmente si riuscirà a piegare il proprio comportamento in vista di quel che potrà accadere in futuro. Ecco che subentra una fortissima rigidità mentale, che rende le persone con ADHD molto limitate quando si tratta di affrontare l’imprevisto. Eppure immaginiamo gli iperattivi come persone sempre in corsa sulle montagne russe della vita, avventurieri alla ricerca costante dell’ebbrezza. No, non lo sono. Se per la maggior parte delle persone è piuttosto semplice e automatico cercare le chiavi di casa, infilarle in borsa e poi uscire, per una persona con ADHD lo sforzo mentale è molto più grande. Immaginate perciò la frustrazione quando non trovano le chiavi dove dovrebbero essere, oppure quando sono finalmente riusciti a uscire di casa e scoprono che il loro ristorante preferito è chiuso e perciò dovranno fare la spesa, ovvero dovranno organizzarsi per fare la spesa. Il loro è un pensiero rigido, il che – attenzione – non li rende affatto degli automi efficienti e volitivi (in stile impiegato modello giapponese), anzi. A causa della loro incapacità di adattare con flessibilità le azioni (o i sentimenti) alle circostanze impreviste della vita di tutti i giorni, si chiudono in stati d’animo negativi e spesso smettono di imparare dall’esperienza. Così i loro problemi si ingigantiscono sempre di più.

Ecco, forse questa è la chiave interpretativa che io, nel mio piccolo, ho trovato per arrivare finalmente a spiegare come mai mio figlio, bambino con ADHD, riesca con estrema facilità a memorizzare quantità enormi di dati su argomenti di suo interesse o possa passare ore a guardare la televisione come in trance, ma non riesca ancora a disegnare o a vestirsi da solo. Questo è lo schema che ho creato per capire la sua rabbia, e finalmente digerirla. Questo è il paradigma che adesso governa la nostra vita, in cui tutto deve essere pianificato, spiegato, adattato affinché la quotidianità non vada a rotoli come tantissime volte ci è successo.

Ma io ho impiegato 5 anni per capirci finalmente qualcosa, e ancora mi sento molto incompleta, per cui vorrei tanto sapere come trasmettere questa complessità, questa ricchezza, anche alle altre persone. A volte mi arrendo, lo ammetto, e mi riduco a dire che è iperattivo e ha bisogno di sfogarsi. Ma so che sto tradendo lui e la sua essenza, so che sto riducendo a una frase molto superficiale tutta la sua unicità.

Ho capito perciò che parte del mio impegno è volto a trovare parole più semplici per dire chi è mio figlio. Non ci sono ancora riuscita, ma la vita è complessa, lui è magnificamente complesso, e io ho bisogno ancora di altro tempo. So che le cose diventano semplici solo quando le si è capite perfettamente, perciò mi dico che forse è perché non è ancora arrivato il momento, devo ancora camminare su questa strada alla ricerca di un modo comprensibile per definirla. Forse il giorno in cui saprò dare un nome al mio cammino e saprò dirlo anche agli altri, mi sentirò anche meno sola di adesso. Per ora, invece, cammino.

Mentre siamo in vacanza

Siamo in vacanza e avrei tante cose da raccontare, ma scrivo dal cellulare e non posso dilungarmi. Voglio solo fissare alcune idee, che elaborerò meglio al mio rientro.

Sta andando tutto molto bene. Non è il primo viaggio che facciamo, ma forse è il viaggio in cui siamo più consapevoli di quello che siamo e di come possiamo agire per far funzionare tutto al meglio.

Ci sono tantissimi aspetti da migliorare, ma nel complesso ce la caviamo.

Riporto qualche episodio. Ieri Alessandro aspettava con ansia di andare in piscina, ma un imprevisto glielo ha impedito. Quando ho saputo che non avremmo avuto tempo per la piscina, l’ho guardato e gli ho detto: “Devi sapere una cosa. Ti farà arrabbiare, ma vedrai che riusciremo a gestirla. Purtroppo papà ha avuto un contrattempo e non può portarti a nuotare come promesso.”

Nei suoi occhi sono passate mille nuvole di bufera, piene di pioggia e lampi. Ero pronta al peggio, ovvero a una lunga crisi senza se e senza ma. Invece è scoppiato a piangere come qualsiasi altro bambino, ha protestato, ha detto che non sarebbe andato da nessuna parte, ma poi è finita lì. È finita lì. Mi ha seguita in macchina, continuando a borbottare si è addormentato, al risveglio era come nuovo e abbiamo passato un bel pomeriggio.

Poi c’è stato l’episodio della spada, una spada da gladiatore che chiedeva da giorni. Finalmente ci decidiamo a regalargliela ma nel negozio non la troviamo più, è stata venduta appena la sera prima. Penso che si debba portarlo via di là il prima possibile, ma lui sbatte i piedi e per tre volte urla “No” con tutta la sua voce. Va verso uno scaffale coperto da alcuni teli, la commerciante lascia fare, io gli dico di non toccare e ancora una volta gli propongo di andare fuori a parlarne. Lì dietro ci sono altri giocattoli, non so perché li tengano lì, comunque ci sono. Li guarda e con rapidità sceglie un altro gioco, esclamando: “ecco, ho trovato un’alternativa e non mi arrabbio più!”. Applausi.

Ci sono state poi tante piccole ribellioni, ma tutte innocue. Abbiamo spiegato, a volte abbiamo urlato in modo irragionevole, altre volte è stato necessario urlare, perché è vero che le regole urlate al vento non hanno valore, ma anche il nostro bisogno di gridare andava assecondato.

Anche se sono sempre sul chi va là nel tentativo di prevenire o gestire, ogni tanto cerco di ridere e basta con questo figlio che oggi sulle giostre correva come un pazzo gridando “Santi Numi”.

Subito dopo si è affacciato dallo scivolo e mi ha chiesto se “Santi Numi” si può dire o è una parolaccia.

Sempre oggi, mi si è piazzato davanti mentre inserivo i soldi in una macchinetta del caffè e ha pigiato compulsivamente dei tasti, facendo uscire un cappuccino. Faceva schifo, inoltre io volevo un espresso. Mi sono arrabbiata tanto e lui ha iniziato a schiaffeggiarsi. Poi me lo sono bevuto lo stesso, perché nella vita capita di volere un espresso e di ricevere invece un cappuccino con latte liofilizzato, ma se trovi qualcuno che ti insegna a mandare giù con coraggio quella miscela nauseabonda, per me vinci lo stesso.

Si fa presto a dire #iorestoacasa

Oggi ho letto in un gruppo social di genitori di bambini ADHD che la Regione Veneto ha concesso alle persone con alcuni tipi di diagnosi psichiatriche di allontanarsi da casa entro il raggio dei 200 metri. Non ho ancora verificato la fonte e non conosco i dettagli, ma non mi sembra affatto una cosa priva di senso. La cattività tra le mura domestiche non fa bene a nessuno, ma è ancora più dannosa per chi è instabile, incline alla paranoia o alla depressione, così come per gli iperattivi. E per le loro famiglie, aggiungo io.

Infatti nel gruppo molti genitori ne parlavano come di una benedizione, perché in caso di crisi dei figli avevano la possibilità di farli uscire e di farli camminare per qualche metro, ristabilendo un equilibrio che altrimenti sarebbe stato assai difficile da ritrovare.

Come tutti, anche noi siamo in casa da tre settimane e mezzo. In queste lunghe giornate non mi sono annoiata, non ho dovuto cercare ispirazione guardando le dirette social dei vip, non ho potuto rinfrescare tutte le stanze. Chi sta lavorando da casa come me, oppure chi non sta lavorando ma si ritrova in casa con dei bambini lo sa benissimo: la noia è un lusso ormai dimenticato. Io però temevo moltissimo questa reclusione, avevo paura che rompesse il sottile guscio in cui mio figlio Alessandro aveva finalmente trovato un embrione di equilibrio.

Da un giorno all’altro, niente più scuola con la nuova insegnante di sostegno che aveva appena iniziato ad allacciare i fili di un legame di reciproca fiducia, niente più terapia due volte a settimana con una dottoressa che ormai è un punto di riferimento per lui e per noi, niente più nonna, una figura centrale per Alessandro, il suo rifugio sicuro.

Retorica familista

Forse adesso siamo già troppo stufi, ma all’inizio era tutto un fiorire di “approfittatene per stare con i vostri bambini” e “quanto è bello avere finalmente tempo per i figli”. Io non mi sono unita al trenino della retorica familista, perché per quanto ovviamente anche io fossi contenta di passare delle ore con i bimbi, la verità è che penso che la famiglia non basti.

Non basta a nessun bambino, e soprattutto non basta a un bambino che ha bisogno di aiuti speciali proprio per imparare a vivere fuori della sua famiglia. Senza rete non si sopravvive. Se la rete la devi costruire a fatica, e ti si strappa di continuo, e tu ogni volta la ricuci pungendoti le dita, la paura di restare ancora una volta senza ti può davvero far sentire come se ti stessi scontrando contro un muro.

Ma oltre a questo ho fatto un altro pensiero: perché dovrei essere finalmente felice di godermi i figli? Non me li sarei goduti fino a oggi? E dov’ero, allora?

No, mi dispiace, ma non ci casco. Sono quello che sono, e le scelte che ho fatto e che faccio non hanno sottratto niente ai miei cari, perché se è vero che sono per molte ore al giorno lontana da loro, penso di dare tutto ciò che posso, con una presenza emotiva che non si misura in giri di lancette. Io, oggi, penso davvero di non poter dare più di quel che do, per tutti i pensieri che ho fatto, per tutte le parole che ho detto, per tutti i bocconi amari che ho mandato giù e tutte le piccole vette che ho conquistato. E se anche ci fosse qualcosa in più da dare, non sarebbe alla mia portata, perciò è come se non esistesse.

Nota:

Potrei estendere il discorso a tutti gli altri filoni che ho visto diffondersi in questi giorni: “ho avuto finalmente il tempo di pensare”, “ho avuto finalmente il tempo di leggere”, “ho avuto finalmente il tempo di scoprire chi sono”. E quindi? Quando questo tempo non lo avrai più, cosa farai? Ti perderai di nuovo? No, essere presenti a se stessi è un dovere che non può essere legato alla quantità di tempo che hai a disposizione.

Se ti sei perso di vista, forse devi chiederti perché prima di gioire del fatto che qualcuno ti abbia finalmente incatenato di fronte a uno specchio.

E chiudo qui, altrimenti vado fuori tema e sembro pure cattiva.

Tante piccole vittorie

Il pensiero della quarantena in casa con mio figlio iperattivo e con il fratellino più piccolo mi atterriva, è vero, ma sta andando meglio di quanto credessi.

Abbiamo trovato un nostro modus vivendi e andiamo avanti nonostante le ripicche tra fratelli (di routine in tutte le famiglie) e alcuni episodi critici (di routine nella nostra famiglia). Ma le crisi sono sempre circoscritte, non durano più intere giornate come accadeva fino a tre o quattro mesi fa.

Un po’ siamo noi ad aver imparato a ignorare, a dare meno peso, a gestire, a levare di torno in meno di un minuto tutto ciò che potrebbe venir lanciato, a dire la frase giusta al momento giusto, a prevedere l’arrivo del ciclone e a sviare prima che sia tardi, a non chiedere mai troppo, a non volere troppo. E la sera, quando alla fine siamo solo io e il papà sul divano a contare i cocci della giornata, quante pacche sulle spalle ci diamo, per dirci che siamo stati bravi, per consolarci, per assolverci a vicenda di tutte le volte che invece abbiamo perso le staffe. Anche questo riuscirsi a ritrovare ogni sera lo abbiamo dovuto imparare, vincendo quell’impulso distruttivo che ti farebbe venir voglia di dare fuoco a tutto il mazzo di carte ogni volta che il castello crolla.

Ma il merito più grande va a lui, Alessandro, che sta lavorando tantissimo e che lo dimostra ogni giorno con tante piccole vittorie prima impensabili.

Una settimana fa, ad esempio, stava saltando sul letto in preda all’euforia, e sempre in preda all’euforia mi ha mollato un cazzotto dritto su una delle lenti dei miei occhiali. Sono passati 6 giorni e mi fa ancora male il naso, questo solo per dire quanto il colpo fosse forte e ben assestato. Colpa mia: so benissimo che lui, quando prova un’emozione troppo forte, si sfoga fisicamente e picchia, perciò avrei dovuto contenere l’euforia in qualche modo, oppure allontanare la mia faccia. In quel momento, però, mi sono arrabbiata tantissimo, scatenando di conseguenza la sua ira, che di solito aumenta in maniera esponenziale quando si sente in colpa e quando capisce di aver fatto qualcosa di inaccettabile, per giunta contro la sua stessa volontà.

Ma proprio quel giorno è accaduto qualcosa di bello. Io, passati i primi minuti, ho deciso di dirgli che andava tutto bene e che non ero arrabbiata perché avevo capito che non l’aveva fatto apposta (quanto mi è costato farlo, dirglielo e soprattutto convincermene!). Lui non ha dato in escandescenze, ha solo manifestato in modo forte la sua rabbia per una decina di minuti per poi – qui sta il miracolo – tornare su emozioni più contenute e gestibili.

E alla fine, ciliegina sulla torta, ha aperto con me l’argomento (ed è una cosa che non fa mai, di solito torna sul tema dopo qualche mese per spiegare finalmente la sua versione dei fatti): “Mamma, sono uno stupido, perché ti ho dato un cazzotto.” E lì giù a dirgli che non è uno stupido, ma che ha solo fatto una cosa che non si doveva fare. Pianti, qualche timido abbraccio, qualche resistente bacetto prima di tornare a dare pugni, questa volta ad un punching ball strategicamente fatto apparire in giardino.

Forse è una banalità, forse è il minimo che un genitore vorrebbe sentirsi dire dopo aver ricevuto un pugno in faccia, ma per me quelle parole sono state tutto ciò di cui avevo bisogno.

Sta iniziando a regolare il suo comportamento. Non sa ancora fermare quel pugno, forse imparerà, forse proprio non ci riuscirà mai. Ma riesce a fermare quello che viene dopo. Sono così fiera di lui.

Quindi come va a casa?

Ecco, chiarito che a me di stare a casa a fare torte di mele interessa meno di zero e che per me l’interesse primario è che Alessandro riceva le terapie che lo stanno aiutando a crescere, a casa si sta meno peggio di quanto credessi.

Ma questo non cambia di una virgola il mio pensiero: per quanto sia bello stare con mamma e papà, nessuno può fare a meno del contesto sociale, della sua rete. E non basta la didattica a distanza, non bastano i lavoretti, non basta il sorriso di chi ti ha messo al mondo, perché questi bimbi il mondo lo devono vivere e calpestare, ne hanno il diritto.

Non parliamo poi dei bambini che a casa non hanno proprio nessun sorriso, perché magari vivono in contesti violenti o chissà di che altro tipo. Ma a loro qualcuno avrà pensato?

E per quanto riguarda i bambini con bisogni speciali, la quarantena non può che essere una breve parentesi, perché le famiglie sono indispensabili, questo è vero, ma hanno bisogno di supporto, altrimenti il danno può diventare immenso. Io stessa mi chiedo: alla fine di questa fase, avremo fatto passi indietro rispetto al terreno così faticosamente conquistato? Dovremo ricominciare da zero?

Le preoccupazioni sono tante, perciò se qualcuno, in Veneto o altrove, si è posto il problema e ha deciso almeno di concedere 200 metri di libertà, non riesco a non vederlo come un gesto di grande sensibilità verso una realtà che spesso passa sotto traccia, invisibile e difficilissima da spiegare.